Il limite inferiore della Rivoluzione Proletaria

Quando inizia e quando termina la Rivoluzione proletaria? Quale rivolgimento sociale, intervenuto a seguito di una svolta nella lotta di classe, ne rappresenta l'inizio e quale altro la conclusione? Il comunismo è la società senza classi e senza Stato, quindi la società nella quale per definizione non esistono più le cause delle rivoluzioni sociali. La Rivoluzione proletaria rappresenta un complesso processo sociale che rende possibile il trapasso dal capitalismo al comunismo. Un processo, dunque una concatenazione dialettica di fasi. Orbene, quale rivolgimento sociale può considerarsi come la fase iniziale della rivoluzione proletaria? Naturalmente deve trattarsi di un trapasso della lotta di classe, in forza del quale la borghesia capitalistica perde la posizione di classe dominante e il modo di produzione capitalistico subisce una radicale sovversione, ma il comunismo non è ancora all'orizzonte sociale, dovendo la rivoluzione proletaria superare altre fasi, prima che si addivenga al «deperimento» dello Stato, e quindi al comunismo. In altre parole, la Rivoluzione proletaria presenta un inizio ed una fine sul piano temporale, ed un limite inferiore ed un limite superiore sul piano sociale. Orbene, i rivoluzionari marxisti, che hanno rotto sia con la socialdemocrazia che con il revisionismo stalin-kruscieviano, sono d'accordo sulla definizione del limite superiore della Rivoluzione proletaria (che tutti riconoscono non potere essere rappresentato che dalla scomparsa dello stato), ma non sono affetto d'accordo su quella del limite inferiore.

Ma concepire in maniera diversa il limite inferiore della rivoluzione proletaria equivale a concepire in maniera diversa la lotta di classe tra borghesia e proletariato, e quindi a fissare in maniera diversa la strategia rivoluzionaria. È necessario pertanto confrontare criticamente le opposte concezioni, affinché i militanti rivoluzionari possano liberarsi di posizioni erronee, che impediscono ai movimento rivoluzionario di svilupparsi compiutamente, passando dallo stadio di corrente politica a quello di effettivo partito rivoluzionario della classe operaia.

Innanzitutto conviene ribadire le ragioni dell'opposizione inconciliabile tra la posizione rivoluzionaria e quella riformista dell'opportunismo. Il contrasto può essere ridotto essenzialmente alle opposte risposte che gli uni e gli altri danno al quesito fondamentale: «La Rivoluzione proletaria è un processo storico che inizia nella base economica della società borghese o nella sua sovrastruttura?». Applicando correttamente il materialismo storico, i rivoluzionari proletari ritengono che il primo colpo di piccone vibrato dal proletariato alla dominazione borghese non può essere diretto che contro la sovrastruttura borghese, e in particolare contro lo Stato borghese che della sovrastruttura capitalista è per così dire la materializzazione. Per arrivare a tale conclusione non è sufficiente la capacità di concepire monisticamente i rapporti tra «base» e «sovra-struttura» nella società di classe. Certamente, è la «base» economica che determina la «sovrastruttura» giuridico-politico-filosofica che a sua volta influenza l'evoluzione della «base» medesima, intendendo l'evoluzione come un continuo cambiamento che dialetticamente si accompagna al permanere di alcuni caratteri fondamentali (salario, profitto, accumulazione ecc.). In astratto, cioè prescindendo dalla realtà concreta della lotta di classe, si potrebbe giustificare sia il principio che la rivoluzione proletaria inizia «dentro» la base economica, sia quello che la fa iniziare «dentro» la «sovrastruttura», dato che si esclude ogni dualismo tra «base» e «sovrastruttura». Ma la rivoluzione sociale è un atto della lotta di classe che divide la società. La «base» economica causa obbiettivamente la divisione in classi antagonistiche della società, e quindi l'insieme di norme giuridiche, di ideologie politiche e di sistemi filosofici che tendono a conservare e giustificare tale divisione, insieme che appunto costituisce la «sovrastruttura». Pertanto essere un materialista marxista non significa essere riusciti a eliminare l'artificiale dualismo tra materia e spirito, corpo e anima, «base» economica e «sovrastruttura», ma significa avere acquisito ciò e compreso inoltre che ogni modo di produzione che determina l'effetto sociale della divisione in classi causa un permanente dualismo tra lo Stato, che incarna la «sovrastruttura», e gli interessi delle classi sfruttate. La lotta di classe, poiché il nuovo modo di produzione che potenzialmente esiste nella vecchia società è impedito di sorgere dall'attività cosciente dello Stato, non può svolgersi che nella «sovrastruttura». La lotta di classe è lotta tra uomini, non lotta tra gli uomini e automi produttivi, anche se è innegabile che la volontà dei gruppi e delle classi sociali è determinata dalle necessità economiche; quindi tale lotta non può svolgersi che tra formazioni specializzate della attività umana: da un lato il partito rivoluzionario della classe sfruttata che prende la direzione di tutti gli interessi opposti a quelli della classe dominante, dall'altro lo Stato che, mediante i suoi corpi speciali (esercito, polizia, burocrazia, ecc.) organizza la difesa degli interessi e della esistenza della classe dominante.

L'errore fondamentale dell'opportunismo di tutte le tendenze è di pretendere che nel seno stesso della società dominata dallo Stato della classe sfruttatrice si possa costruire, pezzo per pezzo, molecola per molecola, la «base» economica della nuova società. I riformisti, i gradualisti, gli ordinovisti vecchi e nuovi, sostengono che la rivoluzione proletaria, vale a dire il complesso processo di trasformazioni sociali che assicura il passaggio della umanità dal capitalismo al comunismo, possa avere inizio nella «base» economica della società borghese. Certi chirurghi di avanguardia riescono a fabbricare cani con due teste. I riformisti pretendono si possa fare, in materia di trasformazioni sociali, un'operazione opposta; fare coesistere due «basi» economiche diverse con una «sovrastruttura» comune. Pretendono, cioè, che lembi di produzione socialista possano inserirsi nella società diretta dallo Stato borghese, accanto alla produzione capitalista. Più di mille ragionamenti teorici, gli innumerevoli esperimenti riformistici esperiti in oltre cinquanta anni dai partiti socialdemocratici, oggi degnamente accoppiati agli ordinovisti stalin-krusceviani, stanno a provare che si tratta di un errore che si ci ostina a non correggere, e quindi di un cosciente tradimento degli interessi proletari.

Al contrario, noi sosteniamo che la rivoluzione proletaria inizia «dentro» la «sovrastruttura» borghese, quando cioè la classe rivoluzionaria abbatte lo Stato borghese ed instaura la dittatura, che il partito di classe esercita. In effetti chi muore di morte violenta in una rivoluzione sociale (e quindi nella rivoluzione proletaria) è la «sovrastruttura». Il potere rivoluzionario cancella, abroga, abolisce i vecchi rapporti giuridici di proprietà, cioè interviene «dispoticamente» nella economia sociale, che era organizzata in modo da potere vivere solo nell'ambiente vitale rappresentato dall'insieme delle vecchie norme giuridiche, che ora la rivoluzione abolisce, condannano all'asfissia, per così dire, il vecchio modo di produzione. Necessariamente, le forze produttive ereditate dal regime rivoluzionario, quasi per naturale legge di adattamento, si organizzano in nuovi rapporti produttivi, cioè si genera una nuova «sovrastruttura».

In termini sintetici, la posizione riformista è la seguente: «Cambiando la struttura economica del capitalismo, si cambia la forma dello Stato». La posizione rivoluzionaria, a quella diametralmente opposta, è invece questa: «Cambiando la forma dello Stato, si cambia il modo di produzione vigente».

Può darsi che gli appartenenti ai diversi gruppi rivoluzionari espongano in maniera diversa i principi che abbiamo rapidamente richiamati, ma la conclusione è la medesima. Il primo atto della rivoluzione proletaria è l'instaurazione della dittatura antiborghese, esercitata dal partito a nome della classe rivoluzionaria. Ma il dissenso sorge quando bisogna determinare il limite estremo oltre il quale il riformismo borghese non può andare, senza svuotarsi del proprio contenuto di classe. Se si vuole restare fedeli alla teoria classista, si deve ammettere che ogni atto del riformismo borghese riflette un trapasso della lotta di classe della borghesia contro il proletariato. Le condizioni obbiettive che impongono alla borghesia dominante di «riformarsi» non possono essere che le condizioni dello obbiettivo svolgimento della lotta di classe. Ma ogni volta che la borghesia perviene ad operare una riforma sociale, essa vince una battaglia nella lotta di classe contro il proletariato. Cioè, lo scopo del riformismo è il raggiungimento di sempre migliori condizioni di. lotta contro la spinta rivoluzionaria delle masse sfruttate. In altre parole, la storia del riformismo borghese è la storia della evoluzione della «sovrastruttura» borghese, intendendo per evoluzione ― conviene ripeterlo ― il cambiamento che non esclude la conservazione di determinati caratteri fondamentali che accompagnano dalla nascita alla morte, cioè che evolve. Ad esempio, le assicurazioni sociali (pensioni, assistenza medica, ecc.), compaiono ad un certo stadio del ciclo capitalista, ma non cancellano il carattere fondamentale del capitalismo in quanto economia fondata sul salario ed il profitto; infatti la pensione e l'assistenza previdenziale non sono altro che salario accantonato. E ancora: le vacanze pagate, la vendita a rate estesa ai salariati, la giornata delle otto ore, eccetera. Ogni riforma è un ritoccamento della sovrastruttura borghese, che lascia intatti i caratteri della produzione borghese: salario, profitto, accumulazione, aziendismo ecc. Naturalmente i rivoluzionari non considerano indifferenti tali cambiamenti, anzi, in quanto accettano di lottare per le rivendicazioni salariali e normative, li considerano utili. Si tratta difatti di cambiamenti quantitativi della «sovrastruttura» i cui effetti si accumulano fino al punto che la «sovrastruttura» medesima comincia a non combaciare più perfettamente con la «base» economica, ed allora la società entra marxisticamente nella fase della crisi rivoluzionaria. Allora lo Stato esaspera fino allo estremo i suoi caratteri repressivi, il campo della conservazione si organizza nelle forme del totalitarismo fascista (con o senza etichetta parlamentare), la lotta di classe giunge sull'orlo della guerra civile.

Ma fissare il limite estremo del riformismo borghese significa ovviamente fissare il limite inferiore della rivoluzione proletaria, giacche dove finisce il riformismo borghese inizia la trasformazione rivoluzionaria operata dalla dittatura proletaria. Politicamente, l'abbiamo già detto, il limite inferiore della rivoluzione proletaria è l'instaurazione della dittatura antiborghese. E socialmente? Socialmente, non può essere altro che una trasformazione della «sovrastruttura» borghese che il riformismo capitalista non potrebbe mai operare, senza svuotarsi del proprio contenuto di classe, cioè senza cessare di lavorare per la controrivoluzione. È chiaro dunque che si ritorna al quesito posto e che può formularsi così: «Fin dove può spingersi il riformismo capitalista? Dove si situa il suo limite estremo, la sua marca di frontiera oltre la quale si accampa la rivoluzione proletaria?».

Da quando i bordighisti hanno cominciato a spargere ipotesi revisioniste ,circa l'evoluzione storica della proprietà privata, nel campo rivoluzionario si è cominciato a sospettare che lo stesso capitalismo possa «spogliarsi» della proprietà privata. Infatti, secondo i bordighisti, ciò che abbiamo indicato come il limite estremo del riformismo borghese si situerebbe oltre la scomparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione. Naturalmente, venendo così ad allargarsi la sfera del riformismo borghese, risulterebbe accorciato l'intervallo storico rivoluzionario che separa il comunismo dal capitalismo, e la rivoluzione proletaria verrebbe a perdere una intera fase del suo sviluppo. Ma attribuire al riformismo borghese una nuova fase non significa che si giudica inattuale la rivoluzione proletaria? Infatti, la posizione leninista: «Rivoluzione proletaria o guerra imperialista», «Dittatura borghese o dittatura proletaria», che riassume, nel primo dopoguerra, il contrasto tra riformismo socialdemocratico e marxismo, derivava appunto dalla affermazione della chiusura della fase riformistica del capitalismo.

L'opportunismo non è solo deviazione di principio o solo tendenza viscerale al quieto vivere: risulta invece dalla organica fusione tra errore teorico e mancanza di carattere rivoluzionario. A questa regola non trasgredisce certamente l'opportunismo bordighista che, dal 1926, attende che l'imperialismo faccia propria nientemeno che la prima fase della rivoluzione proletaria e si DEPRIVATIZZI, affidando, non all'azione del partito rivoluzionario, ma al riformismo borghese il compito della dimostrazione della natura controrivoluzionaria del regime di Mosca. E infatti, se davvero l'intero capitalismo mondiale si organizzasse nella forma di proprietà statale che caratterizza il regime russo, non si verrebbe a provare dai fatti che il socialismo è molto di più che l'abolizione della proprietà privata, e che quindi le teorie stalin-krusceviane sono un ignobile caso di tradimento revisionista? In altre parole, il bordighismo chiede allo stesso capitalismo di provare il carattere capitalista del falso socialismo di Mosca, «spogliandosi» dell'ingombrante proprietà privata, cioè facendosi a immagine e somiglianza del capitalismo statale di Mosca.

La forza del bordighismo sta nel semplicismo che si ammanta dei caratteri della essenzialità del ragionamento pseudo-matematico. Un mondo borghese che per giocare la sua ultima carta contro la rivoluzione proletaria si «spoglia» della proprietà privata, e quindi viene a dimostrare conseguentemente la falsità del «socialismo» moscovita, è una concezione intellettualmente affascinante (usando il termine di affascinamento come sinonimo di immobilità politica). Ecco un ragionamento senza fronzoli, ridotto all'essenziale! Ma quanto semplicista! Bordiga, per avere ragione, semplifica il marxismo fino al punto di svuotarlo della dottrina del classismo! Un capitalismo che si autoespropria non può essere infatti che un capitalismo privo di lotta di classe, cioè una pura astrazione intellettuale. Ma d'altra parte bisogna spiegare il fenomeno russo, e cioè il fenomeno di un capitalismo senza proprietà privata. C'è di più. Bisogna spiegare il come ed il perché della diffusione di forme sociali simili a quella russa, come la storia degli ultimi tre lustri sta a dimostrare. Infatti non solo nell'URSS, ma anche nelle «democrazie popolari» di Europa e di Asia, in Cina e oggi persino nell'emisfero occidentale, a Cuba, si è diffuso il capitalismo privo di proprietà privata.

Per risolvere tale problema, senza essere costretti a rivedere le posizioni classiche del marxismo circa la prima fase della Rivoluzione proletaria ed il destino storico della proprietà, bisogna, a parere mio, distinguere tra ABOLIZIONE DELLA PROPRIETA' PRIVATA e COSTRUZIONE DELL'INDUSTRIALISMO CAPITALISTA IN ASSENZA DELLA PROPRIETA' PRIVATA. Bisogna cioè riaffermare con forza e senza il benché minimo dubbio che l'abolizione della proprietà privata è un atto della lotta di classe del proletariato contro la borghesia ed il limite inferiore della rivoluzione proletaria sul piano sociale. Nello stesso tempo bisogna sapere dimostrare che l'introduzione della proprietà statale in ambienti sociali storicamente arretrati, dove le classi moderne non sono ancora completamente differenziate e la lotta di classe tra borghesia e proletariato è assente o solo allo stadio embrionale, rappresenta la manifestazione più chiara delle contraddizioni imperialistiche. Bisogna cioè sapere dimostrare che, nell'epoca in cui l'imperialismo è la forza sociale predominante nel mondo, il processo della industrializzazione capitalista non può avviarsi ― in paesi ex coloniali o semi-coloniali e semifeudali, come la Cina, la Corea, il Viet Nam, la Bulgaria, la Romania, ecc., fino a Cuba ― che nelle forme della proprietà statale.

Il bordighismo ha tentato negli anni scorsi di costruire addirittura una teoria nuova del ciclo storico capitalista, pretendendo di dimostrare che il capitalismo, ogni capitalismo sorto nella storia ― dal Rinascimento ad oggi ― abbia attraversato, per così dire, una fase russa; cioè sia sorto come capitalismo statale. Si arrivò al punto di presentare come prova della nuova ipotesi certi episodi storici .assolutamente non probanti, come l'armamento delle navi nelle repubbliche marinare del Medioevo e la costruzione... della basilica di Santa Maria degli Angeli di Firenze. Ma ciò che nessuno può negare è che i capitalismi che oggi dominano il mondo (Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Giappone, Italia, Francia, ecc.) sono sorti e si sono sviluppati entro le forme della proprietà privata.

Ciò che assolutamente non si può negare è che l'industrialismo capitalista a proprietà statale e a direzione pianificata è un fenomeno esclusivo della fase imperialista del capitalismo, un fenomeno odierno. Quel che importa di più è la situazione, non cronologica ma sociale, di quella forma di capitalismo privo di proprietà statale che in altre occasioni abbiamo indicato col termine generico di OLOCAPITALISMO. In tale caso, non può parlarsi di abolizione della proprietà privata, almeno nel campo dell'industria quasi sempre embrionale o inesistente, ma di rifiuto di incamminarsi nella strada della proprietà privata. Ma tale rifiuto non deve essere considerato come il risultato di una libera scelta, ma, al contrario, come un riflesso della necessità da parte dei paesi sottosviluppati- e arretrati di contrastare le tendenze colonialiste e neo-colonialiste dell'imperialismo. Se si tiene presente che l'industrializzazione di paesi appartenenti alla «geografia della fame» (come la Cina e Cuba), risponde agli interessi di tutte le classi sociali della società arretrata (dove il proletariato è spesso infima minoranza e in ogni caso è lontano dal costituire una classe), ci si avvede che il rifiuto della proprietà privata risulta dalla convergenza di diversi interessi sociali, è insomma un atto politico interclassista. In quanto tale, esso non può essere considerato un atto della rivoluzione proletaria.

Esiste poi il caso dei paesi ex coloniali e semicoloniali (come ad esempio, l'India) i quali si sono incamminati nella strada della proprietà privata, ricalcando il modello liberale del capitalismo occidentale. Si tratta dei paesi nei quali la lotta per l'indipendenza non si è accompagnata alla rivoluzione agraria, cioè democratico-borghese, che invece si è svolta con successo in Cina e nelle altre repubbliche popolari di Asia. Il caso dell'India o del Congo o delle repubblichette-fantoccio dell'Africa ex-francese dimostra appunto che l'assenza della proprietà privata nei paesi che si industrializzano nell'epoca dell'imperialismo è legata indissolubilmente alla lotta, nazionale e democratica (cioè non proletaria), contro l'imperialismo. Laddove l'imperialismo colonialista è riuscito a conservare il controllo della vita sociale dell'ex-colonia i pochi embrioni di industrialismo moderno hanno conservato la forma della proprietà privata, anzi non si è avuto addirittura uno slancio industrializzatore. Tali dunque i fatti insopprimibili che abbiamo sotto gli occhi: conservazione e difesa feroce della proprietà privata industriale e terriera nei paesi di sviluppato e antico capitalismo pervenuti alla fase imperialistica, e nei paesi arretrati che non hanno potuto sottrarsi alle pastoie colonialiste e neocolonialiste; assenza della proprietà privata e impetuoso sviluppo della proprietà statale nei paesi ex coloniali o semicoloniali che le contraddizioni medesime dell'imperialismo costringono (mancando una fase di accumulazione primitiva paragonabile a quella che la conquista e la spoliazione dei territori d'oltremare rese possibile in Occidente fin dalla fine del Medioevo) a radunare e impiegare i capitali di investimento sotto la direzione centrale dello Stato.

Di fronte alla svolta prodotta dalla rivoluzione anticoloniale che aveva l'effetto di generalizzare, in concomitanza con l'estendersi dell'area dell'Europa Orientale direttamente controllata dallo Stato di Mosca, la forma della proprietà statale e della gestione pianificata, il movimento rivoluzionario si è trovato, quando Bordiga scrisse e pubblicò il saggio, tuttora incompiuto e rimasto in parte allo stato di abbozzo, intitolato «Proprietà e Capitale», di fronte a due posizioni revisioniste, e cioè:

La tesi stalin-kruscevista che fa coincidere il limite inferiore della rivoluzione proletaria con l'assenza della proprietà privata, senza fare una discriminazione tra i paesi imperialistici e paesi arretrati (colonie e semicolonie) per cui l'abolizione della proprietà privata, poniamo negli Stati Uniti, e la costruzione dell'industrialismo al di fuori della proprietà privata nei paesi arretrati (Bulgaria, Cina, Cuba ecc.) sono da considerarsi indiscriminatamente come l'atto di nascita della rivoluzione proletaria;

La tesi bordighista, proposta nel saggio «Proprietà e Capitale», che, prevedendo la scomparsa della proprietà privata persino nei paesi imperialistici ad opera del riformismo borghese (leggi: ad opera della stessa borghesia dominante), pretende che il limite inferiore della rivoluzione proletaria sia, sempre e dovunque, ieri e oggi, nei paesi imperialistici e nei paesi arretrati dove la lotta di classe tra proletariato e borghesia è assente per assenza dei protagonisti, l'abolizione del mercantilismo e del monetarismo.

Secondo noi, la tesi di Bordiga, il quale arriva a definire nel suo saggio-abbozzo «forza sociale nuova» il suo capitalismo senza proprietà, non combatte, ma appoggia senza dirlo apertamente la tesi stalin-kruscevista. Infatti, sostenendo che il capitalismo imperialista si avvi verso l'auto-eliminazione della proprietà privata (non sappiamo se ancora oggi, quando il Mercato Comune Europeo celebra l'apoteosi del monopolismo privato, i bordighisti osino sostenere apertamente la loro tesi) si viene a conferire una patente di primato rivoluzionario ― sia pure nell'ambito dell'evoluzione capitalista ― allo stalin-kruscevismo che appare, non più come un regime di controrivoluzione antiproletaria, ma come il pioniere di una «nuova forma sociale». Non basta. Sostenendo la tesi dell'avvento del capitalismo senza proprietà in tutto lo scacchiere politico mondiale, si viene a porre in mora il partito rivoluzionario comunista, a meno che non si arrivi addirittura alla conclusione che, invece di assistere passivamente alla abolizione della proprietà privata ad opera del riformismo borghese, non convenga dare una mano agli operatori di tale mirabolante e miracolosa impresa. Ma dare una mano significa fare lega con il togliattismo e il nennismo. Allora si può spiegare la fisiologia dell'opportunismo bordighista: rimanere immobili per non essere coinvolti in una operazione riformistica che si giudica inevitabile, tenere il partito nelle condizioni di vita latente in attesa che il riformismo borghese porti a compimento il suo capolavoro: la eliminazione della proprietà privata nei paesi imperialistici. Fortunatamente per il marxismo, la storia di questi anni ha provato a sazietà che la borghesia imperialistica è ferocemente decisa a conservare e difendere la proprietà privata, a Chicago come a l'Avana, a Bruxelles come a Elizabethville, a Londra come a Salisbury, a Roma come a Mogadiscio. Ciò spiega perché i bordighisti tendono oggi a suonare in sordina il motivo dell'auto-eliminazione della proprietà privata. Forse attendono tempi migliori, un capovolgimento del corso storico che veda Kennedy imitare Kruscev e Ciombe scimmiottare Castro.

Quale dunque la posizione giusta? Per arrivarci bisogna necessariamente respingere la tesi bordighista. Bisogna convincersi che l'abolizione della proprietà privata nei paesi imperialistici ad opera di forze sociali che non siano quelle del proletariato rivoluzionario e della dittatura proletaria, è pura pazzesca disfattistica utopia. Dove è sorta e si è sviluppata, accompagnando la dominazione borghese dalle origini all'imperialismo, la proprietà privata capitalistica non può essere soppressa che dalla dittatura proletaria, cioè a seguito di un trapasso violento della lotta di classe che veda la borghesia scacciata dalla sua posizione di classe dominante e il proletariato organizzarsi esso medesimo in classe dominante, cioè in classe che possiede una macchina statale. Abolizione della proprietà privata nei paesi del classico capitalismo imperialista (USA, Inghilterra, Germania, Francia, Giappone, Italia, Belgio ecc.) non può significare che completa disfatta della borghesia nella lotta armata fra le classi e decisiva vittoria del proletariato. Pensare che la borghesia imperialistica possa sbarazzarsi della proprietà privata è pura follia volontaristica. Pensare che solo la dittatura proletaria possa espropriare la borghesia è corretto marxismo. Nei paesi in cui non esiste oggi la proprietà privata (URSS, Cina, democrazie popolari di Europa, Asia e America) non è esistita mai una classe borghese dominante, cioè una classe proprietaria dei mezzi di produzione dell'industria e della terra, e padrona dello Stato oppure se è esistita era estremamente debole e sfilacciata, in ogni caso incapace di opporsi senza l'aiuto straniero alla spinta rivoluzionaria delle masse affamate e oppresse.

Ciò che apre veramente la via al socialismo è la sconfitta POLITICA della borghesia capitalistica, ma sconfitta politica della borghesia capitalistica non può significare altro che perdita da parte dei capitalisti della proprietà privata. Ma dove non esiste l'industrialismo moderno, e questo viene costruito in assenza della proprietà privata, non si può identificare l'assenza della proprietà privata con una sconfitta della borghesia.

Ne segue, per riprendere il quesito che abbiamo posto all'inizio, che la determinazione del LIMITE INFERIORE DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA, non è operazione che si possa fare prescindendo dalle origini storiche della forma capitalistica del paese osservato. Se, si accetta la tesi bordighista che esso è ravvisabile, sempre e dovunque, nel superamento del mercantilismo e del monetarismo, allora bisogna: o sostenere che il capitalismo possa spontaneamente liquidare la proprietà privata e portarsi nello stesso stadio dei paesi «olocapitalisti» del blocco russo-cinese oppure ritenere che la liquidazione della proprietà privata è una trasformazione sociale che possa operare indifferentemente sia la rivoluzione proletaria che il riformismo borghese. Di certo resterebbe allora la risposta da dare a chi chiedesse in quale delle due alternative teoriche c'è maggiore quantità di bacilli revisionisti. Il bordighismo pretende di avere riordinato la dottrina marxista. L'amara realtà mostra invece che esso ha iniettato tali fosi di dubbio nei cervelli dei rivoluzionari che oggi, dentro e fuori della chiesa bordighista, c'è gente che si domanda amleticamente di quale morte perirà la proprietà privata nell'ultra-capitalista e iper-industrializzato e arti-reazionario Occidente della Nato e della Chiesa Cattolica: di paralisi progressiva riformista o di trauma rivoluzionario!

La certezza assoluta che la proprietà privata sarà abolita nel «mondo libero», cioè nel mondo del tradizionale capitalismo imperialista, dal proletariato insorto contro lo Stato borghese, ci porta alla conclusione ― per quel che riguarda noi ― che il limite inferiore della rivoluzione proletaria coincide in Occidente con la soppressione della proprietà privata. Sarà tale trasformazione inaudita a dare inizio, sul piano sociale, al processo rivoluzionario tendente al comunismo. La nascita sociale della rivoluzione proletaria non può essere rappresentata, in questa area del capitalismo odierno, che dalla abolizione della proprietà privata. Abolizione, cioè confisca, espropriazione, prelevamento senza riscatto, estesa a tutte le branche della produzione sociale. Inversamente, dimostrerà di essere il vero partito rivoluzionario della classe operaia quello che sarà stato capace di abolire la proprietà privata, operazione impensabile senza l'abbattimento dello Stato borghese e l'instaurazione della dittatura proletaria.

Invece, nei paesi nei quali l'industrialismo capitalista è nato e si è sviluppato in assenza della proprietà privata ― e si tratta esclusivamente di paesi arretrati nei quali l'industrializzazione è coeva dell'imperialismo declinante ed ha potuto avviarsi solo superando le contraddizioni provocate dalla dominazione imperialistica sui paesi arretrati e sulle colonie ― il limite inferiore della rivoluzione proletaria coincide con la liquidazione del mercantilismo e del monetarismo.

In ambedue i casi, lo strumento storico che consentirà l'inizio della rivoluzione proletaria, non può essere che la dittatura proletaria, esercitata, internazionalmente ed internazionalisticamente, dal partito di classe.

Chi si chiede quale paese sia oggi più vicino al socialismo deve guardare, non solo al grado di evoluzione materiale e tecnico della produzione, ma soprattutto al grado di maturità politica del proletariato. I paesi in cui non esiste la proprietà privata per le ragioni anzidette possono essere ben più lontani dalla rivoluzione socialista e dal socialismo che i paesi occidentali nei quali il capitalismo esiste nella sua forma tipica, se è basso il livello politico del movimento operaio locale. Egualmente, paesi in cui le forze produttive hanno raggiunto un grande perfezionamento tecnico ed una concentrazione estrema, mentre la piccola produzione rappresenta relativamente una quantità trascurabile, possono essere più lontani dal socialismo che un paese arretrato, se manca in essi un valido movimento rivoluzionario marxista. In breve, è più vicino al socialismo il paese in cui il proletariato sa esprimere dal suo seno un agguerrito partito marxista, capace di lottare contro l'opportunismo socialdemocratico e stalin-krusceviano sul terreno critico e su quello della lotta reale.

Quando si è assimilato tale criterio di giudizio, si può essere certi di riuscire a lottare con successo contro le tendenze conciliazioniste e difesiste, che sarebbe antimarxista volere combattere, negando semplicisticamente le differenze di sviluppo che rappresentano i capitalismi che oggi si dividono il mondo, o evitando di parlarne alla bordighista in attesa che l'eutoespropriazione della borghesia occidentale e atlantica conduca il mondo borghese all'unità formale ed esteriore.

Il proletariato rivoluzionario ha il dovere di appoggiare, in pace ed in guerra, i partiti ed i governi rivoluzionari. Nessuno dubitò nel 1917 che la arretrata e semibarbara Russia di Lenin fosse più vicina al socialismo, perché sede della dittatura proletaria e dell'Internazionale, che non le doviziose e super-industrializzate democrazie borghesi di Occidente. Nessun rivoluzionario dubita oggi che la più lontana dal socialismo di tutti i paesi è la Russia di Kruscev, che è diventata la fucina delle più mostruose falsificazioni del marxismo e un pilastro dell'equilibrio imperialistico internazionale. La rivoluzione bolscevica rimane una rivoluzione proletaria, perché i decreti di espropriazione del potere sovietico, anche se non colpiranno una potente borghesia locale, rappresentano un proclama di guerra sociale contro il capitalismo internazionale. Ma l'assenza della proprietà privata, condizione entro la quale Stalin e Kruscev hanno scatenato l'industrializzazione, non è sufficiente a conferire un carattere proletario e socialista al regime di Mosca.

Perché il movimento rivoluzionario internazionalista diventi un partito completo, affiancando all'attività teorica l'agitazione e la battaglia politica, occorre avere idee chiare e ferme circa le tendenze del capitalismo e la strategia rivoluzionaria. Bisogna bandire i dubbi circa il destino storico della rivoluzione proletaria ed i limiti del riformismo borghese. Politicamente, la rivoluzione proletaria non può avere inizio, nei paesi avanzati come in quelli arretrati, che con l'instaurarsi della dittatura proletaria. Socialmente, essa inizia, nei paesi nei quali il capitalismo conserva la forma tipica (nei paesi dell'imperialismo occidentale ed atlantico, come nel Giappone) con l'abolizione della proprietà privata; e nei paesi dove l'industrialismo capitalista si è sviluppato e si sviluppa in assenza della proprietà privata, con l'eliminazione del mercantilismo e del monetarismo.

L'assenza della proprietà privata nei paesi che compiono oggi, cioè in pieno imperialismo, la rivoluzione industriale, va spiegata, essendo innegabile il carattere opportunista e traditore dei regimi che si richiamano al marxismo. con la logica della conservazione della proprietà privata sulla quale l'imperialismo fonda il proprio potere. È proprio la determinazione di difendere ad ogni costo l'istituto della proprietà privata, che costituisce il contenuto della politica imperialistica, a determinare crisi sociali (ultimo caso è quello offerto da Cuba) che sboccano nelle rivoluzioni pseudo-socialiste e pseudo-proletarie rappresentate dalle esplosioni di industrialismo capitalista nelle forme della proprietà statale. Tenendo presente siffatte concatenazioni, si comprende che in effetti la rivoluzione proletaria, dovunque scoppi la prima insurrezione, potrà considerarsi riuscita, solo quando il proletariato avrà demolito la proprietà privata capitalistica in Occidente. Solo allora sarà possibile avviarsi verso il socialismo anche in Oriente.

È lecito dunque concludere che il limite inferiore della rivoluzione proletaria è rappresentato dall'instaurarsi della dittatura proletaria e dalla abolizione della proprietà privata capitalistica.

Gennaro Fabbrocino

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.