Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe - 4a parte

Col titolo “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe” Prometeo ha pubblicato tre articoli nei numeri 2, 4 e 5. Essi si riferivano per rapidi accenni allo svolgimento delle lotte di classe che ci ha presentato la storia fino all'avvento della presente società borghese; si rifacevano alla visione che del problema il socialismo marxista ha dato già da gran tempo, ma che di continuo è oggetto di deviazione e confusione.

Per una chiara presentazione si è applicata la fondamentale distinzione tra energia allo stato potenziale o virtuale, ossia suscettibile di entrare in azione ma non ancora esplicantesi, ed energia allo stato attuale o cinetico, ossia posta già in movimento e determinante i suoi svariati effetti, ricordandone il senso nel mondo fisico, ed estendendo la distinzione in modo assai semplice ai fatti della vita organica e della società umana.

Si è quindi posto il problema del riconoscimento della violenza e della forza coattiva nei fatti sociali, insistendo sul criterio che essa non va riconosciuta solo quando si ha la brutale azione fisica sull'organismo dell'uomo, con il vincolo la percossa e la uccisione, ma in tutto il campo assai più vasto in cui le azioni dei singoli sono rese coatte dalla semplice minaccia e sanzione degli atti di forza. Tale coazione sorge inseparabilmente dalle prime forme di attività produttiva associata e quindi di società cosidetta civile e politica; essa è un fatto indispensabile nello svolgimento di tutto il corso della storia e dell'avvicendarsi delle istituzioni e delle classi. Si tratta non di esaltarla o condannarla ma di riconoscerla e valutarla nel trascorrere dei tempi e nelle varie situazioni.

Il secondo di quegli articoli era un confronto tra la società feudale e quella borghese capitalistica ed era dedicato alla dimostrazione della tesi (non certo nuova) che il trapasso, fondamentale nella evoluzione della tecnica produttiva e della economia, non si accompagnò ad un minore grado di impiego di forza, di violenza, di sopraffazione sociale.

Il tipo capitalistico di economia e di società è per Marx il più antagonistico che la storia abbia fin qui presentato; nel formarsi, nello svilupparsi, nel resistere alla sua sparizione esso determina un massimo prima ignorato di sfruttamento, di persecuzione, di sofferenza umana. Il massimo è tale in qualità e in quantità, in potenziale e in massa, in acutezza e in estensione, e, per tradurre nei termini etico-letterarii che non sono i nostri, in ferocia e in vastità di applicazione, che ha raggiunto le masse i popoli le razze di ogni angolo della terra.

L'ultimo articolo ha trattato poi il confronto tra le forme liberal-democratiche e quelle fasciste-totalitarie del dominio borghese, mostrando la illusione che le prime abbiano carattere meno oppressivo e più tollerante. Quando alla considerazione banale della violenza palesemente in atto si sostituisce quella dell'effettivo potenziale dei moderni apparati di Stato, ossia della loro attitudine e capacità a resistere ad ogni assalto rivoluzionario antagonista, è facile sostituire alla cieca volgare opinione odierna che tripudia poichè due guerre mondiali avrebbero respinte indietro forze di reazione e tirannia, la constatazione evidente che il sistema capitalistico ha più che raddoppiata la sua possanza, concentrata nei grandi mostri statali e nella costruzione in corso del Leviathan mondiale del dominio di classe. Constatazione che si deve chiedere non all'esame degli istrionismi giuridici pennaioleschi o oratorii, più rivoltanti ora che presso i battuti regimi del Tripartito, ma alla calcolazione scientifica delle forze finanziarie, militari, di polizia, alla misura della accumulazione e concentrazione vertiginosa del capitale privato o pubblico, sempre borghese.

Rispetto al 1914, al 1919, al 1922, al 1933, al 1943, il regime capitalistico del 1947 è più pesante, sempre più pesante, nello sfruttamento economico e nella oppressione politica sulle masse che lavorano e su chiunque e qualunque cosa gli traversi la strada. Questo è vero per i “grandi”, dopo la soppressione totalitaria degli organismi statali di Germania e Giappone. È perfino, e non meno, vero per lo stesso Stato italiano, battuto, deriso, vassallo, vendibile e venduto in ogni direzione, tuttavia più attrezzato di polizie e più forcaiolo oggi che sotto Giolitti e Mussolini, più eventualmente forcaiolo se dalle mani di De Gasperi passasse a quelle dei gruppi di sinistra.

Ricordato in sommario tutto questo, va ora trattato il problema dell'impiego della forza e della violenza nella lotta sociale, quando ad impugnare tali mezzi di azione è la classe rivoluzionaria dell'epoca di oggi, il moderno proletariato.


Il metodo della lotta di classe è stato nel corso di circa un secolo accettato a parole da tanti e così diversi movimenti e scuole, che le più opposte interpretazioni si sono scontrate in violente polemiche, riflesso delle vicende e degli svolti della storia del capitalismo e degli antagonismi da esso suscitati.

La polemica si chiarificò in modo classico a cavallo della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa: Lenin, Trotsky, i gruppi di sinistra che confluirono nella Internazionale di Mosca sistemarono in modo che deve ritenersi definitivo per il campo teoretico e programmatico le quistioni sulla forza, la violenza, la conquista del potere, lo Stato e la dittatura.

Dal lato opposto si ponevano le innumeri deformazioni dell'opportunismo socialdemocratico, di cui non occorre ripetere la confutazione ma è utile solo ricordare qualche punto che vale a chiarire nostri concetti distintivi. D'altra parte molte di quelle false posizioni battute allora in breccia e che sembrarono disperse per sempre ricompaiono sotto forme quasi identiche nella odierna situazione del movimento operaio.

Pretese il revisionismo di mostrare come parte caduca del sistema marxista tutta la previsione di un urto rivoluzionario tra la classe operaia e le difese del potere borghese, e, falsificando e sfruttando i testi, una prefazione e una lettera famose di Engels, assunse che, da una parte, dati i progressi della tecnica militare, andava esclusa ogni prospettiva di insurrezione vittoriosa armata, dall'altra che il progredire della organizzazione dei sindacati operai e dei partiti politici parlamentari consentiva di prevedere un sicuro prossimo arrivo al potere con mezzi legali e incruenti.

Si volle diffondere nelle file della classe operaia la convinzione che non si poteva abbattere con la forza il potere della classe capitalistica, e che d'altra parte si poteva attuare il socialismo dopo aver conquistato, con la maggioranza degli istituti rappresentativi, gli organi esecutivi dello Stato.

Si accusarono i marxisti di sinistra di un culto della violenza che la elevava da mezzo a fine e la invocava quasi sadicamente anche laddove si poteva risparmiarla e raggiungere lo stesso risultato per via pacifica.

Ma dinanzi alla eloquenza degli sviluppi storici tale polemica svelò presto il suo contenuto, che era quello di una mistica non tanto dell'antiviolenza quanto proprio dei principii apologetici dell'ordine borghese.

Avendo la rivoluzione armata trionfato a Leningrado delle resistenze così dell'ordinamento zarista che della classe borghese russa, l'argomento che colle armi non si poteva conquistare il potere si trasformò nell'argomento che non si doveva, anche potendo. Ciò si innestava alla predicazione idiota di un generico umanitarismo e pacifismo sociale, il quale ripudiava sì la violenza usata per la vittoria della rivoluzione operaia, ma non rinnegava la violenza usata dalla borghesia per le sue rivoluzioni storiche, nemmeno nelle estreme manifestazioni terroristiche. Non solo, ma in tutte le decisioni controverse, in situazioni storiche decisive per il movimento socialista, la destra, nel contrastare le proposte di azione diretta, ammise che per altri obiettivi avrebbe condiviso il ricorso all'insurrezione. Ad esempio i socialisti riformisti italiani nel maggio 1915 si opposero alla proposta di sciopero generale al momento della mobilitazione con argomenti ideologici e politici, oltre che di valutazione tattica delle forze in gioco, ma ammisero che nel caso di un intervento in guerra a fianco dell'Austria e della Germania avrebbero chiamato il popolo all'insurrezione...

Così pure i teorizzatori della “utilizzazione” delle vie legali e democratiche sono pronti ad ammettere che invece la violenza popolare è legittima e necessaria quando dall'alta si attui il tentativo di abolire le garanzie costituzionali. Come poi si spieghi che in tal caso il progresso dei mezzi tecnici militari in mano allo Stato non è più un insormontabile ostacolo, come si possa prevedere che nel caso di un raggiungimento pacifico della maggioranza la classe al potere non faccia ricorso a quei mezzi per conservarlo, e come possa il proletariato usare vittoriosamente la violenza deprecata e condannata come mezzo di classe, in tutte queste situazioni, i socialdemocratici non sanno dirlo, poichè dovrebbero confessare di essere puramente e semplicemente i manutengoli della conservazione borghese.

Un sistema come il loro di parole d'ordine tattiche si può infatti conciliare solo con una apologetica nettamente antimarxistica della civiltà borghese, quale è di fatti al fondo di tutta la politica dei partiti sorti sul troncone deforme dell'antifascismo.

Tale tesi dice che l'ultimo ricorso storico alla violenza ed alle forme della guerra civile è stato quello appunto che ha permesso all'ordine borghese di sorgere sulle rovine dei vecchi regimi feudali e dispotici. Con la conquista delle libertà politiche si apre un'era di lotte civili e pacifiche, che consentiranno senza ulteriori urti cruenti tutte le altre conquiste, e così quella della eguaglianza economica e sociale.

Il movimento storico del moderno proletariato ed il socialismo non si presentano più, in questa ignobile falsificazione, come la battaglia più radicale della storia, come la eversione fin dalle fondamenta di tutto un mondo, nella sua impalcatura economica e nei suoi ordinamenti legali e politici, come nelle sue ideologie ancora pregne di tutte le menzogne tramandate dalle forme di oppressione che fin qui si sono avvicendate e che tuttora ammorbano la stessa aria che respiriamo.

Il socialismo si riduce ad una sciocca ed esitante integrazione di pretese conquiste giuridiche e costituzionali, di cui la forma capitalistica avrebbe arricchita e illuminata la società, con vaghi postulati sociali innestabili e trapiantabili sul tronco del sistema borghese.

La formidabile prospettiva antagonistica di Marx che misurava nel sottosuolo sociale le pressioni irresistibili e crescenti, che dovranno far saltare l'involucro delle forme borghesi di produzione come i cataclismi geologici infrangono la crosta del pianeta, è sostituita con gli spregevoli inganni di un Roosevelt, che infila nel bolso elenco delle libertà borghesi quelle dal timore e dal bisogno, o di un Pacelli che, ribenedetto nella moderna forma capitalistica l'eterno principio della proprietà, mostra di piangere per l'abisso che separa l'indigenza delle moltitudini dalle mostruose accumulazioni della ricchezza.

Nella ricostruzione leninista la definizione dello Stato è rimessa a posto come quella di una macchina che una classe sociale adopera per opprimerne altre, e tale definizione vige in pieno e sopratutto per il moderno Stato borghese, democratico e parlamentare. Resta pure chiarito, a coronamento della storica polemica, che la forza proletaria di classe non può penetrare in questa macchina e adoperarla per i propri sviluppi, ma deve, più che conquistarla, infrangerla e disperderla in frantumi.

La lotta proletaria non è lotta nell'interno dello Stato e dei suoi organismi; ma lotta dall'esterno dello Stato contro di esso e contro tutte le sue manifestazioni e forme.

La lotta proletaria non si prefigge di prendere o di conquistare lo Stato, come una piazzaforte in cui voglia sistemarsi a presidio l'esercito vincitore, ma si propone di distruggerlo radendo al suolo le difese e le fortificazioni superate.

Tuttavia dopo questa distruzione una forma di Stato politico si rende necessaria, ed è la forma nuova in cui si organizza il potere di classe del proletariato, per la necessità di dirigere l'impiego di un'organica violenza con cui si estirpano i privilegi del capitale e si consente la organizzazione delle svincolate forze produttive nelle nuovi forme comunistiche, non private, non mercantili.

Si parla perciò esattamente di conquista del potere, intendendo conquista non legale e pacifica, ma violenta, armata, rivoluzionaria. Si parla correttamente di passaggio del potere dalle mani della borghesia a quelle del proletariato, appunto perchè nella nostra dottrina chiamiamo potere non solo la statica dell'autorità e della legge posata sulle pesanti tradizioni del passato, ma anche la dinamica della forza e della violenza spinta verso l'avvenire e travolgente le dighe e gli ostacoli delle istituzioni. Non esatto sarebbe parlare di conquista dello Stato o di passaggio dello Stato dalla gestione di una classe a quella di un'altra, poichè appunto lo Stato di una classe deve perire ed essere infranto, come condizione della vittoria della classe prima dominata. Trasgredire questo punto essenziale del marxismo, o fare su esso la minima concessione, come quella che il trapasso del potere possa inquadrarsi in una vicenda parlamentare sia pure fiancheggiata da azioni e combattimenti di piazza e da vicende di guerra fra gli stati, conduce direttamente all'estremo conservatorismo, poichè significa concedere che la impalcatura dello Stato sia una forma aperta a contenuti sociali opposti, e sia quindi superiore alle opposte classi e al loro urto storico, il che si risolve nel timore reverenziale della legalità e nella volgare apologetica dell'ordine costituito.

Non si tratta soltanto di un errore scientifico di valutazione, ma di un reale processo storico degenerativo che si è svolto sotto i nostri occhi, e che ha condotto i partiti ex comunisti giù per la china, che volgendo le terga alle tesi di Lenin arriva alla coalizione coi traditori social-democratici, al “governo operaio”, al governo democratico ossia in collaborazione diretta con la borghesia ed al servizio di questa.

Con la tesi chiarissima della distruzione dello Stato, Lenin ristabiliva quella della formazione dello Stato proletario non gradita agli anarchici, i quali, pure avendo il merito di propugnare la prima, perseguivano la illusione che subito dopo infranto il potere borghese la società potesse fare a meno di ogni forma di potere organizzato e quindi di Stato politico, ossia di un sistema di violenza sociale. Non potendo essere istantanea la trasformazione della economia da privata a socialistica non può essere istantanea la soppressione della classe non lavoratrice e non si può attuarla con la fisica soppressione dei suoi membri. Per il tempo non breve in cui le forme economiche capitalistiche persistono, subendo una incessante riduzione, lo Stato rivoluzionario organizzato deve funzionare, il che significa, come Lenin disse senza ipocrisie, tenere soldati, forze di polizia e carceri.

Riducendosi progressivamente il campo della economia ancora organizzata in forme private si riduce di pari passo il campo in cui è necessario applicare la coazione politica, e lo Stato tende alla sua progressiva sparizione.

I punti qui ricordati in forma schematica bastano a mostrare come non tanto una meravigliosa campagna polemica che ridicolizzò e stritolò i contradittori, ma sopratutto la più grandiosa vicenda che abbia fin qui presentato, la storia della lotta di classe, fecero risplendere in assoluta chiarezza le classiche tesi di Marx e di Engels, del Manifesto dei Comunisti, delle conclusioni che si traevano dalla sconfitta della Comune, quali la conquista del potere politico, la dittatura del proletariato, l'intervento dispotico nei rapporti borghesi di produzione, il finale sgonfiamento dello Stato. Il buon diritto a parlare di conferme storiche parallele alla geniale impostazione teorica sembra cessare quando si giunge a quest'ultima fase, in quanto non abbiamo ancora assistito - in Russia o altrove - al processo di sgonfiamento, di svuotamento, di dissolvimento (Auflösung in Engels) dello Stato. La quistione è importante e difficile, dato che per la sana dialettica nulla può essere sicuramente dimostrato dal succedersi più o meno brillante di parole dette o scritte, ma le conclusioni si fondano soltanto sui fatti.

Gli Stati borghesi, sotto tutti i climi meteorici e ideologici, si vanno spaventosamente gonfiando davanti ai nostri occhi, e l'unico Stato che una possente propaganda presenta come operaio a sua volta dilata la sua organizzazione e la sua funzione nel campo burocratico, giudiziario, poliziesco, militare, oltre ogni limite

Non stupisce dunque che un diffuso scetticismo accolga la previsione del contrarsi e dell'eliminarsi dello Stato dopo l'espletamento della sua parte decisiva nella lotta delle classi.

L'opinione volgare sembra dirci: “avrete un bell'aspettare voi teorizzatori e realizzatori di dittature anche rosse; l'organismo statale, come un tumore nel corpo della società, si guarderà bene dal regredire e ne invaderà tutti i tessuti e tutti i meandri fino a soffocarla”. Da questa corrente valutazione traggon coraggio tutti gli ideologismi individualistici, liberali, anarchici, ed infine i vecchi e nuovi deformi ibridismi tra il metodo classista e il liberale, che ci propinano socialismi basati nientemeno che sulla personalità e la pienezza del suo manifestarsi.

È molto notevole che anche gli scarsi gruppi che nel campo comunista hanno reagito alla degenerazione opportunista dei partiti della disciolta internazio nate di Mosca tendano a mostrare delle esitazioni su questo punto; preoccupati di lottare contro la soffocante centralizzazione della burocrazia staliniana, sono condotti a revocare in dubbio le posizioni di principio del marxismo ristabilite da Lenin e mostrano di credere che questi - e con lui tutti i comunisti rivoluzionari nel glorioso periodo 1917-1920 - abbia errato in senso statolatra.

Vada fortemente chiarito che la corrente della sinistra marxista italiana, a cui si collega questa rivista, non ha in materia il minimo tentennamento o pentimento, respinge ogni revisione del principio fondamentale di Marx e di Lenin secondo cui la rivoluzione, come è per eccellenza un processo violento, così è sommamente un fatto autoritario totalitario e centralizzatore.

La condanna dell'indirizzo stalinista non si fonda sull'accusa astratta, scolastica e costituzionalistica di avere peccato abusando di burocratismo, di dirigismo di dispotica autorità, ma su ben altre valutazioni dello sviluppo economico sociale politico in Russia e nel mondo, di cui l'enfiamento mostruoso della macchina statale non è la causa peccaminosa, ma la inevitabile conseguenza.

Il dubbio sull'accettazione e l'aperta difesa della dittatura, oltre che risalire a vaghi e stupidi moralismi sul preteso diritto dell'individuo o dell'aggruppamento a non essere compresso o piegato da una forza più vasta, risale alla distinzione - senza dubbio importantissima - tra il concetto di dittatura di classe contro classe e quello dei rapporti di organizzazione e di potere con cui lo Stato rivoluzionario si costruisce e si configura entro la vincitrice classe operaia. È questo il punto d'arrivo della presente trattazione che, rimessi nei loro termini i dati fondamentali, non pretenderà certo di avere esaurito queste quistioni che solo la storia esaurisce (come noi assumiamo abbia esaurita quella della necessità della violenza per la conquista del potere) mentre il compito della scuola teorica

della milizia di partito è l'evitare che se ne cerchi lo sbocco usando, senza accorgersene, argomenti dettati e influenzati dalle ideologie nemiche e quindi dagli opposti interessi di classe.

Dittatura è dunque il secondo e dialettico aspetto della forza rivoluzionaria. Questa, nella prima fase della conquista del potere, agisce dal basso e fa confluire mille sforzi nel tentativo di spezzare la forma statale da tempo costituita. Questa stessa forza di classe, dopo il successo di tale tentativo, seguita ad agire in senso capovolto, dall'alto, nell'esercizio del potere affidato ad un organismo statale ricostituito nel tutto e nelle parti e ancora più robusto, deciso e, se occorre, spietato e terroristico di quello sconfitto.

Le strida contro la rivendicazione della dittatura, oggi dissimulata ipocritamente dagli stessi rappresentanti del regime di ferro moscovita, e le grida di allarme contro la pretesa impossibilità di frenare la corsa alla libidine di potere,

quindi di privilegio materiale, da parte del personale burocratico cristallizzato in nuova classe o casta dominante, ben si conciliano con la posizione inferiore metafisica di chi tratta della società e dello Stato come enti astratti, e non sa trovare le chiavi dei problemi nell'indagine sui fatti della produzione e nei rivolgimenti di ogni rapporto che scaturiscono dagli urti delle classi.

Banale è quindi la confusione tra il concetto di dittatura invocato da noi marxisti e quello volgare di tirannide, dispotismo ed autocrazia.

Si confonde così la dittatura del proletariato col potere personale e si grida il crucifige in base alle stesse stupidità contro Lenin come contro Hitler, Mussolini o Stalin.

Va ricordato che l'analisi marxista disconosce in pieno l'affermazione che le macchine statali agiscano sotto l'azione della volontà di questi Duci contemporanei.

Essi sono dei pezzi simbolicamente notevoli, mossi da forze cui non possono sottrarsi sullo scacchiere della storia.

Tante volte abbiamo stabilito, d'altra parte, che gli stessi ideologi borghesi non hanno il diritto di scandalizzarsi di un Franco o di un Tito o dei metodi energici di quegli Stati che li presentano come capi, quando non rifuggono dall'apologia della dittatura e del terrore cui la borghesia è ricorsa appunto nella fase successiva alla conquista del potere. Così nessuno storico ben pensante classifica il dittatore di Napoli nel 1860, Giuseppe Garibaldi, come un criminale politico, ma lo esalta come puro campione della umanità.

La dittatura del proletariato non si estrinseca dunque nel potere di un uomo, sia pure di eccelse qualità personali.

Essa ha allora per soggetto operante un partito politico, il quale agisce in nome e per conto della classe operaia? A tale interrogativo, oggi come trenta anni addietro, la risposta della nostra corrente è incondizionatamente: sì.

Poiché è innegabile che i partiti che invocavano di rappresentare la classe proletaria hanno subito crisi profonde e si sono ripetutamente spezzati e sdoppiati, segue alla nostra recisa affermativa la domanda se e con quale criterio si debba stabilire, quale partito abbia in effetti tale rivoluzionaria prerogativa, e si porta quindi la quistione sull'esame del collegamento che passa tra la base ampia della classe e l'organismo più ristretto e ben definito del partito.

Nel rispondere ai quesiti su questo punto non va perduto di vista il carattere distintivo della dittatura che, come sempre nel nostro metodo, prima di svelare nella concretezza storica i suoi aspetti positivi, si lascia definire dal suo aspetto negativo.

È dittatura quel regime in cui la classe sconfitta pure esistendo fisicamente e costituendo in linea statistica una parte notevole dell'agglomerato sociale viene tenuta con la forza fuori dallo stato. E viene, altresì, tenuta in condizioni di non poter tentare la riconquista del potere, essendole vietata l'associazione, la propaganda, la stampa.

Chi sia a tenerla in questo deciso stato di soggezione non è necessario definirlo in partenza, lo insegnerà l'effettuarsi stesso della lotta storica. Purchè la classe che combattiamo sia ridotta in questo stato di minorità sociale, subisca questa morte civile in attesa di quella statistica, noi ammetteremo per un momento che il soggetto operante possa essere o tutta la maggioranza sociale vincitrice, (ipotesi assoluta irrealizzabile), o una parte di essa, o un solido gruppo di avanguardia (sia pure statisticamente minoritario) o infine in una breve crisi perfino un uomo solo (altra ipotesi estrema sul mezzo, che è stata prossima ad attuarsi in un solo esempio storico, quello di Lenin che nell'aprile 1917, solo contro tutto il comitato centrale e i vecchi bolscevichi, scopre nel divenire degli eventi e incide nelle sue tesi le nuove linee della storia del partito e della rivoluzione, come nel novembre fa disperdere dai fucilieri rossi l'assemblea costituente).

Non essendo il metodo marxista nè rivelazione, nè profezia, nè scolastica, esso conquista anzitutto la cognizione del senso in cui agiscono le forze storiche stabilendo i loro rapporti e i loro scontri. In tempi successivi, accompagnandosi l'indagine e la lotta, esso determina i caratteri delle manifestazioni e la configurazione dei mezzi.

La Comune di Parigi confermò che la forza proletaria doveva spezzare il vecchio Stato e non penetrarlo, e che il mezzo doveva essere non la legalità ma l'insurrezione.

La stessa sconfitta in questo scontro di classe e la vittoria di ottobre a Le- ningrado mostrarono che occorre organare una nuova forma di Stato armato il cui “segreto” sta in questo: che esso nega sopravvivenza politica ai componenti la classe sconfitta e a tutti i multiformi suoi partiti.

Carpito alla storia (consentiamoci per facilità espositiva di civettare con questa espressione) questo decisivo segreto non abbiamo con ciò ancora chiarita e studiata tutta la fisiologia e la dinamica del nuovo organismo generatosi, e purtroppo ci resta ancora aperto un campo difficilissimo: quello della sua patologia.

Anzitutto il carattere negativo determinante, ossia la esclusione dall'organo statale (abbia esso o meno impalcature multiple rappresentative, esecutive, giudiziarie, burocratiche) della classe detronizzata, distingue radicalmente il nostro Stato da quello borghese che pretendeva accogliere nei suoi organamenti tutti gli strati sociali.

La novità non può però sembrare assurda alla sopraffatta borghesia. Quando essa riuscì a far saltare il vecchio Stato fondato sui due ordini della nobiltà e del clero, capì che sbagliava a chiedere soltanto di entrare come terzo ordine nell'organismo statale (il termine francese di terzo stato può indurre ad equivoco formale con lo Stato unico; lo sostituiamo con ordine). Nella Convenzione e nel Terrore essa cacciò gli “ex” fuori dello stato, e le fu facile chiudere storicamente la fase dittatoriale in quanto potè rapidamente distruggere i privilegi dei due ordini fondati su prerogative giuridiche più che sulla organizzazione produttiva, riducendo rapidamente anche il prete e il nobile a semplice indistinto cittadino.

Procederemo ora nella successiva parte del presente studio, stabilito il cardine distintivo che definisce la forma storica della dittatura del proletariato, ad esaminare i rapporti tra i vari organismi ed istituti in cui questa si esplica: Partito di classe, consigli operai, sindacati, consigli di azienda.

Discuteremo in altri termini a conclusione il problema della così detta democrazia proletaria (espressione ospitata in testi della Terza Internazionale, ma che sarebbe bene liquidare) che dovrebbe istituirsi dopo che la dittatura ha storicamente sepolto la democrazia borghese.

A. Orso

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.

Prometeo #8

Anno I - N. 8 - Novembre 1947

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