Circoli e partito rivoluzionario

Dopo aver precisato il pensiero tradizionale del partito sul problema del centralismo, che solo l'abitudine al sofisma e alla pedanteria formale o alla mistificazione ha posto al centro di un dibattito che non ha né capo né coda e ha ridotto a quisquilia da salotto il problema se tale centralismo dovrà essere “democratico e organico”, noi riteniamo che il centralismo come è stato inteso e praticato da Lenin sia la forma più idonea alla funzionalità d'un partito rivoluzionario chiamato a risolvere il grave compito di organizzazione e di guida dell'evento più irrazionale e violento, più ricco di imprevisti, di incognite e di inesorabilità quale quello della conquista rivoluzionaria del potere capitalista, il più esperto e inesorabile organizzatore di violenza, ora legale e ora organizzata e armata, che la storia ricordi.

Ma un partito rivoluzionario, che non potrà essere formato nella sua stragrande maggioranza che da quadri operai selezionati dalla lotta di classe, sarà un potente strumento d'azione rivoluzionaria nella misura che la sua ferrea unità vedrà risolto il problema di una permanente interdipendenza tra vertici e base della organizzazione, nella misura cioè che sarà vivo e operante, nella coscienza collettiva del partito, il nesso costante tra libertà e disciplina.

E veniamo all'altro aspetto del dibattito, aperto in modo così maldestro e inconsiderato da “Programma”, quello dei “circoli” in cui oggi sembra rinchiudersi e quasi smarrirsi tanta e così caotica disseminazione della sinistra antistalinista. Usiamo l'attributo “antistalinista” e non quello “rivoluzionario” per l'ovvia considerazione che l'antistalinista non sempre è rivoluzionario: anzi lo è solo in qualche caso.

A che cosa e a chi si vuole dunque alludere con la denominazione di circoli? Quali sono in realtà? Quali le analogie o meno con la fase storica caratterizzata appunto dai circoli del periodo della vecchia “Iskra”?

Vi sono oggi le condizioni obiettive perché tali circoli, nella ipotesi che essi esistano, possano giocare un ruolo di componente, anche se non determinante nella ricostruzione del partito rivoluzionario?

Ritorniamo sempre volentieri, soprattutto per quel che di fresco e di sempre nuovo sprigiona, alle vicende che precedettero il II Congresso negli anni della preparazione (1890-1900) quando era necessario portare a compimento l'opera della delimitazione ideologica, politica e organizzativa delle varie organizzazioni in cui era allora diviso il fronte delle forze che tendevano alla loro unificazione in partito sul piano elaborato dalla vecchia “Iskra”.

Anche per Lenin era la tendenza storica del partito che poneva sul primo piano (si tenga presente che ciò avveniva a due, tre anni dal 1905, l'anno della prima rivoluzione) la convergenza dei molti gruppi nei quali fosse possibile individuare, se non una piattaforma comune, almeno un minimo denominatore comune che servisse da necessario cemento. Ecco come Lenin precisa il compito essenziale assegnato al Congresso:

“quello di creare un vero partito fondato sui princìpi ideologici e organizzativi che erano stati formulati ed elaborati dall' "Iskra". Che il congresso dovesse lavorare appunto in questa direzione, era già stato stabilito dai tre anni di attività dell' "Iskra" e dal fatto che essa era statà riconosciuta dalla maggioranza dei comitati. Il programma e la tendenza dell' "Iskra" dovevano diventare il programma e la tendenza del partito; i piani dell' "Iskra" circa le questioni organizzative dovevano venire sanzionati dallo statuto d'organizzazione del partito. Ma è ovvio che questo risultato non poteva venire raggiunto senza lotta: la rappresentanza completa assicurò al congresso anche la presenza di quelle organizzazioni che avevano lottato decisamente contro l' "Iskra (il Bund e il "Raboceie Dielo"), e di quelle che, riconoscendo a parole nella "Iskra" l'organo dirigente, perseguivano in realtà i loro propri piani e si distinguevano per la loro instabilità nel campo dei princìpi (il gruppo del "Junzi Raboci" e dei delegati di alcuni comitati che vi aderivano). In tali condizioni il congresso non poteva non diventare un'arena di lotte per la vittoria della tendenza iskrista.”

E nell'affrontare questo difficile problema della unificazione di forze tutt'altro che omogenee, Lenin sapeva che sul piano dell' “Iskra” la delimitazione riguardava non solo i gruppi estranei ma gli stessi che rappresentavano l' “Iskra”, che lo svolgimento del II Congresso avrebbe messo in evidenza.

Il dibattito o meglio lo scontro di tutte le tendenze avverrà non a caso, su qualche articolo dello Statuto non certo per un diverso modo di porre e di risolvere i problemi, di semplice organizzazione, in apparenza del tutto formali, ma in realtà per una loro caratterizzazione ideologico-politica che mirava a selezionare, o meglio a mettere nella impossibilità di coabitazione nella stessa organizzazione forze che tendevano all'unità, forse in buona fede ma incapaci di concepire e di volere, in concreto, il partito come strumento insostituibile della classe e della guida rivoluzionaria.

Che tutto ciò avvenisse nel clima storico della II Internazionale, in cui prevalevano le istanze democratico-parlamentari, la lotta legalitaria e la pratica del compromesso non fa meraviglia, ma quel che può meravigliare è che non sia chiaro come nella esperienza di Lenin, della vecchia “Iskra”, la soluzione dell'assunto organizzativo del partito imponeva un accorgimento di particolare, profonda intuizione politica dello sviluppo rivoluzionario nel contesto di una realtà obiettivamente conservatrice.

Lo scontro tra il Lenin della milizia attiva e i Plekhanov, i Martov e gli Axelrod che auspicavano all'unità del tutto formale del partito perché in esso fosse permanente e operante la caratterizzazione dei “circoli” dei quali bisognava tener conto, essi affermavano, come di “grandezze storiche”, faceva già prevedere come la delimitazione avrebbe operato sul corpo dei circoli come una forza centrifuga nei confronti della organizzazione del partito; la Rivoluzione d'ottobre vedrà infatti queste forze dalla parte opposta della barricata di classe.


L'esperienza italiana della fase che precede la formazione del partito non è meno significativa per gli insegnamenti che da essa è stato possibile trarre. Al convegno di Imola, più che al congresso di Livorno, il superamento dei gruppi genericamente caratterizzati a sinistra se ha comportato una non minore asprezza polemica e di attriti interni, tuttavia l'intesa unitaria si è realizzata con una facilità inversamente proporzionale alla sincerità.

Vero è che a ciò ha contribuito in misura determinante la suggestione della rivoluzione di Ottobre; va tuttavia tenuto presente che ad Imola nessun gruppo ha giocato, né poteva giocare, il ruolo che aveva avuto l' “Iskra” davanti al II congresso. Né gli ordinovisti, né gli astensionisti, né i massimalisti filocomunisti hanno mai sostenuto che il “loro programma e la loro tendenza dovevano diventare il programma e la tendenza del partito di Livorno” tanto li sovrastava la politica del centro dell'Internazionale. È mancata così nel 1921, la presenza di una piattaforma che fosse centro valido di polarizzazione quale era stata l' “Iskra” negli anni 1890-1900.

Nota comica e pietosa insieme del convegno, l'intervento del rappresentante degli astensionisti che dichiarava solennemente lo scioglimento della frazione e della sua maggiore istanza, quella dell'astensionismo, per tacitare i sospetti e le ire mal contenute dei deputati massimalisti ed espresse durante i lavori dalla viva eloquenza di Luigi Salvatori. Sempre ad Imola, nota altrettanto comica e pietosa è il sacrificio dell'ordinovismo fatto sull'altare del partito che stava per sorgere.

Tutto ciò è avvenuto in una situazione montante delle possibilità reali della rivoluzione; ma che cosa accadrà a situazione mutata e nel deflusso dell'ondata rivoluzionaria, venuta ad infrangersi contro il muro della controrivoluzione? Accadrà quel che è infatti accaduto dal 1924 in poi quando ai Gramsci e ai Togliatti sono rispuntate le corna antiche, i vizi originari dell'idealismo e del concretismo fusi nella esperienza torinese dell'“Ordine nuovo”, armi spuntate che si voleva fossero più idonee ad esprimere idee e metodi più consoni alle mutate condizioni della lotta operaia, quando si è voluto sostituire, con una politica di compromesso e di obiettivi contingenti, le prospettive della rivoluzione ininterrotta e della fine catastrofica del conflitto di classe, quando in una parola, bisognava diventare legalitari nella e per la costituzione repubblicana solo perché l'apparente, transitorio consolidamento del capitalismo aveva ricreato l'illusione d'una democrazia “immarcescibile” non soggetta cioè all'usura del tempo e delle mutevoli e contraddittorie vicende del capitale.


Alla luce della duplice esperienza possiamo ora affrontare l'esame della situazione odierna nella quale la frantumazione in gruppi della generica sinistra comunista è originata da cause profondamente diverse da quelle esaminate fin qui anche se il problema di fondo rimane sempre lo stesso, la ricostruzione di un partito adeguato alle esigenze della lotta rivoluzionaria.

Ma intendiamoci innanzitutto sulla vera natura di tali gruppi delimitandone, più che la consistenza numerica, certe note caratteristiche ideologico-politiche.

È sconcertante come tutti si richiamino alla necessità del partito e come ognuno pretenda di essere in “nuce” il partito.

In questo senso si può dire che per statura d'uomini, per preveggenza politica e senso di responsabilità, quel che offre oggi la situazione delle minoranze rivoluzionarie sia assai al di sotto dell'esperienza della vecchia “Iskra” e dello stesso convegno di Imola.

Se non si può accettare il criterio discriminatorio tra i gruppi della sinistra comunista, tuttavia sarebbe ingiustificato e politicamente miope, non tener conto dei dati obiettivi che conferiscono legittimità storica alla elaborazione teorica d'una linea costante e conseguente di opposizione ad ogni politica di compromesso e di capitolazione e alla costruzione di una base organizzativa di quadri selezionati passati alla storia del movimento operaio come “sinistra comunista”, dal cui seno è nato il Partito Comunista Internazionalista nel suo insieme, dopo essere stata opposizione di sinistra nel Partito Socialista fino al Congresso di Livorno, maggioranza nel Partito Comunista d'Italia fino alla bolscevizzazione del partito, tornata quindi alla opposizione fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e organizzatasi in frazione in Francia e Belgio nel 1927 in stretto permanente collegamento con il Centro interno che avrebbe deciso, nel 1945, la sua trasformazione in partito su di una linea di classe che in tutti questi anni non si è mai piegata né spezzata di fronte al duplice attacco delle forze tradizionali dell'avversario di classe e delle nuove forze reazionarie dello stalinismo. Ed è qui, in questo solco non sempre agevole a lavorarvi dentro, ma pur sempre fertile, che bisogna ricercare idee, motivi e nuove energie di uomini e di esperienze per prendere in mano decisamente, e con il prestigio dovuto e la necessaria autorità morale e politica, l'opera immane della costruzione del partito rivoluzionario.

Oltre i comunisti internazionalisti, cui questo compito spetta non per diritto naturale o divino, né per diritto di primogenitura e neppure per essere considerati i “primi inter pares”, esistono altri raggruppamenti. venuti fuori di recente dalla crisi interna del P.C.I., di cui non discutiamo né la buona fede né la capacità, ma questi non sono attributi sufficienti per militanti rivoluzionari se essi stessi non si dimostrano altrettanto capaci di affrontare e di portare fino in fondo un riesame critico della loro condotta politica di fronte ai maggiori problemi, quali la natura di classe dello Stato sovietico e il carattere della sua organizzazione economica e politica; la natura della guerra in generale e delle guerre coloniali in particolare, nella fase storica del dominio imperialista e del capitale finanziario, e infine l'accettazione o meno della strategia rivoluzionaria che vuole che in Russia, in Cina e nei paesi retti a regime di democrazia, alleati diretti o indiretti di questi due centri di potere, si ponga in totalità il problema della riconquista del potere che spezzi le strutture della economia mercantile capitalistica su cui è eretto il potere del Capitalismo di Stato.

Il frazionamento di queste forze è da attribuirsi quasi esclusivamente a quel processo di decomposizione cadaverica del primo Stato operaio generatore d'un nuovo opportunismo quale quello che considera il Capitalismo di Stato, in Russia, come la fase d'obbligo della costruzione del socialismo o, meglio, come la fase necessaria del socialismo inferiore.

Chi non tiene conto di questo quadro non può capire che cosa ci possa essere di comune tra la esperienza della vecchia “Iskra” di Lenin che aveva per sfondo storico la seconda Internazionale e la presente situazione nella quale il problema storico del partito rivoluzionario trova i suoi limiti maggiori, a volte invalicabili, proprio in quel terreno del proletariato che è fortemente se-dimentato di stalinismo da cui trae alimento quella mala fungaia che si chiama ora trotskismo, ora bordighismo, ora maoismo che pretende, ognuno, impersonare la ideologia della rivoluzione ma in realtà tende a ridurre questo patrimonio politico di tutto il proletariato, alla propria statura intellettuale, alla propria vanità quando non al proprio tornaconto personale.

C'è dunque una non lieve differenza tra i gruppi che si richiamano all'internazionalismo in quanto minoranza storica e tendono a confluire in una organizzazione unitaria e quelli che, pur dichiarandosi comunisti internazionalisti, provengono in genere dalla crisi cronica del P.C.I. I primi sono attestati su posizioni di rottura di classe con la ideologia e con la politica del P.C.I. che ha imperversato e imperversa tuttora nel nostro paese, mentre i secocndi, trotskisti, maoisti, azionisti nella edizione filocinese, devono dimostrare in sede di contributo teorico e in sede di attività politica, d'avere rotto ogni legame con l'opportunismo.

E sono in realtà i primi, i gruppi della minoranza storica, che interessano la nostra analisi.