Fascismo, socialdemocrazia, rivoluzione

Panoramica politica

È inutile ricordare l'importanza che a suo tempo ebbe la discussione (e la polemica) sulla distinzione fra fascismo e socialdemocrazie nel periodo che vedeva in Italia e in Germania l'ascesa delle forze fasciste e il tradimento della socialdemocrazia classica, importanza che pesò particolarmente sulle differenziazioni all'interno dello stesso campo comunista, fra le stesse forze della Terza Internazionale.

È però necessario richiamare alcuni punti di quella discussione perché sia oggi possibile verificarne le implicazioni politiche e al fine di inquadrare lo stesso problema così come si presenta oggi, ovvero con il cambiamento di nome delle stesse forze della socialdemocrazia ammantate di fraseologia pseudocomunista e con una tradizione e un ruolo storico certamente non identico (saremmo per altro pessimi marxisti se pensassimo che la storia, pur all'interno dello stesso quadro economico sociale - quello capitalista - può ripetersi per identità).

La vecchia polemica in campo comunista sul ruolo della socialdemocrazia

A dimostrazione della validità di un metodo, quello marxista, per l'esame di tutto un arco storico, quello capitalista, riportiamo alcuni passi della “Risoluzione proposta al convegno della Frazione di Sinistra del PCI” pubblicata sul Bollettino interno della nostra frazione all'estero nel Dicembre 1932.

Per abbattere il fascismo, prima o dopo la guerra, non v'è che l'azione armata del proletariato. Ma quest'azione armata può trasformarsi nella insurrezione diretta all'instaurazione della dittatura del proletariato e per evitare questo trapasso dell'azione armata, nell'insurrezione, la Concentrazione agirà sul piano politico dell'antifascismo e si presterà a formare il governo della democrazia di sinistra.
L'impostazione centrista del dilemma fascismo-comunismo, perché esclude la possibilità di questa funzione della Concentrazione, annulla di per se stessa la preparazione a battere i Kerenski di domani.
D'altra parte, la denaturazione della dittatura proletaria che il centrismo opera in Russia agisce nel senso di rinforzare le possibilità della manovra controrivoluzionaria che il capitalismo conta di svolgere quando il proletariato avrà battuto il fascismo.
Per preparare il proletariato a battere la Concentrazione domani, il partito deve innanzitutto battere con la propaganda e il movimento, sin da oggi, la Concentrazione. Battere cioè quell'impostazione di lotta contro il fascismo in Italia che poggia sull'isolamento internazionale del fascismo, su questo preteso isolamento, per giustificare l'appoggio che offre e offrirà la socialdemocrazia a quegli imperialismi cosiddetti democratici. Battere questa impostazione della Concentrazione per apprestarsi a dimostrare che essa corrisponde a degli interessi imperialisti che domani si serviranno di questa maschera di antifascismo per scatenare la guerra.

Ci sembra valesse la pena riportare una così lunga citazione per i vari punti di interesse che essa presenta. Va innanzitutto detto per chi non rammentasse che Concentrazione era il nome data alla alleanza o federazione di partiti “antifascisti che nel 1927 prese il nome appunto di “concentrazione antifascista”. Nel nostro documento, dunque, emerge in primo luogo la precisa previsione storica di ciò che sarebbe accaduto, e in realtà accadde, dopo la guerra. Segno questo che la valutazione che la Sinistra dava del ruolo della socialdemocrazia, congiunta tramite il suo massimo esponente di allora (il PSI), con Concentrazione, era esatta.

La Sinistra Italiana

Per la Sinistra, che aveva lungamente lavorato alla elaborazione delle tesi su cui si era costituito il partito a Livorno, la rottura del 1921 aveva la precisa significazione della lotta contro un Partito il PSI) oramai avviato sulla strada della collaborazione di classe, su un corso cioè storicamente irreversibile. Scevra quindi dalle preoccupazioni tatticistiche dei Gramsci e Togliatti, la Sinistra poteva vedere chiaramente e altrettanto chiaramente denunciare le funzioni che la socialdemocrazia era andata evidentemente assumendosi dal 1920 in poi: vanificazione politica del generoso slancio rivoluzionario delle masse operaie nella occupazione delle fabbriche prima, conseguente patteggiamenti con il governo democratico borghese sul piano di un liberismo ormai in declino e nel cui seno andava maturando proprio la reazione violenta del fascismo, ritirata dal terreno di lotta politica nel periodo Matteotti e favoreggiamento quindi dell'unica soluzione possibile al di fuori dell'assalto rivoluzionario, il rafforzamento cioè dello stesso regime fascista.

L'inganno della accentuazione progressiva dei caratteri liberali e democratici dello stato borghese, perpetrato dai partiti socialisti, per la sinistra è sempre stato significativo, sin dalle sue prime manifestazioni, di una politica conservatrice controrivoluzionaria, contro la cui influenza sul proletariato doveva essere rivolto l'impegno di lotta dei comunisti.

Nell'ambito del Partito Comunista d'Italia questa fu la posizione della direzione e della maggioranza degli iscritti fino a che la Sinistra fu alla direzione del partito. Di poi, la confusione politica dei capi da una parte e le esigenze tattiche della difesa di un corso oramai avviato in Russia e che si andava sempre più allontanando dalle sue premesse rivoluzionarie, dall'altra, portarono la linea ufficiale del partito a estremizzazioni prima di destra poi di sinistra poi ancora di destra della valutazione del ruolo della socialdemocrazia, che non colsero mai nel segno e costarono ai comunisti italiani e al proletariato intere sconfitte la cui portata valuteremo nel corso del presente esame.

In secondo luogo dal documento risulta rifiutato lo schematismo di certe affermazioni centriste tendenti ad identificare tout-court la socialdemocrazia con il fascismo. Sebbene, come vedremo le nostre posizioni in proposito, non si siano mai identificate con quelle della Opposizione trotskista, riconosciamo al compagno Trotsky la giusta valutazione del fatto che:

[la socialdemocrazia] è costretta, entro certi limiti, non solo a tener conto della volontà del suo padrone borghese, ma anche degli interessi del suo ingannato mandante proletario...

e rappresenta quindi un “polo del fronte borghese” unito all'altro (fascista) nel momento del pericolo. (1)

Terzo punto di rilievo della precedente nostra citazione è l'indicazione precisa di lotta che la Sinistra dava già allora contro il fronte socialdemocratico. Se ad esso deve essere attribuito il ruolo di forza di riserva del capitalismo per una politica democratica in funzione imperialista, lo smascheramento di tale suo ruolo deve diventare primo compito dei comunisti in una fase ancora distante dall'attacco diretto al sistema. In altra parte infatti del nostro documento si rafforza ulteriormente questo concetto.

La corretta interpretazione del dilemma fascismo-comunismo si ricava dalla analisi della situazione italiana, dei suoi precedenti, per arrivare alla nozione fondamentale che spetta unicamente al partito di classe, al partito comunista, alla sua capacità di determinare, nella realtà, questa successione, di impedire che ancora un volta si ripeta, che cioè il capitalismo - di fronte al precipitare di situazioni - riesca per gli errori, la deviazione e il tradimento del partito di classe, a salvare il suo dominio, facendo ricorso a quel suo personale, a quella sua ideologia che sono attualmente in posizione di riserva.

Il centrismo

Ben altre erano le posizioni appunto del centrismo, su scala nazionale ed internazionale.

Al V Congresso della Internazionale, si era giudicata la situazione come ancora montante (1924) e si era data per morta la socialdemocrazia che veniva relegata nella posizione di forza obbiettivamente fiancheggiatrice del fascismo. Nel Settembre 1924 Stalin dichiarava:

La socialdemcorazia è obbiettivamente l'ala moderata del fascismo. (2)

Ma all'epoca della stesura del nostro documento di riferimento (1932) si erano già vissute le esperienze inglese e francese di una rimonta socialdemocratica e le forze tradizionali della socialdemocrazia avevano continuato a dare segni di notevole vitalità. Ciò non indusse minimamente la direzione politica dell'Internazionale a rivedere le proprie affermazioni e le proprie impostazioni. Stalin si limitò a iniziare una politica a zig-zag che passava dalle accuse di socialfascismo alla socialdemocrazia, alla realizzazione di accordi con essa che, pur nella loro natura grottesca, si dovevano rivelare fonti di sciagure per la classe operaia.

Basti ricordare l'avventura del Comitato anglo-russo che comportò l'affossamento di un potente e combattivo sciopero dei minatori inglesi dal quale sarebbe stato lecito attendersi sviluppi favorevoli al complesso del movimento rivoluzionario della casse inglese. Questo accordo fra le Trade Unions e i sindacati di Mosca veniva così giustificato e difeso da Stalin:

Se i sindacati reazionari inglesi sono pronti a formare con i sindacati rivoluzionari del nostro paese una coalizione contro gli imperialisti contro rivoluzionari del loro paese, perché non si dovrebbe approvare questo blocco? (3)

La precedente affermazione sul carattere socialfascista della socialdemocrazia viene ora trasformato in burletta dallo stesso Stalin, che se per abitudine chiama reazionarie le Trade Unions, attribuisce loro di fatto la capacità di condurre una lotta rivoluzionaria.

Per quanto riguarda più da vicino la politica italiana, valga l'esempio dell'indirizzo dato dal (P.C.I.) e dalla sua ala destra (Serra e Santini) al lavoro del Centro estero della Confederazione del lavoro. Quando iniziò la sua attività (1927) il Centro estero lavorò per la adesione della Confederazione non alla Internazionale gialla di Amsterdam. Ciò voleva essere preludio al blocco che si voleva realizzare con la socialdemocrazia, senza rivedere l'accusa di socialfascismo. Nel 1929 si verifica la nuova svolta: il Centro decide per la adesione alla ISR e torna in auge sulla stampa e nelle dichiarazioni la identificazione socialdemocrazia-fascismo. Restano per altro in piedi i comitati antifascisti e il Congresso Internazionale antifascista fece da introduzione e diede la coper tura di sinistra al congresso per la pace di Amsterdam, convocata dai socialdemocratici.

Alle parole focosamente antisocialdemocratiche si accompagnavano numerosi fatti che davano il riconoscimento ufficiale ai socialdemocratici, non solo, ma che costituivano un vero e proprio compromesso con la socialdemocrazia, consistente nella accettazione di fatto della sua politica antifascista.

Il trotskismo

Ci resta da vedere la posizione dei trotskisti, la quale se da una parte era accettabile per la critica che rivolgeva alla politica dell'internazionale, dall'altra presentava gravissimi errori e insufficienze che porteranno alla successiva accettazione del fronte in funzione antifascista.

Tali errori sono essenzialmente riguardanti la definizione del problema del fronte unico e della parola d'ordine del “governo operaio e contadino”.

Fu proprio Trotsky infatti a difendere la tesi del fronte unico, cadendo da un lato nella illusione che si preparasse l'attacco rivoluzionario in Europa, dall'altro nell'errore di considerare il fronte unico politico un momento di crescita del movimento rivoluzionario, quando invece avevamo tutti rotto con la socialdemocrazia proprio perché in essa era l'ostacolo maggiore alla vittoria proletaria. La posizione del compagno Trotsky suona dunque estremamente ambigua giacché rimprovera alla Internazionale staliniana la conseguente applicazione dei principi fissati dal III e IV Congresso della Internazionale. Diciamo conseguente tale applicazione in considerazione delle condizioni che andavano maturando nella Unione Sovietica e che favorivano il prevalere di una visione nazionalistica dei problemi da parte dell'URSS il cui partito era certamente dominante nella Internazionale che di quei principi si trovò così ampiamente permeata. Era infatti nell'interesse nazionalistico dell'URSS, più che nell'interesse della crescita rivoluzionaria del proletariato mondiale, la realizzazione di fronti tendenti a garantire l'Unione Sovietica dagli attacchi dei paesi capitalistici del resto del mondo, così come abbiamo già visto per quanto riguarda il comitato anglo-russo. Trotsky cerca la salvezza dalle proprie pesanti responsabilità adducendo che l'errore di Stalin e della sua Terza Internazionale consisteva nella incapacità di operare con la duttilità di Lenin sulle questioni tattiche il che avrebbe comportato, secondo Trotsky, la trasformazione di tale duttilità in “manovra per la manovra” condotta da burocrati rimbecilliti dalla routine. (4)

Trotsky (lo abbiamo già citato) è per il riconoscimento del fatto che la socialdemocrazia è uno dei poli del fronte borghese; come può dunque essere alleata del partito comunista in un fronte unico politico, dal momento che lo stesso Trotsky afferma quanto segue?

non c'è crimine più grande che presentare Lenin come un apostolo dell'alleanza con la borghesia. (5)

Vero è che si riferisce in questo passo alla alleanza stipulata dalla Internazionale con la borghesia del Kuomintang cinese; ma non è pur sempre borghese la socialdemocrazia europea?

D'altra parte la dimostrazione che le ambiguità, le insufficienze della opposizione trotskista fossero pericolose la si ha nell'attuale orientamento dei gruppi trotskisti o di ispirazione trotskista (da Lutte Ouvriere, alla IV Internazionale dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, da Avanguardia Operaia a Rouge). Sono questi infatti a sostenere ancor oggi la validità della lotta di Resistenza che ha portato alla ricostruzione dello Stato borghese e a sostenere la necessità di realizzare i fronti unici con le attuali rappresentanze della socialdemocrazia (i partiti nazional-comu nisti) soprattutto nelle esperienze delle lotte nazionali (Viet-Nam, paesi africani ecc.).

Il passaggio della III Internazionale in campo socialdemocratico

Per i marxisti ha valore assiomatico la tesi che una politica opportunista, ove non sia semplice frutto di errore (sempre possibile) e quindi oggetto di revisione da parte di chi la conduce, è sempre supportata da interessi contrastanti a quelli della classe operaia, che sono dunque destinati a divenire i diretti ispiratori di tale politica e delle forze che la conducono. Il limite di Trotsky consistette proprio nel non considerare che la politica opportunista del partito russo non poteva che essere determinata da interessi contrapposti a quelli della classe operaia nel suo complesso e che quindi il partito, così come lo Stato da esso diretto, non erano più strumenti del socialismo, bensì del capitalismo. Su questo fondamentale problema verteva la polemica fra la nostra frazione e la organizzazione del compagno Trotsky, che fino all'ultimo non volle riconoscere il passaggio dell'URSS nel campo dell'imperialismo, lasciando ai suoi seguaci una pesante eredità di cui non hanno ancora saputo o voluto sbarazzarsi.

La Frazione di Sinistra viceversa già all'atto della sua costituzione (Pantin 1928) individuava con chiarezza il rischio che dietro la politica opportunista di Stalin e del partito da lui diretto, e quindi della Internazionale, agissero interessi contrastanti con quelli proletari sia sul futuro dello Stato russo che del movimento comunista internazionale. Ne fanno fede gli articoli apparsi nell'ampia pubblicistica della Frazione (Prometeo, Bilan, Bollettini in Italiano e in Francese) e le dichiarazioni e risoluzioni della Frazione, nonché gli interventi dei singoli compagni nelle discussioni che sui bollettini venivano ampiamente approfondite sui più importanti temi del movimento operaio.

Sinteticamente il pensiero che nella Frazione veniva maturando e precisandosi era che il primo Stato Operaio, a causa delle sconfitte del proletariato internazionale, che lo avevano lasciato nell'isolamento e sulla base di una economia fortemente capitalista, aveva visto prevalere le forze dell'opportunismo, le quali sulla scorta di un contingentismo nazionalista svuotarono gli organi della dittatura proletaria del loro contenuto di classe e distrussero il Partito scaraventandolo sul terreno della conservazione capitalista in Russia e della manovra nell'ambito dell'Internazionale per asservirla agli interessi dello Stato russo.

Il fatto che per lungo tempo i nostri compagni della Frazione abbiano continuato a definire “centriste” le forze staliniste nulla toglie al ruolo che già allora si assegnava loro sul piano della politica nazionale (in ogni paese in cui agivano), lo stesso che assegnavano alle forze della socialdemocrazia! La differenza stava nel fatto che mentre queste, con il crollo della Seconda Internazionale, si erano palesate per sostenitrici del capitalismo democratico a tradizione occidentale, quelle staliniste maturavano come forze di supporto e di copertura per la creazione di un nuovo fronte imperialista, quello russo appunto. L'alternarsi degli abbracci alla socialdemocrazia classica con i suoi ripudi, proprio alla politica staliniana dei partiti della terza internazionale degenerata aveva un preciso significato. Era cioè la manifestazione di una tattica tendente ad assicurare allo Stato sovietico fronti di appoggio su scala internazionale che lo difendessero da eventuali attacchi degli altri stati capitalisti e, a un tempo, lo giustificassero agli occhi delle grandi masse.

Come poteva altrimenti lo Stato russo mercanteggiare con gli altri stati in tema di accordi o di alleanze? Paradossalmente il proletariato mondiale dovette subire la farsa in cui i partiti della Internazionale gialla, borghesi fino al midollo, criticavano da sinistra gli accordi di Molotov con la Germania hitleriana del 1938. Al capovolgimento della situazione, quando la Russia si trovò alleata degli USA e degli altri stati democratici, su uno dei fronti della guerra imperialista, tornò in auge e venne glorificato il fronte unico, non solo con i partiti socialisti ma anche con... la D.C.

In fondo la questione stava qui: se la Russia si fosse trovata, per un concorso di circostanze, certo non impossibili, dalla parte del blocco mitteleuropeo, e contro quindi l'opposto blocco facente capo agli Stati Uniti, se in altri termini fosse resistito il patto Molotov-Ribbentrop, la politica dei p.c. asserviti alla Russia, rivolta alla penetrazione nelle file fasciste e alla alleanza con i “fascisti di base” avrebbe avuto sviluppi imprevisti e imprevedibili, ma che certamente avrebbero portato ad una definitiva contrapposizione frontale con la socialdemocrazia classica.

Siamo nel campo delle ipotesi accademiche su cui non vale la pena soffermarsi. Resta il fatto che, nell'ampia strategia dell'URSS, tendente a mantenere aperte tutte le possibilità, non mancarono appunto gli inviti, prontamente raccolti dalla direzione togliattiana del PCI, a penetrare nelle file fasciste a scopo di “disgregazione” delle stesse.

Le cose andarono in modo tale che la zigzagante politica della Terza Internazionale nei confronti della socialdemocrazia permise, quando fu giunto il momento definitivo, la stretta alleanza con essa. I partiti Socialisti e Comunista si trovarono quindi del tutto concordi su un fronte di guerra “antifascista” che vedeva alleati USA e URSS contro la Germania hitleriana. Si unirono per la difesa dell'Unione Sovietica.

Nell'appello che comunisti, socialisti e giellisti lanciarono al popolo italiano nell'ottobre del 1941, è abbandonato ogni accenno classista; trionfano i temi più cari bagaglio di amenità piccolo-borghesi proprio alla socialdemocrazia, l'amore per la libertà del paese, per la pace, per la libertà.

All'uscita dal conflitto, quando si trattò di ricostruire l'apparato produttivo distrutto dalla guerra sul terreno proprio ad uno stato borghese, socialisti e nazional-comunisti si ritrovarono d'accordo nel condurre la classe operaia al lavoro, a soffrire la fame e le privazioni che la ricostruzione nazionale richiedeva. Il PCI, che aveva precedentemente gettato solide fondamenta per questa costruzione teorica, si lanciò nell'apologia dello Stato democratico che non sarebbe più quello esaminato da Lenin in Stato e Rivoluzione (il migliore involucro cioè per la conservazione borghese) bensì sarebbe ora il miglior terreno di crescita di una economia e di una politica socialista.

In che rapporto sta questa nuova teorizzazione, scopertamente socialdemocratica, con gli interessi imperiali della Russia, e in cosa si differenzia dalla socialdemocrazia classica? Sono questi i nodi da sciogliere per una corretta valutazione del ruolo della socialdemocrazia oggi e delle sue possibilità di resistenza di fronte alla crisi che ha investito il sistema e che, se prossimamente risolta non farà che preludere ad un'altra ancor più grave e profonda.

Funzione storica della socialdemocrazia

Abbiamo già citato il passo del nostro documento del dicembre 1932 in cui si assegna alla socialdemocrazia il ruolo di manovra, controrivoluzionaria del capitalismo. È ormai bagaglio politico e dottrinario acquisito dal marxismo il riconoscimento che l'alternativa socialdemocratica alla rivoluzione si svolge tutta nel campo avverso, in un appoggio alla conservazione borghese, concretizzantesi se necessario nell'esercizio della violenza contro le forze rivoluzionarie (Germania di Noske, Sheidemann, Spagna, Grecia, Cina ecc.). Ad essa tuttavia non va assegnata, come fece opportunisticamente Stalin, la etichetta di “ala moderata del fascismo”, del quale è viceversa la alternativa nel governo dello Stato borghese. Tale identificazione portò a non riconoscere il ruolo che avrebbe svolto comprendendo, giusto caso, nel suo ambito le stesse forze staliniste.

Va quindi considerata come erede del fascismo o come sua fase precedente, secondo i momenti in cui ci si trova (di dominio fascista o socialdemocratico). Tutto questo è in perfetta coerenza con le tesi sostenute da Lenin in Stato e rivoluzione, dove oggi, per le ragioni che vedremo, lo “stato più democratico” va identificato con lo Stato diretto dalla coalizione delle forze tradizionalmente borghesi con quelle socialdemocratiche o direttamente dai partiti socialdemocratici. Ciò in realtà è la sistematizzazione delle esperienze ormai sufficientemente vissute dalla classe operaia, su scala quindi internazionale.

Non capire questo è non capire tutto il corso degli ultimi 50 anni e porta a non vedere il ruolo realmente giocato dal PCI oggi quando imposta, a scopo di mobilitazione democratica, la campagna resistenzial-antifascista, e quindi ad accodarsi. È questo il caso dei mille gruppetti extraparlamentari sempre pronti a farsi neutralizzare e di fatto riassorbire dal PCI e dai sindacati da esso manovrati, ogniqualvolta essi riescono (sempre, per ora) ad agitare lo spauracchio dei fascisti. La teoria del fronte unico lanciata dalla terza internazionale sulla via della controrivoluzione e dai partiti che la costituivano, è oggi ripresa ed applicata dai gruppetti proprio nei confronti di quei partiti. I gruppetti riconoscono formalmente, a parole, la natura socialdemocratica del PCI, ma non capendo il ruolo della socialdemocrazia si pre stano al gioco del fronte unito con essa, ripetendo, aggravato, l' “errore” del PCI che fornì la base teorica alla sua involuzione controrivoluzinaria.

Se il PCI si presenta oggi come il portabandiera della socialdemocrazia, ciò non toglie che permangano in questo campo differenziazioni che vanno esaminate per non essere colti di sorpresa da eventuali modificazioni del fronte, possibili come riflesso di modificazioni degli equilibri internazionali.

Differenze in campo socialdemocratico

Il PSI è concorde con gli altri partiti dello schieramento di centro sinistra nel rimproverare al PCI un insufficiente sganciamento dall'Unione Sovietica. Effettivamente il partito di Berlinguer non dà ancora sufficienti garanzie di autonomia dalle direttive di Mosca, mentre il PSI saldamente ancorato alla politica nazionale, le cui linee fondamentali furono tracciate all'uscita dal II conflitto e situano l'Italia nel contesto NATO e quindi in ruolo subalterno all'economia americana. Anche le attuali tendenze all'unità europea, validamente rappresentate dal PSI, sono elementi di un equilibrio fra le esigenze nazionali e i legami con gli USA, che, a parere del centro sinistra, non deve essere scosso da accentuazioni né nazionalistiche (PCI) né filoamericane (PLI e MSI). D'altra parte lo sfrenato nazionalismo, di cui fa sfoggio il PCI, è chiaramente funzionale ad una accelerazione dell'Unità europea perfettamente coerente agli interessi immediati, se non di prospettiva, dell'Unione Sovietica. Se infatti la unità dei paesi europei comporta uno sganciamento dal dominio americano, e quindi va a detrimento della politica imperialista degli Stati Uniti, ciò non può avvantaggiare la politica altrettanto imperialista dell'URSS, se non altro nell'immediato. Ciò evidentemente non significa che la creazione di un nuovo centro di convergenza di interessi imperialistici in Europa, non si scontri nella prospettiva storica con gli stessi interessi sovietici in Europa. Il Cremlino ne tiene conto conducendo una finissima politica diplomatica con i singoli stati europei che contribuisca a spingerli contro gli USA senza peraltro... mettersi troppi grilli in testa.

Che i p.c.; siano legati a fil doppio agli interessi sovietici lo prova anche l'andamento della disgraziata esperienza cilena, in cui il PC pur di dare addosso all'America, insistette nella ricerca di un compromesso con la D.C. fino all'ultimo, non accettando e boicottando i tentativi dello stesso PSI di armare gli operai in difesa del governo di Unidad Popular. Non potendo la Russia direttamente intervenire, per non sconvolgere pericolosamente gli equilibri usciti da Yalta, il PCC si trovava di fronte a due alternative: o dar battaglia e andare incontro a una sconfitta certa, armi alla mano, di un esperimento pur sempre borghese, socialdemocratico, oppure tentare fino all'ultimo di mettere i bastoni fra le ruote agli interessi USA nel Cile, cercando la alleanza con la DC. Il PCC ha scelto la seconda alternativa, mandando al massacro migliaia di operai e di militanti in buona fede. Se le polemiche in Italia e nel mondo su questa faccenda, sono state soffocate con la stessa tempestività con cui erano state accennate, è solo stato per non turbare possibilità di schieramenti unitari sotto la stessa bandiera socialdemocratica, in paesi, come l'Italia, dove l'esperimento ha non solo maggiori possibilità di riuscita, ma è ancora di salvezza per il sistema capitalista medesimo.

Lo schieramento socialdemocratico di fronte alla crisi borghese

La crisi che ha investito nel 1971 il sistema capitalista in tutte le sue articolazioni mondiali e che tuttora perdura senza che si delineino possibilità di ripresa, pone seri problemi al capitalismo, soprattutto in riferimento all'atteggiamento della classe operaia.

I riflessi della crisi sulla classe operaia sono infatti tali da rischiare di spingerla su un terreno rivendicativo e di lotta insostenibile per il sistema. D'altra parte si rendono necessari certi rammodernamenti dell'apparato amministrativo e politico tali da garantire alla classe borghese e alle sue frazioni dominanti una più elastica risposta alle sollecitazioni multiformi e contraddittorie provenienti dalla struttura entrata in fase critica. Si rendono quindi per lo più inattuali, nelle cittadelle del capitalismo altamente industrializzato, metodi di governo autoritario, scopertamente dittatoriale, in una parola fascista.

Quali sono dunque le forze politiche capaci di garantire il controllo sulla classe operaia e contemporaneamente l'avvio tempestivo di un rammodernamento delle infrastrutture statali così come la situazione del capitalismo, specialmente quello italiano, richiede? Tali forze sono quelle della socialdemocrazia, le quali, in 50 anni di controrivoluzione hanno acquistato una forza e una capacità di influenza sulla classe operaia di tutto rispetto per i borghesi. Tutto spinge dunque, e noi lo andiamo denunciando fin dal 1932, come abbiamo visto, verso una soluzione politica socialdemocratica che non necessariamente vedrà il PCI direttamente partecipe dello schieramento governativo, ma pur sempre in posizione di stretta corresponsabilità con la gestione politica e amministrativa dello Stato borghese, attraverso le amministrazioni periferiche e i meandri del sottogoverno centrale.

D'altro canto tutto questo non esclude colpi di mano da parte di forze apertamente reazionarie e dittatoriali. Va però subito chiarito che non agirebbe in conformità con gli interessi della borghesia monopolistica italiana, bensì secondo gli interessi della centrale imperialistica americana contraria a un corso a sinistra in Italia tendente all'accentuazione dell'europeismo in funzione obiettivamente antiamericana. Tale eventuale colpo di mano quindi, che, sebbene improbabile per considerazioni di politica internazionale, non va semplicisticamente escluso, non costituirebbe lo spostamento della borghesia italiana, o meglio delle sue forze più rappresentative oggi su un piano fascista, bensì la forma che assumerebbe il diretto dominio di forze imperialistiche straniere sulla situazione politica ed economia del nostro paese. Se dunque l'eventuale colpo di stato manovrato dalla CIA o da chi per essa, farebbe precipitare la situazione, non per questo cesserebbe di esistere l'alternativa socialdemocratica in campo nazionale, alternativa pronta a riaffermarsi nel momento in cui il quadro europeo consentisse una nuova svolta nei rapporti con gli USA.

Così come nel 1932 ponemmo il dilemma o rivoluzione o socialdemocrazia, nel valutare la impostazione della lotta contro il fascismo, così oggi dobbiamo affrontare le possibilità storiche di sviluppo della attuale fase, che non esitiamo a definire transitoria nel suo assetto politico di governo.

Stabilito che un regime dittatoriale sarebbe scopertamente in funzione filoamericana in funzione cioè della difesa degli interessi economici politici e strategici degli USA nell'area del Mediterraneo, e che quindi, per quanto riguarda la dinamica europea, resterebbe pienamente attuale la necessità per il capitalismo di una gestione socialdemocratica del potere, si tratta per noi di aver chiari i termini del rapporto intercorrente fra gestione socialdemocratica e sopravvivenza del sistema capitalista di produzione.

In altre parole i termini del problema sono questi: la socialdemocrazia al potere risolve la crisi? (ovvero ha in sé i termini di una soluzione della crisi capitalista?); altrimenti quale è la sua funzione? e inoltre, quale arco storico occupa la gestione socialdemocratica del potere borghese?

La risposta a questi quesiti è insita nell'impostazione precedente dell'esame della socialdemocrazia.

Per quanto riguarda il primo quesito la risposta è evidentemente (almeno per i marxisti) no. Se, marxisticamente, riconosciamo nella dinamica delle leggi di produzione capitalista le ragioni della crisi, non possiamo supporre che una forza politica, qualunque essa sia, abbia la capacità di risolvere i problemi muovendosi nell'ambito stesso del sistema che li determina. In fondo la medesima logica borghese che informa la politica del PCI e dei suoi dipendenti (sindacati, ecc.) non riconoscendo i termini reali della crisi (le contraddizioni strutturali del sistema; caduta del saggio di profitto, corsa alla speculazione, anarchia della produzione e degli investimenti) è tale per cui ogni sua conclusione in termini di azione politica di governo, può tutt’al più rimandare i tempi delle esplosioni, aggravandole, ma non certo evitarle.

La proposta socialdemocratica di un nuovo modello di sviluppo, cercando di illudere che essa sia risolvente, non fa altro che porre le basi per un ulteriore aggravio della crisi medesima. La razionalizzazione del sistema non è altro in fatti che il ricorso alle tecniche di pianificazione accessibili al sistema, e alle più avanzate tecnologie produttive atte a rendere maggiormente concorrenziale la produzione italiana sui mercati internazionale. Orbene, una eventuale accresciuta concorrenzialità dell'apparato produttivo italiano, comporta una variazione nella composizione organica del capitale nel senso di un accrescimento del capitale costante rispetto al capitale variabile (e non c'è barba di economista del PCI che lo possa evitare).

Questa variazione della composizione organica dove si riflette, se non in una diminuzione del saggio di profitto (ferme restanti le condizioni su scala internazionale)? Questo in stretti termini di analisi economica marxista. L'ipotesi socialdemocratica del nuovo modello di sviluppo, su cui concordano PCI, PSI sindacati e buona parte della borghesia monopolistica italiana (si ricordino sempre gli amorosi abbracci di Agnelli con Amendola) può solamente ovviare alla debolezza particolare del sistema economico italiano nei confronti di quello degli altri paesi, ma non incide minimamente sulle condizioni della crisi strutturale del sistema nel suo complesso e nelle sue articolazioni internazionali.

Abbiamo quindi già formulato in parte la risposta al secondo quesito posto. Ma resta da considerare il ruolo che la socialdemocrazia svolge nel contenimento delle lotte operaie. Per questo è sufficiente ricordare che la battaglia politica e sindacale, condotta dal PCI e dalle confederazioni verte esclusivamente su quel famoso “nuovo modello di sviluppo”, a cui si attribuiscono poteri taumaturgici di toccasana universale per orientare le lotte operaie in quel senso sbagliato e deviarle dal piano che sarebbe loro naturale, quello rivendicativo in difesa del salario e del posto di lavoro. Il gioco è formalmente sottile. Riconosciuta la esigenza operaia di un salario che non scemi continuamente di fronte al crescere vertiginoso del costo della vita, e di un lavoro relativamente sicuro, la socialdemocrazia attribuisce alle riforme e alla nuova gestione dello sviluppo economico il potere di assicurare sia un giusto salario, sia la sicurezza del lavoro. Imposta quindi su quei temi prioritari tutte le lotte che fa condurre alla classe operaia, subordinando a quell'obbiettivo tutte le rivendicazioni immediate del proletariato. È evidente la misura in cui ciò torna a vantaggio della classe borghese e del sistema nel suo complesso.

Essendo il nuovo modello di sviluppo oggetto di trattative parlamentari, base su cui dovrebbe realizzarsi il famoso compromesso storico, le lotte operaie condotte dalla socialdemocrazia non rischiano di valicare i limiti di sopportabilità (peraltro sempre più ristretti) offerti dal capitalismo. La borghesia italiana può dunque, nell'ipotesi di una tenuta della socialdemocrazia, dedicarsi alle proprie riforme (nei limiti dati dalle disponibilità finanziarie, anche esse restringentisi), può scaricare il peso della sua crisi sulla classe, può dedicarsi alla speculazione sui mercati internazionali alla ricerca del sovrapprofitto, senza moti contrari della classe operaia medesima.

Quanto può durare simile cuccagna? È un altro modo di formulare il terzo quesito che abbiamo sopra posto. Ancora la risposta viene di conseguenza a quanto già detto. Dal momento che la socialdemocrazia non ha il potere di risolvere le contraddizioni, bensì può solo controllare che le loro conseguenze sociali non si facciano immediatamente sentire, essa esaurisce il suo ruolo nel momento in cui tale conseguenze sfuggono al suo controllo. È fuor di dubbio, ovvero è nella dinamica stessa delle cose, che l'aggravarsi delle contraddizioni strutturali del sistema spingerà la classe operaia in situazioni di bisogno sempre più accentuato. La crescita del disagio operaio si accompagnerà cioè alla crescita delle tensioni interne al capitalismo, le quali (oltre che Lenin, ce lo ha insegnato la storia) tendono alla soluzione catastrofica della guerra. Se quindi non considerassimo il ruolo del proletariato rivoluzionario, dovremmo prevedere l'esaurirsi del governo socialdemocratico nella guerra imperialista. In altri termini dovremmo dire che quando il capitalismo sarà giunto a situazioni insostenibili di esasperata lotta economica per l'accaparramento da parte dei vari fronti dei mercati più redditizi, di sfrenata speculazione bloccante lo stesso apparato produttivo, e quindi a situazioni insostenibili per lo stesso proletariato, che non si accontenterebbe più di promesse riformistiche e di demagogia socialdemocratica, i governi non potranno far altro che dichiararsi guerra. A questo punto che sia un governo socialdemocratico vissuto fino all'ultimo, o un governo militar-fascista subentrato immediatamente prima, a dichiarar l'entrata in guerra, poco incide sulla valutazione del ruolo giocato dalla socialdemocrazia.

Ma in quanto rivoluzionari, e più precisamente in quanto marxisti che hanno soprattutto presente l'inconciliabile contrasto di classe, noi dobbiamo valutare le possibilità dell'evento rivoluzionario.

Socialdemocrazia, fascismo, rivoluzione

Se il ruolo della socialdemocrazia finisce nel momento stesso in cui essa non è più in grado di controllare i movimenti spontanei della classe operaia sospinta su un terreno di lotta dall'urgere delle necessità economiche, ciò non necessariamente significa che il capitalismo cesserà di esistere con essa. Perché sia così è necessario che il proletariato si erga come classe storica antagonista alla borghesia e accampi con la forza il proprio diritto alla direzione della produzione, vale a dire alla distruzione del sistema economico capitalista. Se per disgrazia storica ciò non avvenisse la classe borghese avrebbe pronta la sua alternativa di potere, il governo militar-fascista, dittatoriale, distruttore di tutte le organizzazioni della classe, massacratore degli operai che osassero ancora protestare per le vessazioni che dovrebbero subire. Il governo cioè direttamente riflesso da una situazione di estremo accentramento dei mezzi produttivi, di stretto dominio degli oligopoli, di incontrastato potere dei centri finanziari lanciati alla speculazione più sfrenata e antisociale.

Dicemmo nel 1932 (vedi ancora la citazione del nostro documento) in polemica con i centristi, che il dilemma non era semplicemente fascismo o comunismo, che il capitalismo aveva ancora un'altra possibilità, quella cioè di una democrazia di sinistra, della quale i centristi di ieri sono oggi parte integrante.

Nel 1974 affermiamo che al regime socialdemocratico il capitalismo può sempre sostituire quello fascista, se il proletariato non trova la forza per fare la sua rivoluzione.

Non siamo con coloro i quali vorrebbero correre dietro a tutte le occasioni per realizzare fronti unici antifascisti per il semplice motivo che essi sono proprio il punto di forza della socialdemocrazia sui quali essa opera il continuo ricatto dell'alternativa borghese. In quanto comunisti, in quanto rivoluzionari, noi ci poniamo al di fuori di tale logica. Alla socialdemocrazia attribuiamo la dovuta corresponsabilità alla gestione del potere borghese. Ai rivoluzionari non spetta darle man forte per combattere la sua alternativa borghese. Lottiamo contro di essa come abbiamo lottato contro il fascismo: come cioè l'espressione del regime borghese di produzione e di sfruttamento, in un dato momento storico. Ai rivoluzionari spetta il compito di preparare la distruzione del sistema contro tutte le forze che quel sistema tendono a conservare.

Non esiste “il pericolo fascista” fino a che la socialdemocrazia sarà in grado di controllare la classe operaia. Quando non sarà più in grado di farlo allora non si tratterà di difenderla contro il fascismo bensì sarà il momento di portare il movimento della classe operaia fino al suo obbiettivo storico: la rivoluzione socialista.

Nel 1943, quando il fascismo crollò sotto i colpi delle armate alleate e sotto la spinta di tensioni che non era più in grado di controllare, non ponemmo, unici in Italia, il problema della sua alternativa borghese, la democrazia, bensì quello della rivoluzione, per la quale lavorammo, contro tutto e tutti, avendo addosso soprattutto i cani da guardia della ricostruzione nazionale. Si trattava per noi di portare fino al suo sbocco rivoluzionario il movimento delle masse contro la guerra e contro le condizioni di affamamento imposte dalla guerra imperialista medesima.

Ancora per noi si tratta di trovare i mezzi e le forze organizzative perché il futuro crollo del regime socialdemocratico sotto la spinta di avvenimenti più grandi delle sue possibilità di controllo, si risolva nel trionfo del proletariato, sul piano della sua più completa autonomia di classe. L'arroccamento delle forze in difesa degli istituti democratici al fianco delle forze democratiche medesime segnerebbe la sconfitta della classe operaia. È evidente il perché. Se la socialdemocrazia finisce è perché la classe l'ha scavalcata, mirando oltre, cioè, ai suoi interessi; ricondurla in difesa di un regime che crolla significa votarla alla sconfitta del suo movimento storico e precipitarla nella dittatura fascista inevitabilmente vittoriosa.

Gli avvenimenti spagnoli 1933-39 sono la verificata esperienza storica di questo assunto. Quando il regime di Companys crollò sotto la spinta insurrezionale delle masse operaie e contadine nelle giornate del Maggio 1937, l'alternativa si stabilì fra fascismo e rivoluzione. La guerra democratica, siglata con il bagno di sangue degli operai rivoltosi, non poteva che essere votata alla sconfitta. Ancora la nostra Frazione si distinse, in polemica accesa con lo stesso Trotsky, nell'individuare questo fondamentale problema storico fra i fumi artatamente diffusi dalla propaganda democraticista dello schieramento socialcomunista. La classe operaia sconfitta nelle sue aspirazioni storiche non avrebbe combattuto vincente per interessi non suoi. Se la democrazia crolla è perché risulta impotente di fronte alle contraddizioni interne e alle pressioni estere. L'unica possibilità di evitare la sua alternativa fascista è la rivoluzione proletaria, è cioè l'uscire dal sistema che impone quella alternativa. Le giornate di Maggio segnarono la sconfitta della Rivoluzione di classe, i rivoluzionari dovevano quindi ritirarsi con battaglie di retroguardia salvando la organizzazione, i quadri, la piattaforma rivoluzionaria. È ciò che fecero i nostri compagni, criticati da Trotsky che insisteva sulle tesi della rivoluzione permanente ormai superate dalla dinamica capitalista che già aveva data la esperienza democratica come vissuta e combattuta dal proletariato. (6)

Quanto sopra ha il preciso significato della necessità di portare a fondo la lotta alla socialdemocrazia perché il crescere delle contraddizioni capitaliste e quindi delle tensioni sociali conseguenti sia la base di crescita di una effettiva coscienza rivoluzionaria fra le masse.

Condizioni della rivoluzione

Le forze rivoluzionarie hanno dunque un grande compito dinanzi a sè in una situazione avente molti dei caratteri della situazione pre-rivoluzionaria. Il problema essenziale è legare la crescita del malcontento operaio ad una piattaforma e a un programma rivoluzionari che facciano della lotta alla socialdemocrazia la premessa dell'attacco proletario al sistema. Si annunciano tempi in cui sarà facile la critica alla condotta del PCI e dei sindacati, ma il problema è di evitare la dispersione di tale critica in un qualunquismo inconcludente e valido supporto alla crescita della alternativa fascista. Tale nodo d'altra parte è perfettamente compreso dallo schieramento socialdemocratico che dà però il qualunquismo come unica alternativa alla condivisione della sua politica. L'atteggiamento infatti che esso tiene nei confronti delle critiche che già si fanno sentire all'interno della classe operaia (seppure ancora in modo sporadico e disordinato) è di questo tipo: attaccare noi significa fare un salto nel buio in cui pescano le forze del qualunquismo di destra e della eversione fascista.

Compito dei rivoluzionari è quindi di sviluppare la critica alla socialdemocrazia nella prospettiva rivoluzionaria, dimostrando che il problema non è quello delle forme di governo bensì del potere di classe. Perché ciò sia possibile è necessario che il partito rivoluzionario si faccia reale punto di riferimento dei moti e delle agitazioni rivendicative della classe operaia. La sua crescita in questo senso è l'unica garanzia perché anche le stratificazioni intermedie della società (i ceti medi, la piccola borghesia commerciale, ecc.) si spostino sul piano rivoluzionario dell'attacco al sistema, e non sul piano della reazione che seguirebbe il fallimento della socialdemocrazia.

Caratteristica essenziale dei ceti medi è il perenne ondeggiare fra i poli opposti della struttura di classe, non solo, in periodo non rivoluzionario, fra le due espressioni fondamentali del potere borghese oggi (fascismo e socialdemocrazia). In fondo è con il loro appoggio, con il contributo del loro peso di massa che si afferma e si sostiene l'una e l'altra delle forme di governo. Nei momenti pre e rivoluzionari, queste stratificazioni intermedie sono al traino dell'una o dell'altra classe contrapposte. Una corretta impostazione del problema dei ceti medi prevede dunque la organizzazione preventiva del proletariato in classe pienamente autonoma nel suo programma e nelle sue prospettive di realizzazione rivoluzionaria. Non è dunque problema che riguardi immediatamente la fase attuale, dal momento che è prioritaria quella riorganizzazione autonoma del proletariato.

Oggi, pochi in numero e ancora deboli in organizzazione dobbiamo porci il problema di fondo della classe operaia: il suo legame stretto e solido con il suo partito rivoluzionario.

Esso si renderà possibile solo nel concrescere della situazione obbiettiva con il crescere della organizzazione e della influenza politica del partito. Il problema diviene dunque questo: avremo realmente assieme al maturare delle condizioni oggettive il crescere della coscienza proletaria? ovvero l'organamento della dottrina politica e del programma del partito con il corso del movimento operaio concreto? I termini del problema hanno in sé tutta la drammaticità della fase che viviamo. Là ove la socialdemocrazia sembra vacillare, negli ambienti influenzati dalla sinistra extraparlamentare, dominano tuttavia le deviazioni fondamentali della III Internazionale staliniana da cui prese il via la degenerazione dei partiti nazionalcomunisti.

Da nessuno dei vari raggruppamenti della sinistra extraparlamentre la classe operaia può attendersi una valida guida per l'attacco. Il loro attuale gioco ai bussolotti con PCI e direzioni sindacali lo prova ampiamente. Mancano sia le idee sia le capacità politica per trarre il proletariato dalle secche in cui l'ha condotto la controrivoluzione staliniana. Se la crisi dunque avanza, ed avanzerà, andrà anche maturando una situazione in linea di massima a noi favorevole: le nostre critiche al PCI, ai sindacati, alla sinistra extraparlamentare troveranno un terreno certamente più ricettivo fra gli operai. Questo terreno noi lo dovremo sfruttare con tutte le nostre forze, con tutta la nostra capacità, con tutto il senso di sacrificio di cui i militanti rivoluzionari sono capaci. Se i tempi di maturazione della crisi borghese, e quindi socialdemocratica, sono sufficientemente lunghi (e sarebbe idiota quantizzare il concetto) abbiamo la possibilità di arrivare alla rivoluzione, in coincidenza con il crollo della socialdemocrazia. In caso contrario, nel caso cioè che la situazione precipiti, dovremo comunque esser pronti ad affrontare con rinnovato coraggio e volontà rivoluzionaria la fase successiva, di preparazione e di combattimento della guerra.

Cosa spetta di fare dunque al partito rivoluzionario in questo periodo? La esiguità attuale delle forze deve essere motivo di oculatissima scelta dei campi di attività e di lavoro politico in cui concentrarle. Il partito l'ha fatta ponendo il problema della riorganizzazione dei gruppi di fabbrica e dei gruppi sindacali internazionalisti.

Dobbiamo iniziare ad operare sul piano che le condizioni obbiettive del proletariato ci impongono: critica alla condotta sindacale, critica della cosiddetta opposizione extraparlamentare che non coglie nel segno, disperdendo così potenziali di lotta ben altrimenti utilizzabili.

Sulla base di quello stesso lavoro, e rendendo più organico l'intervento del partito e delle sue forze negli altri settori è necessario rafforzare la organizzazione dei quadri da lanciare nella lotta. È cioè necessario rendere adeguato il partito alle sue necessità di lavoro e ad affrontare anche la situazione, eventualmente negativa per l'assolto, che dovesse determinarsi con un precipitare della situazione prima che la classe si sia riagganciata al suo partito.

Le tappe del cammino rivoluzionario sono dunque:

  1. rafforzamento del partito nei suoi quadri e nella sua influenza fra gli operai;
  2. ulteriore radicarsi del partito nella classe in coincidenza con il maturare della situazione, tramite la organizzazione nazionale dei gruppi sindacali comunisti internazionalisti, in grado di condurre le lotte sulla base delle indicazioni politiche e delle parole d'ordine permanenti del partito;
  3. assalto nel momento opportuno, alle strutture economiche e politiche del capitalismo.

Vale la pena ripetere che tutto ciò deve avvenire in sincronia con i tempi e i modi di maturazione della crisi. A sincronie in questo processo di crescita sarebbero fatali per l'esito rivoluzionario. La dinamica cioè si sposterebbe su altre linee tutte all'interno della conservazione borghese.

Mauro jr. Stefanini

(1) Trotsky - “La terza internazionale dopo Lenin” - Schwarz - pag. 136.

(2) Pravda, 20 Settembre 1924, Riportato da Trotsky, op. cit. pag. 136.

(3) Riportato da Trotsky, op. cit. pag. 151.

(4) Cfr. Trotsky, op. cit., pagg. 155 e segg.

(5) Trotsky e altri - “La piattaforma della Opposizione nell'URSS” - Samonà e Savelli - pag. 105. V. anche “Sulla rivoluzione strangolata e i suoi strangolatori”, ne “La rivoluzione permanente”, Einudi pgg. 142 e segg.

(6) Le responsabilità di Trotsky e dei suoi seguaci sono comunque più pesanti. Il POUM, in tutte le sue frazioni, ivi compresa quella di sinistra, accettò il fronte unico con gli stalinisti e i socialdemocratici in difesa della Repubblica senza prepararsi preventivamente alle giornate di Maggio che lo trovarono quindi impreparato come tutti gli altri raggruppamenti, a sostenere il ruolo di guida nell'attacco generalizzato.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.