La rivolta dei forconi e i proletari meridionali

A partire dalla seconda metà di gennaio, in Sicilia è scoppiata la cosiddetta rivolta dei forconi. Una mobilitazione che nei giorni scorsi ha bloccato l’isola per un’intera settimana, e che ora inizia a estendersi anche in altre regioni.

La rivolta è promossa da agricoltori, pescatori e autotrasportatori siciliani, e fa dunque il paio con la contemporanea mobilitazione dei tassisti a Roma e in altre grandi città. In entrambi i casi, infatti, si tratta di ceto medio in via di proletarizzazione, o che comunque ha visto peggiorare drasticamente le proprie condizioni, sotto i colpi di una crisi economica internazionale che i vari governi in carica, “tecnici” o meno, continuano a scaricare sui lavoratori dipendenti e in parte, come in questo caso, sulle frange più deboli del ceto medio.

Ma rispetto a quella dei tassisti, la rivolta dei forconi ha delle caratteristiche peculiari che la rendono, nel bene e nel male, degna di particolare attenzione da parte di chi auspica una ripresa a tutto campo della lotta di classe.

Il primo dato è l’ampiezza territoriale della lotta, che sta coinvolgendo non singole città ma un’intera regione, e che nei prossimi giorni potrebbe anche estendersi oltre lo Stretto di Messina e risalire la penisola.

Il secondo dato è che si tratta della Sicilia, dunque di una regione in cui, come nel resto del Meridione, il tasso di disoccupazione è molto alto e in cui le speranze per i giovani di trovare un lavoro decente, o semplicemente un lavoro, sono davvero minime. Regioni in cui, da 150 anni, moltissimi lavoratori continuano a emigrare al Nord per potersi costruire una vita. Non sorprende affatto, quindi, che in questi giorni gli studenti di molte scuole siano entrati in sciopero per solidarizzare con la rivolta: il malcontento si esprime dove c’è conflitto e viceversa, e in questo momento, in Sicilia, a bloccare strade e autostrade ci sono “i forconi”.

Il terzo dato, molto pericoloso, è l’egemonia che in questo momento hanno dentro la rivolta Forza Nuova e altre sigle della galassia neofascista e destrorsa, come ad esempio il “Movimento per la gente” dell’industriale Zamparini. Un dato che ricorda molto da vicino i fatti di Reggio Calabria del 1970 (leftcom.org), quando una rivolta durissima, che durò più di un anno e che coinvolse non solo il ceto medio ma anche ampi strati proletari e sottoproletari della città, venne pilotata dall’estremismo nero e indirizzata sul terreno qualunquista della lotta per il capoluogo. Oggi come allora, se i proletari non si mobilitano come classe portando con sé i settori più colpiti del ceto medio, il rischio è che accada esattamente il contrario, ossia che il ceto medio diventi protagonista del conflitto, trainando le nuove generazioni senza futuro e i proletari locali nella trappola del corporativismo e del regionalismo.

La confindustria siciliana che parla di “infiltrazioni mafiose” nel movimento dei forconi fa sorridere: come se in Sicilia la mafia e le istituzioni non fossero parte del medesimo sistema clientelare basato sulla paura e su profondissime disuguaglianze sociali. Proprio come nel resto del Meridione.

Chi vive nel Sud nelle zone ad alta densità mafiosa sa perfettamente che, salvo rare eccezioni, a destra e a sinistra il voto di scambio è la norma. Avere la raccomandazione, la protezione, l’aggancio, ecco la parola d’ordine. Altrimenti, se non possiedi un capitale da investire o un’azienda da ereditare, puoi anche fare le valigie e andartene. La manovalanza mafiosa starà da una parte e dall’altra della barricata per controllare la situazione e per evitare che la protesta diventi troppo “spontanea” e anti-sistema. Un po’ come fanno i politicanti.

Ma lasciamo che confindustria faccia la sua parte nel teatrino e torniamo alla rivolta. In sostanza, il punto da cui bisogna partire è che il Sud non è il Nord. Al Sud il capitalismo è senza maschera: sfacciato e brutale. La scala sociale è particolarmente ripida e i poveri sono poveri davvero. In Meridione non esiste un tessuto produttivo capillare come quello delle regioni settentrionali, per cui la classe operaia di fabbrica è numericamente debole rispetto ai proletari impiegati nei servizi, ai sottoccupati, ai disoccupati e ai braccianti agricoli.

Ecco, i braccianti. Questi ultimi, in Sicilia come nel resto del Meridione, sono quasi tutti immigrati e rappresentano forse la chiave per spostare una lotta come quella dei forconi da un terreno corporativo e regionalista a un terreno classista e internazionalista. E’ inutile cercare di opporsi all’egemonia fascistoide della rivolta su un piano meramente ideologico, è nei contenuti che bisogna marcare la differenza. Se questa crisi colpisce anche l’agricoltore proprietario, colpisce comunque molto di più il bracciante immigrato – assunto quasi sempre in nero – che oggi è duramente sfruttato e domani rischia di rimanere senza lavoro e con il permesso di soggiorno revocato. A due anni dalla grande rivolta di Rosarno è su questo che bisogna insistere: sono comunque i proletari a pagare il prezzo più alto, e in particolare gli immigrati, l’anello più vulnerabile della classe.

Noi lavoratori dobbiamo cominciare a rompere le tante barriere che ancora ci dividono: l’operaio di Termini Imerese, il giovane disoccupato di Palermo, il bracciante agricolo della piana catanese, il precario delle metropoli del Nord… sono loro che dovrebbero unirsi in un unico fronte e bloccare le strade, e non tanto per abbassare questa o quella tassa o per opporsi a questo o a quel governatore, ma per rivendicare la legittima garanzia di un lavoro dignitoso, di una pensione decente… Se questi obiettivi risultano assolutamente incompatibili con un sistema capitalistico in crisi a livello internazionale, significa che occorre andare oltre. Perché non basta brandire i forconi: bisogna anche saperli puntare nella direzione giusta. E anche in Sicilia, questa direzione deve procedere oltre la singola lotta rivendicativa e cominciare a mettere in discussione il capitalismo dalle fondamenta, prospettando finalmente un nuovo tipo di società senza più padroni, padrini… e padroncini.

GS

Comments

bello ma utopistico

L'utopia è il capitalismo dal volto umano. Un'utopia anche piuttosto deprimente...

Meglio il comunismo

Non solo è "deprimente"... ma anche vecchia. Il riformismo è più vecchio del marxismo :-)

L'articolo è ottimo, metterei in evidenza questo aspetto: "Ma rispetto a quella dei tassisti, la rivolta dei forconi ha delle caratteristiche peculiari che la rendono, nel bene e nel male, degna di particolare attenzione da parte di chi auspica una ripresa a tutto campo della lotta di classe." Una riflessione: ci son voluti pochi giorni per creare reali problemi alla circolazione e alla produzione delle merci, quindi alla creazione del profitto! Oggi gli impianti FIAT sono fermi, la produzione è ferma, la FIAT in Italia non sta producendo profitti! Il blocco reale della produzione, lo sciopero vero, questa è un arma che i lavoratori devono mettere in campo. La protesta dei trasportatori e dei taxisti ci mostra che ci vuole davvero poco per bloccare la produzione e la circolazione delle merci.

Per lottare contro il piano Marchionne andava bloccata la produzione, invece i sindacati hanno fatto sfogare la rabbia dei lavoratori dietro referendum, ricorsi alla corte europea, dichiarazioni, sfilate di piazza ecc ecc. Hanno messo in campo di tutto tranne la vera ed unica arma di lotta: blocco della produzione. La protesta dei trasportatori indirettamente ha fatto quello che la FIOM non ha fatto: bloccare la produzione negli impianti FIAT! Ma non illudiamoci non sarà la FIOM a guidare la ripresa della lotta di classe, anzi...

E' giunta l'ora di agitare la parola d'ordine dello scioper generale ad oltranza contro i piani di governo, che vorrebbero togliere l'articolo 18 e licenziare a piacere! Guadagnamoci nelle strade la direzione proletaria della lotta partita dai forconi!

Se ci pensi bene non e' utopistico ma in linea coi tempi.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.