Il valore della divisione socialista

Da “L'Ordine Nuovo” del 7 ottobre 1922

L'attitudine critica tenuta dai comunisti italiani dinanzi al Partito socialista e alle sue crisi successive risponde a tutta una linea di dottrina e di esperienza elaborata in modo completo e obiettivo, e in cui solo gli sciocchi potrebbero supporre che confluiscono coefficienti di visioni e antipatie personali. Essa deve essere precisata dinanzi al fatto nuovo della divisione in due del Partito socialista italiano.

Vi è una visione pratica che si pone al nostro Partito: quella dei suoi rapporti con l'ala sinistra delle due che si sono staccate. Questa questione non può essere affrontata se non se ne stabiliscono gli elementi critici, e dovrà esserlo su una tale base. A noi sembra che per evidenti ragioni statutarie e organizzative della internazionale comunista l'organo competente a risolverla sia uno solo: il Congresso del Partito comunista d'Italia. Sono in giuoco problemi di ordine "costitutivo" come la base stessa della composizione del Partito, e il suo nome forse anche ( ma non certo nel senso della spassosa proposta di sciogliere il nostro Partito e "rientrare" nel Partito socialista italiano), ed è solo un Congresso che può deliberare mutamenti alla norma ordinaria di non ammettere che adesioni individuali. In questo Congresso e nella sua preparazione si esaminerà il problema della eventuale fusione. Non vogliamo in questo momento esporre le nostre tesi sulla ammissibilità in generale e nel caso specifico di fusioni, le quali importano un rimpasto completo dell'organismo di partito, con la concessione a tutti di eguale facoltà statuarie all'indomani di essa.

D'altra parte su tale questione ha parlato il C.E. della Internazionale Comunista, e parlerà altresì il prossimo Congresso mondiale. Solo all'indomani di questo, già imminente, si potrà porre il problema all'ordine del giorno di una discussione preparatoria del nostro Congresso, ed è ben noto che nessuno dei comunisti italiani prenderebbe in questo una attitudine di opposizione esecutiva alle proposte della Internazionale.

Intendiamo quindi limitarci al campo della critica obiettiva dei valori di quelle forze politiche che formano l'attuale partito massimalista, ponendoci la questione se questi valori per l'avvenuta divisione, e rispetto a quelli di Livorno, siano mutati nel senso di un avvicinamento ai principi e ai metodi comunisti. Da questa questione evidentemente, dipende quella della loro incorporazione organizzativa eventuale col movimento comunista italiano.

A Bologna tutto il Partito socialista italiano aderiva alla Terza Internazionale facendone proprie ufficialmente le basi programmatiche. Fin d'allora avvertimmo chiaramente che si trattava di un gigantesco equivoco, che il Partito rimaneva un tradizionale partito socialdemocratico, nella coscienza dottrinale, nei modi di azione, nel criterio della sua organizzazione e direzione. E da allora si cominciò a costruire nel seno del vecchio partito una tendenza completamente comunista, che criticava le tare negative del metodo "massimalista" imperante. Questo metodo, e troppo gli avvenimenti lo hanno provato, era il metodo della parodia rivoluzionaria che mascherò di un frasario rumoroso la spaventevole impotenza a seguire il corso delle vicende del dopoguerra con una costruzione effettiva di coefficienti rivoluzionari.

Nella critica al massimalismo, che non ripeteremo qui per esteso, che parte aveva la faccenda della destra socialdemocratica? Dicemmo noi forse, noi comunisti italiani ed internazionali, che i massimalisti erano comunisti, ma che si dovevano separare dai socialdemocratici per trovarsi subito in grado di muoversi sul terreno dei metodi comunisti? Questo sarebbe un modo volgarmente superficiale di intendere la cosa. In realtà noi mostrammo invece come una prova palmare, un sintomo "à créver les yeux" che i massimalisti non erano comunisti, consisteva nel fatto che non comprendevano di doversi separare da "coloro che negavano la dittatura del proletariato e l'impiego della violenza".

Il non sentire la necessità di una chiara impostazione dottrinale e programmatica, dinanzi alla quale è assurdo tollerare col pretesto della disciplina di azione opposizioni di principio, è sempre stato un sintomo di non corrispondenza pratica alle premesse accettate accademicamente. L'avere una chiara base dottrinale è condizione indispensabile per un efficace movimento di azione; certo essa non è sufficiente, e le altre condizioni sono ancora più difficili da riempire: ma se manca la prima tutto il resto cade. Ed infatti la insensibilità dottrinale del massimalismo, la sua essenza di coscienza critica, ci permise di prevedere quello che i fatti hanno mostrato: il suo nullismo in pratica, la sua posizione anticomunista in tutti i settori dell'azione proletaria.

Come i comunisti ben prevedevano, a Livorno il massimalismo preferì la unione con i socialdemocratici a quella con i comunisti italiani e internazionali.

La Internazionale disse chiaramente che dopo un simile atto il massimalismo, dimostra anche ai ciechi la sua consistenza opportunista, avrebbe camminato verso destra e sarebbe finito nell'opportunismo. Previsione che non tardò a verificarsi nella solidarietà completa tra massimalisti e riformisti del Partito socialista italiano nei metodi pratici di azione e soprattutto nella campagna anticomunista.

Sono dopo avvenuti fatti che dimostrano che il massimalismo ha fermata la marcia a destra, e riaccostarsi al comunismo? Noi affermiamo di no.

Non si vorranno certo fare giuochi di parole. Per responsabilità del massimalismo si devono intendere quelle dei suoi interpreti autorizzati e non sconfessati, finché hanno il controllo del movimento della massa: quelle quindi degli organi e dei leader della frazione e poi del Partito, in quanto li rappresentano senza contrasto marcato, segnano la sua coscienza, i suoi atteggiamenti, la sua azione. Se parliamo dei lavoratori che sono nelle file del Partito allora evidentemente cambia il nostro giudizio critico. Essi possono divenire comunisti, ma sottratti al gioco delle tradizioni e dalle influenze del loro apparato dirigente, con la distruzione di questo o il suo abbandono da parte dei seguaci. Ma l'apparato ha una sua "inerzia storica" che non si supera con i cambiamenti di scena, come sarebbe politica supinamente piccolo borghese invertire i dati di una critica motivata e di una opposizione sviluppata con continuità e logica avente base solida nella realtà, in manovre di rappattumamenti e compromessi analoghe a quelle delle comari che si sono "prese per i capelli" per una bizza momentanea.

Adunque noi diciamo che i recenti atteggiamenti del massimalismo verso la destra collaborazionista del socialismo italiano non ci sembrano sufficienti a farci giudicare che esso marci a sinistra.

Si potrebbe dire che deve essere messo alla prova della azione pratica, ma anzitutto il metodo sarebbe troppo lungo, e poi la prova e quotidianamente negativa, fino ai blocchi di oggi con i riformisti contro i comunisti e terzinternazionalisti nel campo sindacale. Teniamoci dunque al valore e al significato in se stessi della secessione avvenuta.

Questa non dimostra che i massimalisti abbiano acquisita questa semplice tesi, nella loro coscienza politica, che è incompatibile la convivenza politica con i socialdemocratici. Serrati ha ragione di difendere la sua coerenza: il suo atteggiamento di oggi non smentisce quello di Bologna, Livorno e Milano. Sono in realtà i destri che hanno mutata la loro posizione. Mutandola, essi hanno realizzati i loro principi ben noti, e qui sta tutta la immutata responsabilità dei serratiani che hanno scaldata la serpe collaborazionista mentre sapevano che avrebbe morso il proprietario, ma in effetti gli espulsi di Roma sono rei di colpe concrete di cui non erano rei quando a Bologna e a Livorno, e a Milano Serrati li volle tenere seco. E il Congresso di questi giorni non ci dà altro documento e altro elemento che non sia la constatazione bruta delle infrazioni disciplinari dei destri, verificatesi dopo i precedenti congressi.

Nessuna dichiarazione programmatica, a cui si sfugge col rimettersi nel crinale equivoco fabbricato dopo la guerra: siamo indiscutibilmente comunisti nei principi, lo siamo stati sempre. Nessun riconoscimento di errori, nessun atteggiamento che dimostri una tendenza ad uscire dalla trappola costituita dal falso comunismo e rivoluzionarismo ostentato da Bologna in poi. Se i riformisti fossero nella posizione di Bologna, i massimalisti seguiterebbero a tenerli con loro. Il simbolo non cambia, la malattia opportunista non accenna a migliorare. Ed infatti in tutti gli altri campi pratici si ripetono, aggravate nel periodo trascorso da Livorno ad oggi, le colpe del metodo massimalista.

Serrati, rivendicando la sua coerenza, ossia rifiutando ogni riconoscimento leale alla tesi della Internazionale, che a Livorno egli non era comunista poiché restava con i nemici della dottrina e del metodo comunista, accenna ad un mutamento di situazioni, che dovrebbe dare alla attitudine odierna del massimalismo un valore di sinistra. La reazione scatenatasi richiederebbe oggi una purificazione rivoluzionaria del Partito. Ma in questo tentativo fallito di esporre una concezione critica della situazione e dei compiti del proletariato di fronte ad essa non vi è che la perpetuazione dell'equivoco e della improvvisazione più vuota. L'argomento principe di Serrati a Livorno era che la situazione andava a destra, e che occorreva conservare le posizioni di difesa del proletariato anche nei fortilizi legalitari tenuti con le forze dei riformisti. Se la situazione oggi è andata ancora più a destra e questo rende necessario mettere in valore i coefficienti di qualità nel Partito contro quello di quantità, allora si tratta della bancarotta del metodo sostenuto a Livorno, e si dovrebbe confessare questo non rivendicare una continuità inesistente di linea politica. Resta tutta la incomprensione dei compiti rivoluzionari che costituisce il fallimento del massimalismo. Serrati e i suoi non vedono ancora, anzi vedono sempre meno i rapporti tra il volgere delle situazioni e la tattica di un partito rivoluzionario del proletariato, che sono il contrario di quanto essi tentano di tracciare oggi come di quanto sostenevano a Livorno. Era necessario nella curva ascendente della situazione oggettiva utilizzata per la solida chiarificazione teorica, organizzativa, di azione del Partito, rompendola con tutti gli equivoci, per potere al momento della controffensiva borghese far coincidere il massimo di spinta rivoluzionaria con l'inquadramento delle masse mosse anche dai più modesti obiettivi di difesa.

Il massimalismo è oggi più che mai al di fuori di una coscienza dei compiti rivoluzionari e di una capacità pratica ad inquadrare una riscossa delle masse.

Il massimalismo non è venuto a sinistra. Come Mosca previde dopo Livorno è andato a destra avvicinandosi ai riformisti. Ma questi hanno marciato troppo forte, e hanno perduta per inettitudine la loro partita. Di qui la divisione, la quale ad una critica serena non mostra nessun contenuto di sinistra, se non nello sfruttamento demagogico di una aspirazione delle masse, di cui l'apparato dirigente si serve per non elaborare un nuovo atteggiamento politico veramente rivoluzionario, ma unicamente per lavorare alla difesa di certe posizioni personali e di gruppo.

La divisione di ieri è un corollario del fallimento del massimalismo e del suo Stato Maggiore.

Ogni diversa illusione ottimista farebbe mancare noi al compito nostro: condurre sotto le bandiere del Comunismo le masse del proletariato italiano che sono finora state zimbello della politica di princisbecco che ha per teatro i congressi socialisti, le loro pietose beghe e la loro miserevole sceneggiatura. Da due anni a questa parte il Partito comunista ha fatto molta strada per sollevarsi da tale pantano, e malgrado tutte le avverse condizioni vi è da essere soddisfatti. Bisogna continuare: occorre per questo un senso di severa fedeltà alla propria linea di pensiero e di pratica, cui i militanti che hanno data l'opera loro in questi due anni non rinunzieranno in nessun caso.

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