Partito centralizzato, si - Centralismo sul partito, no

Va innanzitutto affrontato il problema del centralismo che i “programmisti” non sono mai riusciti a definire in modo “organico”, legato perciò all'interpretazione di una data esperienza, non relegata in astrazioni del tutto formali e scolastiche.

Così argomentano questi “sinistri” andati a male: Nell'internazionale di Lenin, non essendoci “partiti comunisti puri” l'utilizzazione del meccanismo democratico era indissolubilmente legata a quella data esperienza, in quel particolare momento storico ed è ovvio, quindi, che una internazionale diversa dalla terza, formata da “partiti comunisti puri” dovrebbe essere caratterizzata dall'utilizzazione di un meccanismo interno diverso da quello del centralismo democratico che cessò di essere operante con la scomparsa di Lenin. Quel che è accaduto poi, nell'era staliniana, non rientra nella nostra analisi perché si tratta di un'esperienza che aveva rotto ogni legame con la classe operaia e con gli obiettivi della rivoluzione.

Ma ipotizzare, come fanno i “programmisti”, una organizzazione allo stato di purezza chimica di una internazionale “di partiti comunisti puri” contrapposta a quella di Lenin fatta di “partiti non puri”, è giocare col paradosso metafisico, è formulare i problemi del succedersi degli accadimenti della storia non secondo i canoni del materialismo dialettico, ma secondo un calcolo meccanicistico del tutto formale, con tendenza a perdersi nella nebbia del più vieto idealismo.

Stiano pur certi questi compagni che non vi saranno internazionali di partiti comunisti puri, ma solo internazionali che rifletteranno nel loro seno il bene o il male, la contraddizione e gli assurdi di una società divisa in classi e le classi esse stesse lacerate nel loro interno dalle diverse stratificazioni d'interessi, di condizioni sociali, di cultura, ecc. L'ipotesi di partiti comunisti allo stato puro e d'una loro organizzazione mondiale altrettanto pura, anche quando è semplice aspirazione, esula da ogni seria indagine che si richiami al marxismo e somiglia stranamente a certa mistica che ebbe i suoi saturnali nel ventennale fascista.

L'internazionale di Lenin ha certo riprodotto nei suoi partiti le carenze e le immaturità proprie della fase storica che ha fatto seguito al crollo della II Internazionale e alla crisi che allora dilaniava il mondo capitalistico. Ogni organizzazione del proletariato, per conseguenza, riprodurrà, certo in una fase più avanzata e su scala inversamente proporzionale, i caratteri del periodo storico nel quale si esprime. Ed è certo che gli aspetti negativi presenti nella III Internazionale saranno di fatto presenti, anche se diversamente articolati, nelle future organizzazioni internazionali, come ampiamente è dimostrato dalle condizioni obiettive in cui si muovono i vari raggruppamenti della sinistra comunista che rivendicano il diritto di portare il loro apporto alla ricostruzione del partito del proletariato internazionale. Tra questi raggruppamenti, quello che più soffre di insofferenze e di crisi e dove più profondamente opera la dinamica del centralismo democratico, è proprio quello bordighista di “Programma” per l'esplodere ciclico delle sue interne contraddizioni. A proposito di una terza internazionale che oggi, per comodità polemica, i “programmisti” vorrebbero far passare come composta da partiti non puri, in evidente contraddizione con le posizioni attuali, ecco come giudicava Bordiga l'Internazionale di Lenin:

“Dopo la restaurazione della teoria proletaria, l'opera della Terza Internazionale grandeggia nella applicazione concreta della divisione dagli opportunisti di tutti i paesi, nella messa al bando dalle file dell'avanguardia operaia mondiale di riformisti, socialdemocratici, con-centristi di ogni categoria. La palingenesi si svolge in tutti i vecchi partiti, e si costituiscono le basi dei nuovi partiti rivoluzionari del proletariato. Lenin guida con mano ferrea la difficile operazione fugando incertezze e debolezze possibili.”

Il lato forte di questi bordighisti è proprio l'inconseguenza!

E non è proprio questo raggruppamento, con la sua struttura di élite aristocratica e intellettualistica, con un marxismo elaborato nei filtri o nei lambicchi di gabinetto più che nella tempesta del conflitto di classe a provare l'esattezza di quanto andiamo affermando?

E allora come risolvere con correttezza leninista il bisticcio delle due facce del centralismo?

Nella fase della dominazione imperialista e delle rivoluzioni proletarie non è concepibile l'esistenza d'una organizzazione del partito rivoluzionario che non si articoli sulla base di una struttura fortemente centralizzata; è il segno, questo, forse più spettacolare che la distingue da quella dei partiti parlamentari. Se il centralismo rappresenta dunque una esigenza imperativamente imposta dal conflitto di classe, gli attributi di “democratico” ed “organico” definiscono termini del tutto soggettivi di una distinzione polemica che non ha mai inciso nella sostanza della centralizzazione. Chi infatti, sa dirci con assoluta precisione fin dove gli organi preposti alla centralizzazione si avvalgano degli strumenti della democrazia (controllo e partecipazione attiva e operante della base) e fin dove invece si avvalgono degli strumenti dei centri di potere per una politica caporalesca affidata alla persona fisica del capo e per esso al Comitato Centrale?

Per i bordighisti di “Programma” il problema è posto in termini tali quali sono usciti dalla pratica controrivoluzionaria dello stalinismo.

Ecco come hanno tentato, finalmente, di precisare quell'araba fenice teorica che va sotto il nome di centralismo organico. Lo riproduciamo con le stesse parole in cui è stato formulato.

Ma bisogna chiarire una volta per tutte il rapporto che deve esistere tra il Centro e la base perché il partito sia strutturato ed operi secondo l'insegnamento leninista. Ma se tra la base del partito ed il centro vige un costante rapporto dialettico, è ovviamente sulla base di tale rapporto che il Centro elabora la sua azione tattica nel quadro della piattaforma teorico-politica che il partito si è data. Lenin non ha mai indicato né in sede di semplice elaborazione teorica, né in sede di azione politico-organizzativa che si possa agire diversamente. Ed allora che cosa significa la formula organizzativa d'un Comitato Centrale o d'un capo che faccia affidamento su se stesso, sulle proprie capacità in quanto legato ad una “rosa” di possibili mosse già previste (sono nostre le sottolineature) in corrispondenza di non meno previste eventualità, e la “cosiddetta base può essere utilmente tenuta ad eseguire i movimenti indicati dal Centro?”.

Significa semplicemente quello che ha significato la politica del Comitato Centrale nel periodo di Stalin, resa possibile dall'avvenuta eliminazione delle forze di classe del proletariato dall'esercizio della sua dittatura, la rottura profonda ed irrimediabile tra la base del partito e il suo Centro di direzione e il conseguente scivolamento verso l'aperta ricostruzione del capitalismo; significa infine che il Comitato Centrale del partito comunista russo e lo stesso Stalin erano legati ad una “rosa” di possibili mosse che avevano perfettamente previste in corrispondenza di eventualità che si sarebbero, con altrettanta esattezza, realizzate nei termini e nella realtà che tutti conosciamo.

Questa che denunciamo è la riprova classica delle conseguenze, in ogni caso disastrose, che si determinano in un partito che si riteneva rivoluzionario quando il suo organo centrale, come organismo a sé, opera all'infuori dei legami e del controllo con la base dell'organizzazione.

Ma una riprova più vicina alla nostra esperienza, viene offerta proprio da chi teorizza o lascia teorizzare questa risibile divisione di compiti tra una base politica tenuta ad eseguire i movimenti indicati dal Centro e un Centro a cui verrebbe demandata una facoltà divinatoria di previsioni ed offre dati veramente non molto incoraggianti. E si tratta, in fatto di preparazione e di lunga milizia, cli compagni altamente qualificati e che riscuoteranno rispetto e fiducia da parte di tutto il partito.

Ma il centro del P.C.d'I., attraverso la dichiarazione di Bordiga fatta al Comintern, non era forse legato a questa rosa di possibili mosse che negavano la prospettiva della salita al potere del fascismo nel momento stesso in cui era in atto la marcia su Roma? E tale madornale errore di prospettiva non era forse “in corrispondenza della non meno prevista eventualità”, quella di portare allo sbaraglio il partito con la tattica dell'offensiva per l'offensiva?

E chi ha elaborato in base ad un'analisi “scientifica” dell'economia russa la definizione della rivoluzione d'Ottobre come rivoluzione antifeudale dopo averla esaltata come socialista? Non aveva affermato Bordiga (Lenin nel cammino della rivoluzione): “La rivoluzione sarà fatta in Russia dalla classe operaia e per se stessa”? E inoltre: “Il potere dei Soviet ha vinto; la dittatura del proletariato teorizzata da Marx, fa il suo ingresso tremendo nella realtà della storia”?

Come giudicare chi, esponente più di rilievo del partito e “della sinistra comunista” non accetta di “militare” nel Partito Comunista Internazionalista all'atto della sua formazione, perché riteneva un errore la lotta frontale contro il partito nazionalcomunista con la scusa che gli operai erano nel partito di Togliatti e poi, a scissione avvenuta, accetta di entrarvi a condizione che il troncone rimastogli fedele venga politicamente castrato e ridotto ad una setta di ripetitori di formulette, non sempre digerite?

Quale è stato il suo apporto alla elaborazione di un esame critico della natura della seconda guerra mondiale e del ruolo giocato dalla Russia come una delle maggiori componenti dello schieramento imperialista, egli che respingeva contro di noi la definizione di capitalismo di Stato relativa alla Russia per teorizzare una forma spuria di “industrialismo di Stato”?

Gli interrogativi potrebbero continuare, ma riteniamo debbano bastare per capire quanto sia mal fondata, precaria e obiettivamente deleteria la pretesa di affidare a Comitati Centrali e a questa o quella personalità, quale che sia la loro statura, doti divinatorie e compiti di indiscriminata elaborazione teorica e funzioni cli guida all'infuori e al di sopra del partito considerato nella sua complessità unitaria.

Lenin, il più personale e il più autoritario, quello per intenderci delle “tesi di Aprile” o quello della disperata determinazione di “andare ai marinai” scavalcando gli organi centrali del parti to bolscevico anchilosati su posizioni di incomprensione e di compromesso,. non era il Lenin del centralismo organico e neppure democratico, ma il capo della rivoluzione montante, il solo che avesse capito e fatte sue le istanze della classe operaia e questo perché aveva i piedi ben saldi sul terreno di classe, perché pensava e operava nella classe e per la classe ed aveva vivissimo il senso della storia che insegna che la rivoluzione ama essere violentata e disprezza i pavidi che non osano e rimandano sempre al giorno dopo.

In questo costante nesso dialettico tra la base e il vertice del partito, in questa giusta integrazione di libertà e autorità, sta la soluzione del problema che tanto e forse troppo ha dato materia all'intenzione e all'opera dei guastatori di professione.

Il partito rivoluzionario che non è una astrazione e che è chiamato ad affrontare i problemi della sua lotta nel clima storico nel quale dominano indisturbate autorità e violenza, non può essere strutturato che nel pieno della più ferrea unità per divenire sempre di più uno strumento vivo di combattimento. Serra perciò le fila secondo la spinta generale impressa dalla controrivoluzione. Il partito rivoluzionario non scimmiotta in ciò i partiti della borghesia ma obbedisce alla necessità di adeguare la sua struttura organizzativa alla condizione obiettiva della lotta rivoluzionaria.

È principio tattico elementare quello che il partito rivoluzionario, nel suo muoversi, debba tener conto delle caratteristiche del terreno in cui opera e disporre di quadri adeguatamente preparati a questo compito.

Sul centralismo non crediamo debbano esistere dissensi, questi incominciano quando esso viene inteso sotto il profilo “democratico” o sotto il profilo “organico”. L'uso o peggio, l'abuso “organico” può condurre a forme di degenerazione autoritaria rompendo il nesso dialettico che deve intercorrere tra vertice e base.

L'esperienza di Lenin è pertanto sempre valida e vitale per aver saputo fondere in una visione di insieme i termini apparentemente contraddittori del centralismo tanto “democratico” che “organico”.