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Sono trascorsi 20 anni dalla scomparsa del nostro amato compagno Mauro Stefanini (2 maggio 2005), una perdita tanto prematura quanto drammatica per il Partito comunista internazionalista che lo aveva fra i suoi membri maggiormente preparati e stimati, e per tutti i compagni della Tendenza Comunista Internazionalista che lo hanno conosciuto.
Il suo ricordo non è stato scalfito dal tempo. Non dimenticheremo mai la sua militanza instancabile, la sua disponibilità, generosità e solidarietà non soltanto verso i compagni ma con tutti quelli che gli si avvicinavano e coi quali non rifiutava mai il dibattito, con pazienza ma sicurezza nel sostenere le posizioni teoriche e politiche del comunismo rivoluzionario e internazionalista. Posizioni alle quali non fece mai mancare il suo apporto, fin da giovanissimo. Senza trascurare i vasti interessi che hanno accompagnato la sua vita, anche negli ultimi drammatici anni della malattia che lo tormentò e che seppe lucidamente accettare e sopportare, fino all’ultimo giorno.
Mauro iniziò non ancora sedicenne la sua attività di militante nelle file del Partito comunista internazionalista - Battaglia comunista; ricordiamo i suoi primi interventi su "Battaglia comunista" e poi nel 1970 su "Prometeo". Sia del giornale che della rivista fu il redattore e collaboratore fedele.
Cominciò la sua critica, su basi classiste, al movimento studentesco in modo costante e con serio approfondimento; erano gli anni in cui si svolgeva la contestazione specie all'interno dell'Università Statale di Milano, dove Mauro svolse la sua prima attività politica, per poi dedicarsi ai contatti con gli operai delle fabbriche della periferia milanese.
Sempre presente e instancabilmente impegnato, Mauro verrà presto eletto (1970, a 22 ani, al IV congresso del Partito) nel Comitato centrale e quindi nel Comitato esecutivo nazionale. Diventerà presto il principale animatore dei contatti internazionali del partito, grazie anche alla conoscenza delle lingue straniere (francese e inglese in particolare), e sarà in primo piano nell’organizzazione delle conferenze internazionali di cui fu promotore il nostro partito. Nel 1983 la nascita del Bureau (Bipr) – da cui è nata la TCI - è stata il risultato anche di una sua partecipazione, assiduità e tenacia, al lavoro complessivamente svolto dal partito in campo internazionale.
Purtroppo la morte lo coglierà a Milano quando ancora egli avrebbe potuto dare alla causa del comunismo il meglio di se stesso, come fece ininterrottamente per oltre quarant’anni.
Per ricordarlo, pubblichiamo stralci di un dibattito con alcuni giovani compagni che si stavano avvicinando al partito
nella seconda metà degli anni '90 del secolo scorso.
Abbiamo scelto questo documento, tra i tantissimi da lui redatti, perché affronta una questione, quella del disfattismo rivoluzionario, che allora poteva sembrare, per così dire, solo un'eventualità teorica, anche se vi erano già state la prima guerra del Golfo, la frantumazione dell'impero sovietico, la disgregazione sanguinosa della Jugoslavia e altre guerre si annunciavano. Erano i drammatici effetti della crisi del ciclo di accumulazione post-Seconda guerra mondiale, causata dalla caduta del saggio medio di profitto.
Oggi, purtroppo, la possibilità di una guerra generalizzata non è più un'ipotesi contemplata dalla critica marxiana del capitale, ma si sta concretizzando quale tragica prospettiva che la borghesia internazionale sta imponendo all'umanità. La guerra imperialista, come è già accaduto in passato, ha tra i suoi effetti quello di stanare il finto internazionalismo, di separare chi, a parole, si richiama all'internazionalismo proletario, quando invece si schiera con uno dei fronti imperialisti, in nome di parole d'ordine ampiamente fuori tempo massimo. Tra esse, le più in voga tra i presunti internazionalisti, ci sono le “lotte di liberazione nazionale”, “l'autodeterminazione dei popoli” e via dicendo. In realtà, dietro ci sono gli interessi di articolazioni locali della borghesia internazionale, che vorrebbero gestire in proprio il plusvalore estorto alla classe lavoratrice, alle masse diseredate delle nuove entità nazional-statali, senza spartirlo, o spartendolo il meno possibile, con altri.
Viene quindi da dire che le considerazioni di Mauro sono più attuali oggi di allora. Il richiamo alle sparute forze internazionaliste per denunciare tra il proletariato la guerra, da un punto di vista classista, e alla costruzione del partito rivoluzionario internazionale, strumento indispensabile della lotta di classe, sono nel DNA stesso della Tendenza Comunista Internazionalista.
«Abbiamo sempre posto le questioni dell’imperialismo e della guerra, noi della Sinistra Italiana (Battaglia comunista e Prometeo e fin dal lontano 1943) al centro delle nostre analisi e della nostra stessa caratterizzazione teorico-politica.
E’ acquisizione fondamentale per noi, come lo fu per Lenin, che la guerra è la inevitabile conseguenza delle fasi di sviluppo della economia capitalista. Le guerre nazionali hanno da tempo concluso il periodo della economia individualistica (affermazione unitaria del capitalismo e primi sviluppi della sua accumulazione); le guerre coloniali hanno concluso il periodo della conquista dei mercati (sbocchi commerciali e fonti di materie prime). Infine, la prima guerra mondiale apre la fase delle guerre imperialistiche a ripetizione.
Il capitalismo è imperialismo; l’imperialismo è guerra. L’imperialismo è spinto alla guerra non per scelte politiche, ma per la necessità di sopravvivere alle insanabili contraddizioni che agitano la sua struttura economica, a cominciare dalla diminuzione del saggio di profitto.
La logica dell’imperialismo impone quindi alle maggiori potenze determinate strategie, alle quali – sotto l’impiego della forza bellica quando non bastano più le altre “pacifiche pressioni” – gli Stati più deboli devono assoggettarsi. E tutti quanti, solo attraverso lo scontro bellico e colossali distruzioni di mezzi di produzione e forza-lavoro, possono sperare di avviare un nuovo ciclo di accumulazione capitalista.
Dunque, la questione della guerra va considerata esclusivamente entro precisi limiti di classe. Un assoluto idealistico rischia di diventare il disfattismo rivoluzionario legato oggettivamente e indissolubilmente all’assunto – altrettanto idealistico - per cui la guerra imperialista si trasformerebbe inevitabilmente in guerra civile, e la rivoluzione comunista vittoriosa in alcuni degli Stati capitalistici importanti in guerra rivoluzionaria mondiale per il comunismo. Un accadimento che in un secolo di guerre imperialiste si è verificato in un solo caso e in ben precise condizioni….
In realtà – e pur sempre dando per condizione indispensabile la presenza attiva del partito – si possono, e si devono, combattere le illusioni del pacifismo, del disarmo delle nazioni o della diserzione personale.
Per quanto riguarda il partito, di fronte al verificarsi della guerra, i casi sono due: a) il partito è presente con una certa influenza nei proletari; b) il partito è ridotto ai minimi termini senza alcun collegamento coi proletari. Certo, in entrambi i casi i rivoluzionari non abbandonano (a parole) la tattica del disfattismo, ma è evidente che nel caso (b) c’è poco da… consolarsi dietro la “convinzione” che alla guerra seguirebbe inevitabilmente la crisi sociale offrendo al partito un miglior terreno sul quale svolgere la propria attività.
Già, ma qui siamo sempre alle prese con l’astratta visione di un partito che c’è e non c’è, o che comunque e inevitabilmente dovrebbe apparire al momento giusto…
Ritornando coi piedi saldamente piantati in terra, non c’è alcun dubbio che la tattica del disfattismo rivoluzionario sia l’unica tattica adottabile di fronte alla guerra imperialista. Ma detto questo, o meglio “scritto e riscritto” questo, non è sufficiente perché il rivoluzionario possa dormire sonni tranquilli, in pace con la propria coscienza…
… La sostanza del nostro disfattismo rivoluzionario non si confonde con alcuna impostazione antimilitarista o banalmente pacifista. Assieme a Lenin riteniamo che “l’unica politica di rottura – non a parole – della pace civile (e aggiungiamo anche di quella che precede o immediatamente segue la… dichiarazione di guerra) e di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli”. “Difficoltà”, per così dire, “naturali”, ma, ove possibile, anche “provocate”.
Non saremmo dei marxisti se rifiutassimo questa impostazione tattica, come a questo punto non lo sarebbe chi vi contrapponga una tattica che di alternativo sembra aver soltanto l’attesa delle macerie, in tutti i sensi, provocate dallo svolgimento della guerra stessa…
… Che tattica sarebbe quella di assistere “con letizia” l’accumularsi di sangue e lacrime in un proletariato sempre più stordito e a sua volta imbarbarito? Perché non aspettare, alla finestra, che la crisi economica del capitalismo e politica della borghesia non mandi spontaneamente a rotoli questo bel mondo, aprendo le porte all’avvento del socialismo?
… Rimane sempre fondamentale il lavoro per la costruzione del Partito comunista mondiale, un partito che non si limiti solo a pensare ma che sia anche in grado di operare concretamente. E deve esserlo soprattutto in tempo per sottrarre la parte migliore del proletariato all’influenza devastante delle ideologie della guerra, con cui la borghesia è riuscita fin qui a trascinare al macello milioni di proletari, passivi quando non addirittura partecipi convinti. In realtà, quando la guerra è iniziata, il proletariato si presenta sempre sconfitto sul piano della lotta di classe. E ancora: il vero volto della guerra, in tutta la sua crudezza, bestialità ed inutilità, si presenta alle masse soltanto alla fine del conflitto e negli Stati vinti: anche allora, e come già è accaduto, non tutto è scontato per il rilancio della lotta rivoluzionaria.
Trasformare la guerra imperialista in guerra sociale significa in conclusione riuscire a ricondurre il proletariato sul terreno reale della lotta di classe, possibilmente prima che la mostruosa macchina bellica di morte e distruzione abbia preso il via. Significa riuscire a spostare l’azione delle forze migliori del proletariato all’interno di qualunque situazione a lui eventualmente favorevole, certamente anche nel corso stesso della guerra.
Per questo all’ordine del giorno della storia, per noi rivoluzionari, si pone l’opera di ricostruzione della organizzazione politica di classe attorno al programma rivoluzionario del comunismo. Un lavoro difficile, duro e poco gratificante allo stato attuale delle cose, e che la maggior parte di chi pur si definisce comunista e internazionalista preferisce lasciare ad altri o, al massimo, coltivare nel chiuso del proprio orticello. Tutti, comunque, dediti alla più comoda stesura di personali e magari non sempre originali bilanci e lezioni del passato. Ben vengano anche questi, naturalmente (all’infuori di quelli in cui da decenni si studia l’esatta punteggiatura di qualche sacro testo). Ma una buona rimboccata di maniche e qualche colpo di badile in più non guasterebbe. Anzi.»
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