Paul Mattick: Osservazioni sulla prossima crisi

Osservazioni sulle Tesi concernenti la prossima crisi mondiale, la seconda guerra mondiale e la rivoluzione mondiale

Analizzando queste Tesi sarà opportuno lasciare completamente da parte i primi tre paragrafi (vale a dire le Tesi 1 e 2 e il primo paragrafo della Tesi 3). Esse contengono infatti, oltre ad asserzioni indimostrate (la affermazione che la prossima crisi mondiale coinciderà “probabilmente” con la seconda guerra mondiale), o impressioni soggettive dell’autore, oppure un elenco dei punti da chiarificare e definire nelle Tesi medesime. È solo con l’ultima frase di questa sezione (“Mentre fino a questo momento ci siamo limitati ad elaborare spiegazioni delle cause delle guerre capitalistiche”, ecc.) che ci imbattiamo in qualcosa che serve da reale introduzione all’analisi della Grande guerra che comincia subito dopo.

Con questa omissione la struttura delle Tesi diviene chiarissima: nella prima parte (conclusione della Tesi 3) viene discussa la preistoria e la storia dell’attuale crisi cominciata durante la Grande guerra; nella seconda parte (Tesi 4 e 5) vengono trattati gli ulteriori sviluppi avutisi dopo la “transizione dalla fase acuta a quella depressiva della crisi” e le prospettive di una nuova crisi mondiale coincidente con la seconda guerra mondiale. Segue poi, come terza parte (Tesi 6), l’esposizione dei vantaggi e delle “difficoltà” presentati dal nuovo stato di cose e delle tendenze da esso rivelate nel senso della rivoluzione operaia mondiale, assieme ad uno sguardo retrospettivo alla “neghittosità” impadronitasi del movimento operaio nel recentissimo passato, alle cause di questa neghittosità e al nuovo visibile superamento di quelle cause.

Questo riassunto schematico delle Tesi mette in rilievo una loro particolarità: la totale assenza, in questa analisi della situazione globale del movimento operaio del nostro tempo, di un sia pur minimo accenno all’attuale crisi economica mondiale, che non solo perdura dal 1929 ma si è addirittura sotto certi rispetti approfondita ed inasprita, e, in un certo senso, perfino al “presente” in generale. Non è, infatti, in rapporto alla crisi attuale, bensì in riferimento alle “crisi post-belliche” o alle grandi crisi mondiali del nostro tempo - delle quali l’attuale crisi costituisce quindi solo un particolare esempio - che si afferma (intorno all’ultimo paragrafo della Tesi 3) che esse hanno sì, da un lato, mostrato il carattere di ostacolo del sistema degli stati nazionali basati su lavoro salariato e capitale, ma che, d’altro lato, gli sforzi fatti per sottomettere ancora una volta le forze produttive al rapporto di produzione lavoro salariato-capitale e al processo capitalistico di accumulazione, ricacciandole nella gabbia degli stati nazionali, furono “coronati da successo”. Parimenti, nell’ultimo paragrafo della Tesi 3, le “crisi post-belliche (1921, 1929)” vengono in verità da un lato (in rapporto all’attuale “periodo di depressione” seguito, nel ciclo della “lunga ondata” al “periodo di ascesa” del 1895-1913) definite “crisi del sistema”, ma l’idea della crisi finale che una tale espressione sembra far sorgere viene subito bandita, dall’altro, dalla susseguente “aspettativa” che anche la prossima crisi mondiale abbia lo stesso carattere. Nella frase seguente (Tesi 4), la “fase acuta” della crisi è già diventata una cosa del passato, essendo già stata portata a termine, si dice, la transizione alla fase “depressiva”, destinata a lasciare spazio, entro pochi anni, ad un “breve periodo di respiro”.

Allo stesso modo, ogni cosa che in queste Tesi viene detta a proposito della situazione, dei compiti, delle prospettive e delle difficoltà del movimento operaio del nostro tempo, riguarda sempre non il presente, bensì la “prossima crisi mondiale”, la “seconda guerra mondiale” (chiusa della Tesi 5), e il conseguente approssimarsi della seconda “situazione rivoluzionaria mondiale”. Le Tesi non trattano, cioè, per niente del presente effettivo, trascurato come del tutto incerto e indeterminato, bensì di un futuro addirittura calcolato - senza nessuna base manifesta - con assoluta certezza in termini di anni, laddove si fissa il 1940 come l’anno dello scoppio della crisi. In realtà, l’autore di queste Tesi potrebbe tutt’al più affermare, alla luce delle sue precedenti assai generiche disquisizioni, che, mentre abbiamo degli specifici motivi positivi per collocare l’avvento della crisi mondiale attorno al 1940, dalle tendenze generali attualmente manifestate dallo sviluppo economico non emerge niente che possa far pensare il contrario. Ma anche a prescindere da tali specifici difetti nella formulazione e nella fondazione di singole asserzioni, è proprio la loro sostanziale astrazione dal presente reale e la fittizia attualizzazione di una situazione “parimenti” rivoluzionaria nel futuro, che mina alla base il valore pratico-materialistico di queste Tesi. In luogo di esso troviamo invece, da un lato, un puro idealismo e un soggettivismo idealistico che afferma il suo punto di vista “contro la realtà oggettiva” e, dall’altro, come suo inevitabile complemento polare, quello oggettivismo pseudo-materialistico che parla della necessità di dati processi storici in maniera generica, tralasciando di determinare il suo punto di vista entrando “nel merito”.

Così, mentre queste Tesi dimostrano con molta forza dal lato oggettivo e con una formulazione incisiva e talora nuova ed originale il nesso esistente tra fenomeni - fin qui sempre trattati come eventi isolati - quali la crisi mondiale, la guerra mondiale e la rivoluzione mondiale, oppure Capitale e Stato, nella moderna società monopolistica, i compiti pratici che da questo nesso oggettivo derivano per la classe operaia vengono tuttavia proclamati in maniera soltanto astratta. A questo riguardo l’autore si limita alla ripetizione di un’unica espressione - “rivoluzione mondiale” -, che ora, da questo lato soggettivo, rimane però assolutamente indeterminata e priva di contenuto. L’unica cosa che riusciamo ad apprendere in positivo è che l’attività rivoluzionaria operaia deve essere oggi necessariamente un’azione a livello mondiale portata avanti direttamente secondo un piano unitario, e che la preparazione organizzativa ed ideale deve procedere immediatamente in questa direzione (Tesi 2, 3, 4, 6). Ed è solo questa “rivoluzione mondiale” diretta che merita, egli dice, la qualifica di “rivoluzione della classe operaia”, perché ogni tentativo parziale - quali quelli avutisi nel periodo post-bellico e che si risolsero, nella vittoria come nella sconfitta, in un fallimento per la rivoluzione -non può che portare ad una scomparsa dalla storia della classe operaia come classe determinante per i futuri sviluppi dell’umanità. Ogni rivoluzione circoscritta, fin dall’inizio o nei suoi sviluppi posteriori, ad un solo paese contiene, si afferma, inevitabilmente “il seme della controrivoluzione”, e ciò vale in modo particolare per la rivoluzione “russa” del 1917. (Ma a prescindere da questa ultima, l’autore è a conoscenza di molte altre, di un’intera “serie” di rivoluzioni nazional-politiche [...] la cui identità storico-geografica rimane però del tutto oscura). Anche il tentativo del trotskismo di sostituire alla vera rivoluzione mondiale un suo surrogato ideologico, mediante l’interpretazione della serie di rivoluzioni nazionali del presente periodo come ‘rivoluzione permanente’, viene decisamente respinto. E tutte quelle correnti minoritarie che si ponevano, nel recente passato, come trascendenti nei confronti di un movimento operaio legato alla più gretta delle quotidianità, vengono tutte senza eccezione bollate come “utopie” che lasciavano inalterati, fornendo loro semplicemente una ulteriore copertura ideologica, i concreti movimenti interni al capitale dei salariati di allora. In questo modo, la rivoluzione mondiale “operaia” proclamata in queste Tesi rimane un puro sogno del futuro (Zukunftsmusik), del quale nel passato e nel presente - a prescindere da alcuni tentativi intrapresi alla fine della prima guerra mondiale ma nel frattempo completamente rientrati e “decaduti” (fra i quali spicca l’“eroico” tentativo dei rivoluzionari russi di presentare la loro rivoluzione come l’incipiente rivoluzione mondiale) - nel reale movimento e sviluppo della classe operaia non v’è per ora alcuna traccia. Benché nella Tesi 2 si faccia all’inizio, accanto alla constatazione dello stato di prostrazione e di esaurimento di tutte le energie rivoluzionarie del ciclo 1850-1917, un accenno a certi, benché deboli, sintomi di risveglio e di aggregazione di energie di tipo nuovo, ancora alla fine della Tesi si viene affermando recisamente che l’azione rivoluzionaria della classe operaia dovrà, nel complesso, ricominciare tutto da capo. E questo stato di cose, se viene da un lato denotato come “difficoltà” (la sola vera “difficoltà” presentata dalla “nuova situazione”), viene d’altra parte celebrato come il momento della recisione netta del “cordone ombelicale tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria”, e quindi come punto zero dell’azione rivoluzionaria degli operai che possono, da oggi in poi, ricostruire da capo su basi corrette le linee della loro strategia di movimento.

A questa asserzione va innanzitutto obiettato che essa è smentita dai fatti. Mentre nelle Tesi viene, fra l’altro, affermato che nessuno dei vecchi, fallimentari leaders può più presumere di suggerire agli operai “quale sia la loro vera missione storica”, l’amara realtà dimostra purtroppo il contrario: essi possono non solo presumere una cosa del genere, ma anche praticarla - come di fatto fanno -, e gli operai li stanno anche a sentire, altrove come nella stessa Germania, che sta pian piano dimenticando il colpo subito dalle vecchie dirigenze socialdemocratica e comunista dopo la loro capitolazione di fronte alla “rivoluzione nazionale e socialista di Hitler”. In secondo luogo, questa stessa liberazione “negativa” degli operai da tutte le influenze esterne che li hanno fin qui “distratti” dai loro ex hypothesi” “enormi” (vale a dire ancora completamente indefiniti e disarticolati) fini, una tale liberazione significherebbe allo stesso tempo anche la “liberazione” da tutta la loro storia precedente, comprese tutte le esperienze di lotta acquisite, e la regressione della classe operaia dalla determinatezza conquistata nel suo sviluppo precedente, al suo stato iniziale (costituito dalla sua mera esistenza economica come classe oppressa e sfruttata in seno alla società capitalistica) di “classe in sè”. Diventa così impossibile capire come essa potrebbe dimenticare d’un colpo tutta la sua storia e passare senza nuovamente indietreggiare “di fronte all’enormità dei suoi stessi fini” da questa condizione di assoluta libertà, vale a dire di assoluta negazione, semplicemente in virtù dell’“approssimarsi della seconda guerra mondiale” e della “seconda situazione rivoluzionaria a livello mondiale” cui essa dà luogo, alla suprema realtà e determinatezza di quella diretta e totale rivoluzione operaia effettivamente proletaria, genuinamente di classe e veramente mondiale, per la quale soltanto, secondo l’autore, vale ancora la pena - dopo le amare esperienze del passato - di impegnare le forze proletarie, e senza il pieno raggiungimento della quale ogni nuova azione militante degli operai non è destinata a causare altro che una ricaduta in una nuova e peggiore apatia. Di fatto, non è tanto l’incitamento all’azione (cioè all’azione direttamente rivoluzionaria a livello mondiale degli operai in collegamento con la nuova crisi bellica mondiale “attorno al 1940”), quanto la spaventosa punizione minacciata nel caso di una caduta nel vuoto di quest’ultimo monito, che forma la vera sostanza delle prospettive espresse in queste Tesi. [...] L’autore lascia perciò completamente indeterminato se queste nuove “lotte rivoluzionarie a livello mondiale” del prossimo futuro porteranno all’“emancipazione degli operai” oppure ad una “estensione internazionale” dei nuovi strumenti (fascisti) di dominio, e l’unica prospettiva concreta aperta dalle sue Tesi è ancora una volta un oscuro presagio: l’alternativa (che non si sa da quali forze dipenda esattamente) tra il “libero dispiegamento delle forze produttive” ed un loro ancor più rigoroso (fascista) disciplinamento.

Qui arriviamo ad un punto in cui diviene imperativo attaccare non solo il contenuto soggettivo-pratico di queste Tesi, ma contemporaneamente anche il loro contenuto teorico-oggettivo; vale a dire l’analisi teorica che esse forniscono dello sviluppo storico e delle oggettive tendenze che vengono ivi alla luce. Sorge qui, infatti, la questione se non sia già implicita nel nesso oggettivo tra crisi mondiale, guerra mondiale e rivoluzione mondiale, che queste Tesi stabiliscono due volte (una volta retrospettivamente per la prima crisi bellica mondiale del 1913-1919, e l’altra in prospettiva per l’imminente nuova crisi bellica mondiale di un prossimo futuro), una sorta di capitolazione di fronte al violento attacco dell’avversario fascista, un attacco che al presente viene avvertito ovviamente come irresistibile. Di tali capitolazioni, stati d’animo disfattisti ed ideologie della prigione è oggi, purtroppo, pieno l’intero movimento operaio europeo, comprese le sue correnti rivoluzionarie, ed una posizione del genere nell’autore di queste Tesi non ci sorprenderebbe affatto.

Se si esamina da questo punto di vista critico il contenuto teorico oggettivo del presente lavoro, tutto appare, dapprima, in perfetto ordine rivoluzionario. Si tratta, infatti, di un attacco alle postazioni del nemico, e non di una capitolazione, quando si individua come “implicita nel ciclo industriale” l’“eterna (?) alternanza di guerra e pace” che apparentemente (e non, come si afferma nelle Tesi con un adattamento troppo spinto alle idee dell’avversario, “in sè”) “procede in altri contesti”, e si vede nella “guerra moderna” una forma specifica di crisi capitalistica. Certo, questa concezione nuova e rivoluzionaria viene nelle Tesi piuttosto presupposta come uno stato di cose già ovvio che fondata e dimostrata, e la caratterizzazione della guerra come una forma di crisi capitalistica che nel suo stesso corso si sviluppa come crisi ancor più acuta presenta in questa forma non sufficientemente mediata un aspetto ancora metaforico e mistificante. Ma per eliminare quest’ultimo residuo di apparente mistificazione dall’equazione di guerra e crisi, è sufficiente aggiungere la semplice e niente affatto metaforica osservazione che lo specifico modo di produzione della guerra moderna - un modo di produzione che non produce prodotti e mezzi di produzione, bensì distruzione e mezzi di distruzione - non rappresenta niente altro che una normale manifestazione della produzione capitalistica. Il modo di produzione capitalistico contiene in sè, da sempre, a tutti i suoi livelli di sviluppo, entrambi i generi di produzione, quello della creazione e quello della distruzione dei prodotti. Assieme essi costituiscono, infatti, le due inseparabili componenti della produzione capitalistica nella sua specifica forma sociale di “produzione di merci”, vale a dire produzione non semplicemente di prodotti, ma di prodotti come merci sulla cui intima dialettica è basato questo modo storico di produzione. La specificità della forma attuale di capitalismo è costituita dal fatto che oggi tendono sempre più a scomparire perfino certe residue distinzioni formali tra le due forme fenomeniche di produzione capitalistica (la cosiddetta produzione pacifica “normale” e l’altra - in realtà non meno normale - per la guerra e di guerra), in un processo di reciproca assimilazione che rende così manifesta l’intima identità di questi due, egualmente legittimi, settori della produzione capitalistica. In un’epoca in cui anche una parte della “normale” produzione pacifica consiste nella distruzione di massa, cosciente e programmata, di prodotti, di mezzi di produzione, di forze produttive e di produttori, in cui perfino in tempo di pace il peso relativo della cosiddetta “industria di guerra” supera di gran lunga e in misura rapidamente crescente quello di ogni altro settore produttivo, ed in cui ogni singolo settore di produzione viene considerato perfino in pace - e all’approssimarsi della guerra, quindi, anche praticamente gestito - come un mero dipartimento subalterno di un’unica industria bellica unitaria: in tali condizioni, appare perfettamente logico affermare che nemmeno nel pensiero va più distinta dagli altri settori della produzione capitalistica di merci una guerra divenuta ormai, nei fini e nel modo di esistenza, indistinguibile dall’industria di guerra e di pace. Fatta questa precisazione, quella affermazione paradossale delle Tesi secondo la quale la guerra stessa sarebbe da considerare una mera forma speciale di crisi periodica - in grado di svolgere in maniera ancor più spicciativa il compito specifico di ogni crisi che è quello di distruggere il valore non più reinvestibile -, diviene allora non solo comprensibile, ma addirittura un’ovvia constatazione di un dato di fatto. Ma più ancora, così si spiega anche perché nel processo di preparazione alla guerra attualmente in atto si pongano all’interno della crisi i presupposti per una nuova crisi, nella misura in cui la “sovrapproduzione” che è tipica di ogni crisi si manifesta qui nella forma di un incremento smisurato della produzione di “materiali da distruzione e di distruzione stessa”. Questo acutizzarsi della crisi in una nuova crisi all’interno della crisi stessa è, infatti, l’inevitabile tendenza che emerge sia in guerra che in pace, una tendenza che è venuta chiaramente alla luce nella Grande guerra e che, a causa dell’ulteriore sviluppo delle forme capitalistiche di produzione (nel loro testé rivelato doppio modo di esistenza come forme genuine di produzione e forme di distruzione, entrambe legate reciprocamente in modo da costituire, nei rapporti capitalistici, l’indivisibile intero che rappresenta la concreta realtà della produzione capitalistica di merci) è venuta rafforzandosi ed è destinata, in futuro, a rafforzarsi ancor più. L’attuale sviluppo del modo capitalistico di produzione sta così portando, in un solo identico processo, sia alla nuova crisi che alla nuova guerra, e alla combinazione di entrambe in una nuova crisi bellica mondiale che, per la classe dei veri produttori oppressi e sfruttati in guerra e in pace, costituisce il presupposto oggettivo per una nuova situazione rivoluzionaria a livello mondiale. La magistrale (a dispetto della sua brevità) chiarificazione di questa situazione oggettivamente rivoluzionaria costituisce un vero sviluppo - importante anche praticamente nelle sue conseguenze per la preparazione e la conduzione della lotta rivoluzionaria degli operai - della nostra comprensione della rivoluzione proletaria.

E si tratta parimenti di un attacco rivoluzionario alle postazioni del nemico, e non di una capitolazione, quando la linea di netta separazione tracciata dalla vecchia teoria marxista tra economia e politica, Capitale e Stato, viene tendenzialmente cancellata, mentre viene messa in rilievo la conversione dello “Stato” da mero capitalista ‘ideale’ nell’attuale “Capitalista Complessivo” e la fusione del cieco soggetto “Capitale” con lo “Stato” - mallevadore come organo speciale in un “soggetto-complessivo Capitale unitario”. La lotta contro lo Stato capitalista è divenuta, in effetti, molto più direttamente una componente della lotta di classe proletaria contro il dominio capitalistico di quanto non lo fosse in passato, quando il movimento operaio socialista, prigioniero (come le Tesi mirabilmente espongono) della falsa alternativa tra riforma sociale e rivoluzione (soltanto) politica, aveva completamente perso di vista la concreta totalità della lotta social-rivoluzionaria della classe operaia. In questo senso è una critica rivoluzionaria che colpisce al cuore non solo il nemico attuale, ma anche i falsi amici, di ieri e di oggi, del movimento operaio, l’affermazione, fatta nelle Tesi, che attraverso la conquista del potere da parte del Nazional-socialismo hitleriano non solo “ha vinto la rivoluzione politica e l’unica riforma sociale possibile” contro gli operai, ma nello stesso tempo è anche divenuto manifesto il carattere controrivoluzionario (nelle conseguenze) di entrambi questi due obbiettivi apparentemente progressivi delle organizzazioni operaie del passato.

Accanto a questi duri attacchi, veramente rivoluzionari, a tutte le forme vecchie e nuove di impersonificazione dello stato capitalistico e del potere economico c’è però, in queste Tesi, anche una serie di formulazioni che rendono vaga ed ambigua l’unica lotta rimasta oggi aperta agli operai tedeschi, la lotta contro quella che è ormai in Germania l’unica impersonificazione del dominio di classe capitalistico. È assai pericoloso, per le conseguenze che può avere sul dispiegamento rivoluzionario dell’offensiva proletaria nell’attuale fase storica, affermare in maniera lapidaria -come si fa in queste Tesi - che la nuova forma monopolistica di Capitale e Stato assolve oggi al compito di ottenere “almeno il più alto grado (!) di sviluppo (!) delle trascendenti (?) forze produttive all’interno del sistema dato”. A questo proposito va ricordata anche la Tesi precedente nella quale si dichiarava ormai superata l’attuale crisi economica e si annunciava la transizione alla fase depressiva che, dopo un “breve periodo di respiro”, sarebbe sfociata in breve nella “prossima crisi mondiale”; da tenere presente è anche la forma peculiare in cui, più avanti, viene denotata come un’altra ed in realtà più probabile prospettiva di sviluppo dell’attuale stato di cose a livello mondiale, accanto al completo dispiegamento, ad opera della rivoluzione proletaria, delle forze produttive attualmente prigioniere dell’inadeguato involucro nazionale, anche il mero “ancor più aspro disciplina-mento” di queste forze produttive mediante l’estensione della tirannide fascista su scala internazionale. Si vede bene che queste tre formulazioni - la crisi come cosa ormai del passato, l’assolvimento di quei compiti il cui continuo adempimento forma secondo la teoria marxista il vero contenuto materiale dell’intero sviluppo storico-universale, e che oggi viene però portato a termine da una fascismo vittorioso per ora su scala nazionale, ma suscettibile di un’ulteriore estensione su scala internazionale - tutte e tre queste formulazioni assieme lasciano intravvedere una prospettiva di sviluppo storico nella quale appare realizzabile un tipo di connessione tra crisi mondiale, guerra mondiale e rivoluzione mondiale del tutto diversa, anzi esattamente opposta, a quella presente nella coscienza soggettiva dell’autore di queste Tesi e che egli vorrebbe lanciare come parola d’ordine della lotta del proletariato rivoluzionario. In luogo della rottura dei vincoli capitalistici e del libero sviluppo delle forze produttive, qui appare presentata come più probabile l’eventualità del loro massimo sviluppo (ottenuto con la violenza dal fascismo vittorioso senza la rottura della loro presente forma capitalistica) prima sul piano nazionale ed in seguito eventualmente anche su quello internazionale, attraverso il loro ulteriore “disciplinamento”. Sferrando il suo attacco prima a livello nazionale ed espandendosi poi su scala internazionale, il fascismo adempie al suo “compito storico” nella misura in cui mostra alla società capitalistica, minacciata da un lato dalla rivoluzione sociale e dall’altro dalla propria dissoluzione, una via d’uscita eroica e le impone di scegliere questa via. In questa prospettiva, però, la rivoluzione sociale del proletariato cessa di essere una necessità generale dello sviluppo della società umana per diventare l’affare privato di una classe isolata o addirittura soltanto di una interessata banda di agitatori ebrei o di appartenenti ad altre minoranze razziali.

L’ambiguità introdotta nelle Tesi da questa formulazione concernente le possibilità economiche di sviluppo sociale attualmente date è ulteriormente rafforzata da una - egualmente ambigua - formula politica: “Il soggetto-stato Capitale vuole assicurarsi il monopolio della lotta di classe”. Ciò può significare, e di fatto significa nel suo senso più ovvio ed immediato, che lo Stato fascista sopprime tutte le forme storicamente date di lotta di classe tra operai salariati e capitale. L’“eliminazione di tutti gli organi di classe degli operai” è il primo provvedimento dello Stato fascista. Alla più che corretta osservazione contenuta in questa prima frase rimarrebbe solo da aggiungere, dal punto di vista di una chiara concezione marxista basata sul fattore della lotta di classe, un’ulteriore affermazione che faccia luce sul cambiamento apportato, da questa “monopolizzazione” da parte dello Stato fascista, sull’altro fronte della lotta di classe tradizionale della società capitalistica, la lotta di classe del capitale contro gli operai salariati. Questa affermazione dovrebbe, cioè, dimostrare come lo Stato fascista - intimamente legato al grande capitale benché situato, formalmente, al di sopra del capitalista individuale - continui, in quest’altra forma più ampia e più aspra, a portare avanti “per conto dello Stato” quella lotta di classe “monopolizzata” contro gli operai. Infine, un’esposizione che si attenesse ai principi di una concezione veramente dialettica, - vale a dire pratico-materialistica e autenticamente rivoluzionaria, in senso marxista - dovrebbe qui aggiungere che lo Stato fascista, a causa del perpetuarsi, dell’espandersi e dell’inasprirsi della lotta di classe che esso ha “monopolizzato”, viene contemporaneamente a trovarsi esso stesso esposto alla persistente - anzi in continua espansione - ed esasperata lotta di classe degli operai. Ma al posto di questa concezione di classe, dialettica e rivoluzionaria, dietro alla formula della “monopolizzazione della lotta di classe da parte dello Stato fascista” intravvediamo un’altra concezione, come le frasi immediatamente seguenti ci confermano. L’autore delle Tesi è convinto che in questa “monopolizzazione della lotta di classe” nelle sue due forme antagonistiche di lotta del lavoro salariato contro il capitale e di lotta del capitale contro il lavoro salariato, lo Stato fascista stia avendo (almeno temporaneamente e su scala nazionale) effettivamente successo (cfr. Tesi, p. 35).

Secondo quanto viene sostenuto nelle Tesi, lo Stato fascista sta assolvendo al compito di integrare ‘organicamente’ quella parte di capitale rappresentata dal lavoro salariato nel contesto statale, e di riorganizzare la classe capitalistica adattandola alle esigenze della nuova “economia politica” nazionale, esattamente alla stessa maniera in cui li assolverebbe uno stato operaio emanato da una vera rivoluzione operaia, nella misura in cui esso rimanesse limitato al contesto nazionale o dovesse in seguito rimanervi. Qui viene espressamente dichiarato che tra tali differenti forme e gradi di fusione di Stato e Capitale quali quelle costituite, da un lato, dal “capitalismo di stato bolscevico” e, dall’altro, dall’“intervento sistematico” fascista e dall’“economia pilotata” nazionalsocialista, non c’è una differenza sostanziale. In realtà, questa assenza di distinzione tra sviluppi procedenti storicamente in direzione opposte, così come l’intera, adialettica, valutazione - che costituisce il sostegno teorico della prima - delle possibilità economiche e politiche dello Stato fascista o nazional-socialista, tutti interni sostanzialmente al quadro capitalistico, fanno sì che vengano mostruosamente e, per la preparazione della reazione proletaria, pericolosamente sopravvalutate le conquiste storiche e le capacità di conquista, quindi anche la forza offensiva e difensiva della controrivoluzione nazi-fascista oggi trionfante. Per capire fino a che punto si spinga questa sopravvalutazione, basta pensare che un monopolio della lotta di classe quale, secondo queste Tesi, hanno oggi conquistato il nazional-socialismo di Hitler ed il fascismo mussoliniano non osò rivendicarlo nemmeno il dittatore rivoluzionario Lenin per il suo “Stato operaio e contadino” nel corso del “comunismo di guerra”. Nei dibattiti accesisi in quell’epoca, prima della transizione alla NEP, intorno al futuro carattere dei sindacati russo-sovietici, il massimo che Lenin si spinse a suggerire fu in sostanza che i sindacati si limitassero in futuro alla lotta di classe ordinaria per la salvaguardia degli interessi immediati degli operai all’interno del sistema statale ed economico sovietico, e rinunciassero perciò all’intensificazione rivoluzionaria di questa lotta, dal momento che l’ulteriore espansione della rivoluzione era diventata il compito immediato dello Stato sovietico. Nel corso dell’ulteriore evoluzione del socialismo e del capitalismo di stato russo, nelle forme della NEP e della neo-NEP, ai sindacati fu nuovamente negato, come è noto, perfino questo diritto all’ordinaria lotta di classe per la difesa degli interessi immediati dei lavoratori, che Lenin aveva all’inizio garantito. L’attuale capitalismo di stato stalinista ha cioè completamente conferito a se stesso, proprio come ha fatto lo stato dittatoriale di Hitler e Mussolini, il “monopolio della lotta di classe”. Ma nell’un caso come nell’altro (e nel secondo caso, anche se solamente a causa della posizione incomparabilmente più debole di queste “dittature” controrivoluzionarie capitalistiche nei confronti della rivendicazione del profitto da parte del capitale privato con cui esse devono fare i conti, molto meno che non nella dittatura lenin-stalinista) questa “monopolizzazione” ideologica della lotta di classe nelle mani dello Stato non è stata mai realizzata, nemmeno temporaneamente e nemmeno all’interno dei confini nazionali. Proprio come, secondo il principio del marxismo rivoluzionario, il socialismo proletario non può essere costruito in “un solo paese” - né totalmente né parzialmente, e nemmeno in maniera temporanea -, in base allo stesso principio, la lotta di classe nelle sue due manifestazioni antagonistiche non può essere eliminata “in un solo paese”, o trasformata in una semplice componente delle funzioni di dominio economico e politico di uno Stato privo di contraddizioni nell’ambito nazionale. Ai due compiti del potere economico e statale fascista che queste Tesi ritengono assolvibili all’interno dei confini nazionali, l’autore stesso pone un limite. Nell’unico passo in cui pensa “dialetticamente”, vale a dire in modo davvero materialistico e pratico-rivoluzionario, egli dichiara che “il soggetto-stato Capitale”, nella misura in cui esso funziona da cartello generale di regolamentazione dei prezzi, “inasprisce nello stesso tempo (!) la concorrenza internazionale [...]” che è divenuta, per gli stati, una questione di importanza vitale (“Tramonto dell’Autarchia”). Di conseguenza, la nuova forma monopolistica non solo non ha arrestato l’andamento ciclico dell’economia mondiale, ma non è riuscita neanche a sottrarre la propria sfera di influenza alla “legge naturale del capitalismo”.

Ma anche a prescindere dal fatto che il limite posto - qui in modo direttamente geografico - alle possibilità del fascismo di adempiere ai compiti economici e politici posti dall’attuale situazione mondiale, viene poi considerato in ultima analisi non del tutto insuperabile, ed anzi viene esplicitamente ammessa la possibilità di un suo scavalcamento attraverso l’estensione a livello internazionale degli strumenti fascisti di dominio, questa introduzione finale della maniera dialettica di vedere le cose giunge troppo tardi. Allo stesso modo in cui la regolamentazione del mercato interno da parte del soggetto-stato Capitale fascista si concretizza dialetticamente su scala internazionale in un inasprimento della concorrenza che si ripercuote ben presto anche sul mercato interno, così il supposto “adempimento” ai compiti economici e politici da parte del Fascismo viene producendo fin dall’inizio, all’interno dello stesso processo di produzione nazionale, sempre nuove e sempre più acute contraddizioni. E a questo punto sarebbe stato corretto innestare un’analisi veramente marxista, cioè materialistico-pratica, delle combinazioni presenti e future di crisi mondiale, guerra mondiale e rivoluzione mondiale, e proclamare la lotta attuale del proletariato in ogni paese e su scala internazionale contro la presente forma hic et nunc del dominio capitalistico, in tutte le sue espressioni, come l’unico vero contenuto della “rivoluzione mondiale” proletaria.

Da International Council Correspondence cit., n. 8, maggio 1935; ora in New Essays cit., vol. I, pp. 13-22

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