Non si costruisce il partito giocando al paradosso

Due parole di chiarimento sulla piattaforma teorico-politica redatta da alcuni compagni francesi che si sono raccolti attorno alla iniziativa di “Parti De Classe” (1).

Sulla linea della continuità storica della “sinistra italiana”, la costituzione in Italia del Partito Comunista Internazionalista, rappresentava la conclusione logica e conseguente della frazione che nella fase terminale del­la II guerra mondiale non poteva ricostruirsi come tale per i compiti nuovi e più complessi ch'essa era chiamata a risolvere.

Il diagramma della continuità esprime la frazione come il momento di passaggio dalla esperienza partitica della “sinistra italiana”: il partito di Imola e di Li­vorno con il suo ultimo atto di riconferma storica che passa attraverso il “Comitato d'Intesa” e la sua rico­struzione (1943) come Partito Comunista Internaziona­lista che costituisce tuttora la sola premessa teorico-organizzativa per ogni possibilità obiettiva di ricostru­zione del partito rivoluzionario del proletariato inter­nazionale.

La costruzione del partito nei suoi quadri tradizio­nali è stata possibile nella fase storica del crollo del fascismo avvenuto nel quadro di un più vasto crollo, quello di un settore economico-politico e militare della II Guerra Mondiale nel quale l'Italia fascista era inse­rita come uno dei pilastri più importanti, la stessa ope­razione non sarebbe stata possibile nella fase della fra­zione se non per effetto di uno scivolamento idealistico e spontaneista non esistendo, neppure in minima parte, le condizioni obiettive e subiettive necessarie per dar vita alla sua trasformazione in partito. Storicamente la “sinistra italiana” non era né poteva essere o imper­sonare una ipotetica “sinistra belga” o “franco-belga”.

Non bisogna arrampicarsi sugli specchi di un di­scorso costruito “more geometrico” e di logica for­male per intraprendere un esame degli accadimenti che hanno portato alla formazione del P.C. Interna­zionalista. Avviene che partendo da un presupposto teo­rico errato, o almeno non conforme alla metodologia marxista si perviene non ad una critica costruttiva che, in quanto tale, è sempre feconda, ma al suo contrario ad un piano inclinato della degenerazione.

Puntualizziamo i termini reali del problema.

La “sinistra italiana”, pur negli alti e bassi della sua esperienza, non ha mai teorizzato che il partito sorge ed opera solo nella fase rivoluzionaria e si dis­solve e si riduce a compiti di frazione nella fase con­trorivoluzionaria; forse che il Partito Comunista d'Ita­lia non è sorto a Livorno sotto la spinta ideologica e politica della “sinistra italiana” nella fase montante della controrivoluzione?

Tipica a questo riguardo è la esperienza vissuta dai comunisti italiani nel periodo fascista con il passaggio alla clandestinità del partito nella quale fu risolto non solo il problema della continuità e del contatto con le masse, ma quello soprattutto della formazione di nuovi quadri che avrebbero, sì, rafforzato l'organizzazione stalinista ma proporzionalmente avrebbero servito ad allargare la zona d'influenza della “sinistra italiana”. (Si tenga presente a questo proposito che l'espulsione dal partito di Damen, Fortichiari e Repossi avvenuto nel 1933 fu motivato dal fatto che questi compagni ope­ravano alla ricostruzione della frazione di sinistra).

Ma l'argomento più specioso, che risulta da un at­tento esame del documento, è quello del rapporto tra partito e classe. Quando si postula “La ricostruzione del proletariato in classe, cioè in partito politico clas­sista” si è nel pieno dell'interpretazione marxista se si vuole affermare che non vi è classe rivoluzionaria se manca il partito rivoluzionario uscito dal seno della classe stessa; ma il postulato si ridurrebbe a barzelletta se si affermasse l'inutilità del partito se la classe è temporaneamente prigioniera dell'opportunismo e delle forze della controrivoluzione.

Questo tipo di identità tra partito e classe è al di fuori di ogni rapporto dialettico, è concepito mecca­nicisticamente ed ha la serietà e la consistenza d'una esercitazione intellettualistica.

La classe, nel suo complesso, nel suo operare quoti­diano e nella lunga storia delle sue lotte non è mai andata oltre il limite corporativo, oltre lo stimolo ri­vendicativo; la coscienza tradunionista della classe operaia non è mai divenuta coscienza del fine storico in quanto classe rivoluzionaria; battaglie, rivolte, insur­rezioni che punteggiano la lunga strada del movimento operaio non si sono mai trasformate, per virtù propria, in altrettanti momenti dell'assalto rivoluzionario di tutto il proletariato contro tutto il capitalismo.

Da qui la funzione storica, permanente, del partito rivoluzionario di classe, a cui è demandato il compito della elaborazione della teoria, di preparazione dei qua­dri, di laboratorio scientifico della classe, di sprone e di guida per il raggiungimento degli obiettivi storici che vedranno la costituzione del proletariato in classe do­minante.

Assegnare questo compito di autosufficienza alla classe in una fase prerivoluzionaria, come legare la co­struzione del partito alla fase dell'assalto al potere in cui la presa di coscienza delle masse è ancora e soprat­tutto istintiva, anche se la sua violenza spezza le strut­ture dell'avversario di classe, significa pensare in ter­mini di metafisica e non secondo una metodologia rivo­luzionaria marxista che all'assalto ha sostituito il con­creto, all'ideologismo il dato scientifico desunto dalla realtà economico-sociale.

E veniamo agli appunti critici sulla formazione del Part. Com. Internazionalista formulati dai compagni di “Parti De Classe” che tuttavia si richiamano a questa nostra esperienza (che vorrebbero però debitamente corretta) come momento da cui trarre indicazioni e prospettive in vista della costruzione nel loro paese del Partito Comunista Internazionalista.

Scrivono:

Al di fuori e contro l'erroneo e volonta­rista tentativo trotskista di costruzione di una nuova Internazionale “sorta dalla più grave disfatta”, la Si­nistra mostrò che il dovere dei rivoluzionari non era di tentare dei compiti pratici d'ampiezza (rispondenti ad epoche rivoluzionarie) ma di mantenere il filo d'una continuità non tanto organizzativa (nel senso più stretto del termine) quanto teorica.
Ma l'attivismo, attitudine allora suriettivamente falsa in una situazione obiettivamente sfavorevole, si immaginò che il corso della situazione potesse essere infranto non da fattori economici obiettivi (la fine del periodo di ricostruzione capitalista) ma da una attività febbrile il cui carattere di esempio ecciterebbe all'avvio di un nuovo processo rivoluzionario. È in questa inten­zione (ad onta di qualche reticenza) che fu proclamato in piena orgia democratica (intervento degli Stati Uniti, Comitato Italiano di Liberazione Nazionale anti-fascista) e completa inesistenza del proletariato come classe ri­voluzionaria, nel 1943, il Partito Comunista Internazio­nalista d'Italia, artificio organizzativo di cui si può dire che la pratica fu sempre inversamente proporzionale allo sforzo teorico.
All'inizio si ebbe questa illusione che il partito rivo­luzionario non poteva non essere al rendez-vous dell'im­mediato dopo-guerra nella considerazione che lo schema “guerra-rivoluzione” da cui era uscita la vittoriosa Ri­voluzione dell'ottobre 1917 non mancherebbe, una volta ancora, di riprodursi nelle sue linee essenziali per l'Ita­lia fascita militarmente battuta, economicamente rovi­nata. Lo schema dato per scontato in vista del quale fu proclamata l'organizzazione - perché non poteva trat­tarsi di costruirla progressivamente: essa doveva essere immediatamente presente e disponibile - non solo non si riprodusse ma si ebbe esattamente l'inverso.
Il “partito” del 1943, sorse non dalla profonda con­traddizione del capitale, ma dagli increspamenti di su­perficie della sua riaccumulazione del periodo di rico­struzione, vide progressivamente diminuire il numero dei suoi militanti, perdendo così, dal 1948, ogni giustifi­cazione marxista alla sua esistenza immediata.

Il nostro attivismo?

Si tratta d'un discorso, come è facile vedere, estre­mamente contradditorio, in cui è evidente che l'ade­sione e la conseguente estremizzazione formale ad al­cune posizioni tipiche della “sinistra italiana”, possono sembrare di comodo e servire di copertura ad un sotta­ciuto sottofondo critico al leninismo che di fatto è stato e continuerà ad essere anche il leninismo della “sinistra italiana” che negli anni più fecondi e conse­guenti della sua attività, è stato totale.

Del resto anche la vexata (non troppo per la verità) quaestio dell'elezionismo e del parlamentarismo rivolu­zionario era stata prudentemente messa a bagnomaria ridotta, cioè, a momento tattico e sarà poi compito di alcuni epigoni, acquisiti posteriormente dalla sinistra, a rimettere la questione sul primo piano, quello della immutabilità teorica dell'astensionismo. Ma anche que­ste posizioni hanno, nel caso specifico, vita breve e non è una stranezza che la vantata “invarianza” si riduca in definitiva in un coacervo di variazioni più o meno funamboliche che ridicolizzano quanto di più serio è nel patrimonio della “sinistra italiana”.

Per noi la Rivoluzione d'Ottobre è un dato di fatto inoppugnabile che presuppone un partito bolscevico che è quanto dire il partito di Lenin come precedente storico e modello ideale a cui riferirci; tutto il resto offertoci dalla posteriore cultura revisionista e obiettivamente antileninista, nasce dalla psicologia della sconfitta della rivoluzione ed è prevalentemente un sottoprodotto sen­timentale di avversione allo stalinismo.

Abbiamo detto modello ideale il partito di Lenin, il solo valido nella storia del proletariato rivoluzionario, i cui connotati sono:

  1. permanenza e continuità del partito senza la cui opera di propedeutica rivoluzionaria e di stimolo, il proletariato non potrà liberarsi dalle remore e dai li­miti che una coscienza tradunionista e tendenzialmente corporativa porta per sua natura con sé;
  2. è necessario ripercorrere criticamente le posizioni assunte dalla “sinistra italiana” già nel cuore della pri­ma guerra mondiale per rintracciare il filo rosso della sua continuità le cui tappe maggiormente significative sono quelle del Congresso di Bologna (1920), del Con­gresso di Livorno (1921), alla gestione del P.C. d'Italia fino alla defenestrazione della direzione di sinistra (1923), del Comitato d'Intesa alla vigilia del Congresso di Lione (1925-1926).

La frazione che aveva raccolto i quadri tradizionali e più efficienti della sinistra che ave­vano già costituito la spina dorsale del P.C. d'Italia e che si erano poi raggruppati attorno al “Comitato d'In­tesa” per difendere come corrente di maggioranza la sua linea politica alla direzione del partito e per soste­nere in vista del Congresso di Lione, la sua piattaforma di opposizione al nuovo corso imposto dall'Internazio­nale, era già il partito in potenza.

Nel 1943 nella fase convulsa e conclusiva della se­conda guerra mondiale con in prospettiva il crollo di un settore essenziale del fronte della guerra e con esso lo sfacelo economico e politico già in atto del fascismo e l'inevitabile deterioramento della struttura dello Stato, compito elementare ed immediato dei comunisti era quello di lavorarci dentro e creare gli strumenti più idonei a questo compito per determinare situazioni fa­vorevoli ad una soluzione rivoluzionaria della crisi. Lenin aveva operato in questo senso con esito favore­vole ma avrebbe operato allo stesso modo anche se l'esito fosse stato non conforme alle aspettative imme­diate del partito. Nessuno di coloro che allora hanno creduto nella necessità della organizzazione del partito si era prefissa la ripetizione meccanica dello schema di un succedersi di accadimenti simili a quelli vissuti da Lenin prima dell'Ottobre bolscevico.

Le posizioni espresse dal compagno Perrone al con­vegno di Torino (1946), ribadite poi dallo stesso, al I Congresso di Firenze (1948), erano libere manifesta­zioni di una esperienza del tutto personale e con pro­spettive fantapolitiche a cui non è lecito riferirsi per dare crisma di validità ad una formulazione di critica alla formazione del P.C. Internazionalista. Come è del tutto arbitraria e lontana da ogni seria indagine mar­xista attribuire il posteriore calo quantitativo del par­tito a cause obiettive e ad errori di prospettiva e non si ha il coraggio di affondare la propria analisi nel pro­cesso di disgregazione interna operata a difesa di inte­ressi personali di chi non era disposto ad una milizia attiva e dissentiva sull'analisi della natura dell'economia sovietica e sul ruolo del P.C. Internazionalista.

Questo è il clima nel quale abbiamo inserito l'inizia­tiva della costruzione del partito di classe e il riferimento a Lenin e al partito bolscevico costituiva e co­stituisce tuttora il solo riferimento storicamente possi­bile e valido; una valutazione diversa sarebbe stata im­possibile per la ripugnanza comune a tutti noi di non legare la nostra opera ad una ipotesi posta al di fuori di ogni esigenza della lotta operaia perdentesi nelle nuvole di qualche paradosso teorico come quello, ad esempio, che considera il partito e la sua legittimazione storica di esistenza meccanicamente legata alla contem­poranea ricostruzione del proletariato in classe. Da qui il tentativo del tutto idealistico di identificare partito e classe come quando si pone tra gli obiettivi “la ri­costruzione del proletariato in classe, cioè in partito po­litico classista...”. Sofisma intellettualistico che brilla per la sua geometricità, ma del tutto campato in aria se riferito alla vicenda della lotta operaia e al ruolo storico e permanente del partito saldato alle alterne vicende di queste lotte. Sotto questo profilo non è meno falsa la distinzione bordighista tra “partito storico” e "partito formale” perché non si è mai dato il caso di un partito portatore di un corpo di tesi e di dottrina, di un programma e di una capacità di elaborazione della teoria rivoluzionaria che viva nella stratosfera e non attinga giorno per giorno, nel cuore della lotta operaia, i motivi di tale elaborazione teorica e la conferma co­stante della sua validità.

Il problema fondamentale e il più difficile da risol­versi per una minoranza rivoluzionaria è quello della sua presenza e di operare su una piattaforma politica per tutto un arco storico, quello del capitalismo quali che siano le condizioni obiettive, non escluse quelle della guerra e della controrivoluzione ancora in atto, per aiutare la classe operaia a elevarsi da una coscienza degli interessi immediati e contingenti ad una coscienza del proprio essere di classe storica, antagonista al ca­pitalismo.

Il problema della continuità del partito non è una invenzione nostra ma è posizione caratteristica della “sinistra italiana”. A prescindere da quanto Bordiga ha notoriamente scritto su questo argomento, riteniamo utile riportare un passo significativo di una dichiara­zione redatta dalla “Commissione Esecutiva della fra­zione di sinistra del P.C.I., agosto 1933”:

Il fascismo, vittorioso in Germania, ha significato che gli avveni­menti prendevano il cammino opposto a quello della rivoluzione mondiale per prendere la strada che può condurre alla guerra.
Il partito non cessa di esistere anche dopo la morte della Internazionale. Il partito non muore, tradisce. Il partito ricollegandosi direttamente al processo della lotta di classe, è chiamato a continuare la sua azione anche quando l'Internazionale è morta. Così, in caso di guerra, quando l'Internazionale scomparisse dalla scena politica, il partito esiste e chiama il proletariato a prendere le armi, non per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile ma per continuare la sua lotta nel corso stesso della guerra...

da “Verso l'Internazionale due e tre quarti?...”, Bilan, anno I, n. 1

E questo problema, noi della “sinistra italiana” che portiamo la responsabilità d'aver dato vita al P.C. In­ternazionalista, se non riteniamo d'averlo risolto, abbia­mo tuttavia la coscienza di andarlo risolvendo con per­severanza e tenacia attraverso contatti permanenti di fabbrica, con l'attenzione data ai problemi quotidiani dei lavoratori per la loro traduzione in termini di classe, con la diffusione della stampa di partito che alimenta co­stantemente e su scala nazionale i quadri di militanti e i gruppi di fabbrica che si vanno via via costruendo.

Ma non siamo immalinconiti dalla preoccupazione di sapere con precisione matematica dove finisce il com­pito della frazione e come e quando comincia quello del partito.

Noi tutto ciò lo abbiamo vissuto, ne siamo stati i protagonisti e siamo paghi d'averlo fatto nel momento che ritenevamo fosse giusto farlo.

Nel caso specifico il Partito Comunista Internazionalista ha le sue carte in regola: ha al suo attivo la de­finizione della natura capitalista dell'economia russa; la denuncia aperta fatta nel cuore della II guerra mon­diale del ruolo imperialista della Russia schieratasi tra gli stati belligeranti con la sua partecipazione alla suddi­visione del mondo in zone di influenza economica e po­litica; l'attacco frontale condotto contro lo stalinismo in quanto momento della controrivoluzione mondiale; la lotta contro la guerra e contro il moto partigiano della guerra nazionale antifascista considerandolo, co­me è stato nella realtà, un coefficiente positivo della strategia dell'imperialismo americano e non una insur­rezione armata di popolo contro il capitalismo e la sua guerra imperialista. Sempre al suo attivo è la lotta aperta e senza ripiegamenti tattici, contro la direzione togliat­tiana del P.C.I., edizione italiana dello stalinismo impe­rante sul terreno dello schieramento operaio uscito dal­la guerra fascista e già sulla china d'essere trascinato in una nuova turlupinatura, quella della guerra nazio­nale antifascista, preludio all'agganciamento del prole­tariato alla politica della ricostruzione economica per una ripresa del processo di accumulazione praticamente spezzato dall'esito disastroso della guerra.

La borghesia italiana deve soprattutto (per non dire unicamente) alla politica di Togliatti e quindi del suo par­tito, se la liquidazione del fascismo si è limitata ad alcuni aspetti del tutto esteriori e se la vera essenza del fascismo nei suoi gangli essenziali e nelle sue strut­ture portanti siano passate sane e salve nelle mani degli uomini e dei partiti della nuova gestione democristiana e comunista, i due maggiori pilastri della resistenza e quindi i due maggiori profittatori della partitocrazia democratico-repubblicana.

Il nostro partito, forte dei migliori quadri forgiati al fuoco del conflitto ideologico e politico di Imola e di Livorno o ereditati dalla frazione; forte dell'adesione di considerevoli gruppi partigiani che avevano capito la vera natura del partigianesimo a cui tutto poteva essere chiesto meno una condotta della lotta armata in senso anticapitalistico prima che fascista; forte soprattutto della adesione di giovani leve impegnate contro la guer­ra imperialista e contro lo stalinismo mistificatore, ha imposto alla direzione togliattiana il ricorso ad una po­litica provocatoria e di ricatto per spezzare e far tacere la sola voce che parlasse allora il linguaggio di classe e ponesse davanti alle masse la sola prospettiva possibile per il proletariato, quella della rivoluzione socialista.

Va vista e intesa in questo quadro la partecipazione del partito alla battaglia elettorale del 1948: non mire elettoralistiche e neppure applicazione pedissequa delle tesi sul parlamentarismo rivoluzionario del secondo Congresso della Internazionale. Al fondo delle decisioni “partecipazioniste” era un solo obiettivo: inserimento del partito nel dispositivo elezionistico per consentire all'organizzazione di combattere una grande battaglia politica di chiarificazione; non richiesta di voti ma la possibilità di mostrare alle masse operaie nel modo più ampio possibile il vero volto del partito rivoluzionario che la stampa e la propaganda del partito di Togliatti cercava di insozzare con accuse e insinuazioni che si è sempre ben guardato di provare. L'occasione era quanto mai propizia per affrontare la belva nella sua stessa tana. In realtà mai al partito si era offerta, né prima né dopo, la possibilità di attaccare frontalmente e a viso aperto la malabestia stalinista nelle fabbriche, nei maggiori complessi industriali e sulle piazze con la conseguenza di vedere ogni volta rotto il fronte dello schieramento stalinista e lo schierarsi con gli internazionalisti degli elementi più politicizzati e più inclini ad una indipen­denza critica.

Questa tattica può sembrare avventurista solo a chi guarda al partito con gli occhi fissi alla frazione.

A questo proposito ecco come si esprimevano i com­pagni della “Sinistra Comunista Internazionale”:

La partecipazione o meno alle elezioni è condizionata e soggetta al postulato che l'una o l'altra tattica non si giustifica che nella misura in cui, in una situazione data, essa favorisce l'aumento della tensione politica contro il capitalismo.

Da Schema di progetto di dichiarazione di principio per l'ufficio internazionale della Sinistra Comunista Internazionale, 1946

Dal punto di vista tattico, per la prima volta il par­tito era uscito all'aperto e aveva ingaggiato una batta­glia di classe contro il più saldo e più pericoloso for­tilizio del sistema democratico parlamentare del capi­talismo.

Tra la tattica che tende ad uscire all'aperto e la tat­tica opposta di tirare i remi in barca; tra lo sviluppo del partito e la riduzione del partito a frazione si trova il nocciolo della rottura del partito in due tronconi, che, guarda caso, saranno poi di fatto due partiti.

E quel che è grave in questo riesame degli avvenimenti è la constatazione che la scissione avveniva in un momento della storia del movimento operaio in cui le condizioni erano favorevoli per un ampliamento e consolidamento del partito rivoluzionario. Lo dimostre­rà poi il fatto della continuità e della crescente influenza avuta ulteriormente dai due partiti, la sola forza poli­tica nell'esperienza italiana che impersoni una tradizione, un metodo, una piattaforma di sinistra rivoluzio­naria di classe cui spetta ora il compito di ritessere pa­zientemente la trama interrotta dell'unità internaziona­lista. Del resto i problemi, le dispute di ordine teorico, organizzativo e di tattica che avevano diviso le due for­mazioni internazionaliste, quali le rivoluzioni nazionali, la natura della economia russa, la natura e il ruolo del sindacato nella fase dell'imperialismo, sono ormai alle spalle nel senso che un ventennio di esperienze ha riso­spinto i dissenzienti del 1952 alle posizioni originarie della “sinistra italiana”.

Sindacato e insegnamento leninista

E siamo alla questione sindacale, il punctum dolens, delle minoranze della sinistra rivoluzionaria francese. Il gruppo francese di “Parti de Classe” cui dedichiamo questa nota, parte su questo argomento da una pre­messa critica relativa alla tattica entrista che presup­pone un diverso e opposto modo di vedere sulla natura del sindacato nella fase dell'imperialismo che riteniamo giusta e coincidente con la posizione sempre sostenuta dal nostro partito, ma conclude con delle indicazioni di tattica sindacale che ci lasciano sorpresi e fortemente perplessi.

Anche in questo gruppo è viva la tendenza a sottrarsi all'insegnamento leninista del come lavorare da parte dei comunisti nei sindacati integrati al sistema.

Ma allontanarsi dalla linea tracciata dall'opera di Lenin è in ogni caso una caduta verticale nel vuoto.

Ed è per lo meno sorprendente che un movimento che si richiama alla metodologia marxista e alla lineare tra­dizione della “sinistra italiana” affronti il problema sin­dacale in termini di sicurezza pari al semplicismo della sua formulazione.

Tatticamente, scrivono questi compagni, il partito rivoluzionario, in luogo di voler estendere in pura per­dita la sua influenza nei sindacati integrati al sistema capitalista, dovrebbe, al contrario, esercitarla nelle or­ganizzazioni economiche non ufficiali create più o meno spontaneamente dai lavoratori - ed anche suscitarle - e trasformare queste in veicolo delle sue parole d'ordine. Diversamente esso introdurrebbe questa confusione tra gli operai, consistente a lasciar loro credere che i sin­dacati ufficiali sono organizzazioni che gli appartengono o suscettibili di appartenergli, a condizione che una direzione rossa se ne impossessi. La mobilitazione delle forze proletarie non si farà più nei sindacati ufficiali, ma al di fuori di essi e con­tro di essi.

L'argomento polemico che questi compagni condu­cono contro la deformazione della politica sindacale così come è stata intesa e applicata dai compagni di “programma comunista” su cui siamo d'accordo, non ci riguarda perché non riconosciamo a questo raggrup­pamento, in contrasto con quanto credono i compagni di “Parti de Classe”, nessun ruolo di interprete esclu­sivo e di continuità della “sinistra italiana”, a meno che non si voglia considerare personificazione di questa corrente il compagno Bordiga quale lo abbiamo cono­sciuto noi prima e dopo Livorno, prima e dopo la II Guerra Mondiale. In questo caso i compagni di “Parti de Classe” sono invitati a indirizzare la loro indagine critica alla linea politica seguita da quel troncone, il nostro, della sinistra i cui componenti sono stati gli iniziatori e gli animatori della costituzione del “Comi­tato d'Intesa” (1925) che aveva per obiettivo la rimessa in moto della corrente con una piattaforma di difesa e di attacco contro l'opportunismo; gli stessi che si fe­cero continuatori e animatori della frazione contro il suo scioglimento voluto dal compagno Perrone allo scoppio della seconda guerra mondiale; gli stessi che nel 1933 vennero espulsi e denunciati alla polizia fa­scista dai dirigenti del P.C.I. sotto l'accusa della rior­ganizzazione della “sinistra”, gli stessi che daranno vita e sviluppo al Partito Comunista Internazionalista; gli stessi infine che per la difesa non formale della piatta­forma della sinistra e della sua continuità hanno capito di dover rompere anche con chi aveva dato alla “si­nistra” fino al 1926 il meglio della sua attività di teorico e di militante.

Per tornare all'argomento “sindacale” la confuta­zione migliore sta nel ricostruire per sommi capi ciò che il partito ha fatto e intende fare in coerenza alla nota posizione della sinistra:

  1. Nella fase dell'imperialismo e della economia pro­grammata per il fatto stesso che ogni programmazione sarebbe impossibile senza il consenso attivo dei sinda­cati, questi sono divenuti di fatto, alla pari con lo Stato e con gli imprenditori privati, gli artefici garanti del successo del piano.
  2. Il sindacato giunto così al vertice del potere eco­nomico-politico dello Stato di cui si sente parte inte­grante e necessaria, farà la sola politica che gli è pos­sibile, quella di saldare, subordinandola, la spinta ri­vendicativa delle masse operaie che inquadra alle esi­genze del piano e della realizzazione del maggiore pro­fitto. A questa sola condizione offerta da un sindacato di­storto dal suo compito storico, la politica di piano sarà resa possibile e con essa il consolidamento e la salvezza del sistema.
  3. Ma una politica di vertice del sindacato è possi­bile se questo possiede con fermezza la disponibilità delle masse sindacate a soggiacere alla sua politica di potere, strategia questa che delimita ed attenua la mi­naccia di intervento delle masse, con la spada di Da-mode dello sciopero articolato reso sempre possibile dalla gamma sempre più vasta e pressante delle riven­dicazioni sia economiche che politiche. Su questa realtà in movimento il sindacato, quale che sia il suo colore politico, trova alimento alla sua esistenza e funzionalità in tutto l'arco storico del ca­pitalismo.
  4. Se il sindacato è integrato al sistema attraverso il suo apparato, non lo è o lo è soltanto indirettamente la massa degli operai che vi è inquadrata che tuttavia non ha mai cessato di lottare contro il capitalismo che la sfrutta anche se tuttora è incapace di andare oltre il limite tradunionista e corporativo della rivendicazione. È fondamentalmente il quadro di sempre tale e quale lo ha conosciuto Marx, tale e quale lo ha conosciuto Lenin, tale e quale lo conosciamo noi, e conseguente­mente il sindacato della III Internazionale non ha detto una parola nuova in confronto al sindacato socialde­mocratico della II Internazionale e in confronto al sin­dacato odierno che delizia la nostra vita sociale e po­litica.
  5. Spontaneamente e autonomamente le masse ope­raie non perverranno alla conoscenza del loro essere di classe antagonista e alla coscienza del fine storico implicito nella lotta che esse conducono contro il capita­lismo, ma sono queste stesse masse di lavoratori che creano con il loro operare le condizioni obiettive di questa conoscenza e di questa coscienza che il partito della classe assomma in sé e rielabora ai fini di una propedeutica rivoluzionaria da far rivivere nel comples­so della classe.
  6. A questo fine la “sinistra italiana” con l'orga­nizzazione e la permanenza dei “gruppi di fabbrica” tende a creare, anche se in mezzo ad enormi difficoltà, centri di formazione e di irradiazione ideologica e po­litica che divengono di fatto altrettanti veicoli per pa­role d'ordine di critica sindacale che rendono risolvi­bile il problema del contatto con le zone operaie so­cialmente e politicamente più sensibili a recepire la propaganda del partito, condizione prima e insostitui­bile d'una politica di reclutamento di sempre nuovi qua­dri operai sul piano della milizia attiva e della lotta rivoluzionaria.
  7. Nuovo sindacato da crearsi al di fuori e contro il sindacato ufficiale? Oppure adesione a nuovi orga­nismi sorti spontaneamente per iniziativa operaia? A prescindere dalla facile constatazione che nuovi sinda­cati non troverebbero spazio adeguato per enuclearsi in una organizzazione di base autosufficiente ed anche se ciò fosse possibile il nuovo sindacato si modellerebbe su quello ufficiale con tutti i vizi e i pochi pregi che sono propri del sindacato tradizionale.

Vorremmo chiedere ai compagni di “Parti de Clas­se” di indicare un solo esempio di sindacato non uffi­ciale su scala internazionale che faccia eccezione alla nostra analisi e possa essere preso a modello dalle or­ganizzazioni rivoluzionarie al di fuori delle esperienze offerteci dalla storia del movimento operaio della Se­conda e Terza Internazionale.

Se poi vogliamo riferirci agli organismi sindacali nati più o meno spontaneamente e di cui dovremmo servirci per diffondere la politica sindacale del partito, va detto senza timore di smentita che tali organismi formatisi sull'onda delle agitazioni sindacali dell'autun­no caldo del 1968 ad opera di gruppi extraparlamentari e studenteschi in Italia, in Francia e altrove, sono len­tamente rifluiti e sono in ogni caso destinati a rifluire nell'alveo della conservazione del sistema provocando sulle scarse minoranze che hanno risposto al loro ri­chiamo del tutto velleitario, una più cocente e amara disillusione e il motivo ad un nuovo sbandamento verso i partiti contro cui avevano condotto la loro battaglia sedicente rivoluzionaria.

Circa la presenza o meno dei comunisti internazio­nalisti nei sindacati, trascriviamo quanto è affermato dallo stesso “Schema di progetto di dichiarazione di principio per l'ufficio internazionale della Sinistra Co­munista Internazionale” (1946):

a) In una situazione storica che non permette di porre il problema della presa del potere, l'organizza­zione di massa non può essere basata che sull'azione rivendicativa: il sindacato. Quando la situazione diviene rivoluzionaria, e si pone il problema della presa del po­tere, è allora che possono apparire i consigli di operai di fabbrica (Soviet) il cui scopo non è di rivendicare dei miglioramenti nella società capitalista ma di esigere la presa del potere nelle fabbriche.
È evidente che se delle rotture storiche non de­termineranno avvenimenti rivoluzionari, il processo di collegamento dei sindacati attuali allo Stato continuerà. Fino a tanto che tale processo non è terminato, non portato cioè a compimento, la nostra posizione è di restare nei sindacati. Se questi verranno statizzati si porrà la questione di dar vita a nuove organizzazioni di massa.

Il problema di fondo che comunque scaturisce da questo nostro dibattito è uno, uno soltanto: rompere le paratie di un presupposto teorico viziato da una se­rie di sofismi tra loro legati da una logica formale che ignora l'impegno reale e storico della lotta operaia e rattrappisce, immiserendolo, il ruolo di classe del par­tito rivoluzionario del proletariato.

È sofisma l'affermazione della inesistenza della clas­se nel quadro della situazione attuale anche se è, nelle condizioni di classe, temporaneamente sconfitta; è so­fisma la conseguenza che se ne vuol dedurre che vuole, mancando la classe, manchi anche il partito politico le­gato geneticamente alla classe; è sofisma infine l'altra identificazione della dittatura del proletariato con la dit­tatura del partito trasferendo nel dopo rivoluzione l'identità partito-classe della fase precedente la rivolu­zione.

Conclusione? Con un proletariato che non è ancora classe, con una organizzazione politica che non è par­tito, con un sindacato ufficiale nel quale gli operai sono considerati come perduti alla lotta di classe e ad ogni tentativo di influenzamento ideologico-politico da parte della minoranza rivoluzionaria, il quadro che ne risulta e le prospettive che su di esso possono essere formu­late indurrebbero alla considerazione malinconica di autoeliminazione dalla scena politica se il marxismo non indicasse come permanentemente presenti nel mo­vimento operaio queste certezze, anche se relative, ma pur sempre certezze.

Il proletariato è classe, la sola storicamente antago­nista al capitalismo in tutto l'arco storico della sua esi­stenza che perviene alla coscienza del suo essere di classe rivoluzionaria nella fase dell'attacco al potere ca­pitalista, e condizionato com'è ad un processo di forma­zione e di sviluppo attraverso il travagliato e ininter­rotto corso della insopprimibile lotta di classe.

Processo di formazione e di sviluppo reso possibile alla classe dalla presenza operante del partito che dalla classe si articola e in essa riunisce in poderosa sintesi le ragioni ideali della sua crescita di forza rivoluzio­naria.

(1) I compagni, riuniti in Francia attorno alla rivista “Parti de Classe”, inizialmente uscirono con un gruppo di compagni francesi dal P.C.I. che diedero vita alla rivista “Invariance” di cui ci occupiamo in questo libro (pag. 180) e solo in un secondo tempo ruppero anche con “Invariance” per formare gruppo a sé.