Frazione partito nel corso della II Guerra Mondiale

Guerra e teorie giustificatorie

Da qualunque parte la si voglia guardare, la guerra, con il suo tremendo fardello di violenza e devastazione é, e rimane, un evento inconciliabile con gli interessi del proletariato. Nella fase storica del dominio imperialistico la guerra non esprime, il libero atteggiamento di questa o quella borghesia che per mal calcolata arroganza o per stupida cupidigia sceglie di far ricorso, di tanto in tanto, ai nefandi riti marziali, ma é il necessario punto di approdo delle interne contraddizioni del sistema produttivo capitalistico che, giunte ad un determinato grado di maturazione, trovano all'esterno il loro naturale sfogo. La sempre meno controllabile caduta del saggio del profitto, esasperata dall'enorme sproporzione tra investimenti in beni strumentali a contenuto tecnologico avanzatissimo ed utilizzo di mano d'opera, finisce per chiudere o quantomeno ridurre certi spazi vitali, per incrementare gli aspetti più duri della concorrenza. In questo senso, la necessità di recuperare i margini di profitto, la ricerca spasmodica di mercati e aree dove esportare capitale finanziario, o reperire a basso costo materie prime e mano d'opera, che siano il presupposto della supremazia concorrenziale sul mercato internazionale, anche se finisce, fatalmente, per esprimere una ideologia che in qualche modo la giustifichi, ha nel mondo della struttura economica la sua base di determinazione.

Sarebbe vano entrare nel merito delle giustificazioni che di volta in volta l'imperialismo pone innanzi a copertura ideologica delle proprie guerre senza riandare alla matrice economica che le sottintende, così come sarebbe un errore sottovalutare le ideologie, quando, proprio su queste, si concentra lo sforzo di coinvolgimento di immense masse operaie. Per l'imperialismo i due momenti sono indissolubilmente legati: le crisi capitalistiche portano le guerre le ideologie borghesi portano il proletariato a combatterle. Da sempre il sottile gioco é consistito nel falso processo di identificazione di interessi che sono invece, per loro natura, opposti ed inconciliabili. Nel corso della prima guerra mondiale l'imperialismo, pur nelle sue variegate manifestazioni o modi di esprimersi, sia nella componente liberale che in quella socialdemocratica, rispolverò il vecchio, ma sempre valido, mito della patria. L'ideologia patriottarda portò a termine il suo compito storico nel momento in cui, indipendentemente dall'atteggiamento offensivo o difensivo che nel contraddittorio muoversi degli interessi di stato le varie borghesie si trovarono ad assumere, riuscì ad elevare gli interessi nazionali al di sopra delle classi, accomunando sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori in una unica entità politico-sociale, compatta per interessi e finalità.

Fu cosi che nei partiti della seconda internazionale, prima che l'evento rivoluzionario della Russia dei Soviet giungesse a rompere le uova nel paniere ai vari Turati, Van der Veld e Kautsky, presero corpo i sottili “distinguo” tra guerre sante e nefaste, di offesa e di difesa, tra progressive e reazionarie. Rimangiandosi le delibere di Basilea (1) la quasi totalità dei partiti socialisti legati alla II Internazionale non solo si trovò politicamente disarmata di fronte all'evento bellico, ma finì per far proprie le ideologie guerrafondaie della propria borghesia. In Germania la socialdemocrazia tedesca per bocca di Kautsky arrivò a giustificare l'aggressione alla Russia come progressista nei confronti di una struttura economica feudale e di una sovrastruttura politica di tipo fascista. Dall'altra parte del fronte la risposta non poteva che essere identica nella sostanza anche se opposta nella forma. Ad un anno dallo scoppio della guerra i partiti socialisti dei paesi direttamente interessati sancirono la loro accettazione nei fatti dell'evento bellico con una sorta di giustificazione difensiva:

“i socialisti dell'Inghilterra, del Belgio, della Francia e della Russia, non perseguono la distruzione politica ed economica della Germania. Essi non fanno la guerra ai popoli ma ai governi che li opprimono.” (2)

A nulla sarebbe valso ricordare a quei signori che se i governi dichiarano le guerre sono i proletari che le combattono e che far la guerra ad uno stato equivale a massacrare il suo proletariato e che, indipendentemente da questo piccolo particolare, compito dei rivoluzionari é e resterà sempre il boicottaggio alla guerra e mai adesione in qualsiasi modo giustificata.

In Italia, il processo di identificazione della socialdemocrazia alla patriottica ideologia borghese ebbe un cammino più travagliato, ma fu solo una questione di modi e di tempi, non di contenuto.

Inizialmente la borghesia italiana si tenne alla finestra degli avvenimenti bellici. La guerra, pur non investendo in prima persona lo stato italiano poneva la possibilità di un intervento a fianco delle potenze centrali. Nello spazio di pochi mesi i termini della situazione ruotarono di 180 gradi, dalla posizione di neutralità si passò all'intervento diretto, non a fianco della Triplice ma a favore dell'Intesa. La cosa, anche se farsesca, sta a dimostrazione di un assioma estremamente importante: per il capitale italiano, per i suoi gravi problemi interni, la questione non riguardava tanto la scelta del campo di battaglia quanto la battaglia. Il che, nelle prospettive di grossi settori del capitale finanziario e del mondo imprenditoriale, significava la possibilità di enormi commesse militari e, di conseguenza, di lauti profitti. Ma proprio in questo quadro si ebbe un esempio di come l'opportunismo sciovinista seppe adeguarsi al mutare obiettivo della situazione.

Quando nel 1914 parte del proletariato mondiale sanciva col proprio sangue il diritto alla vita dell'imperialismo e l'entrata sulla scena bellica a fianco dello storico nemico austriaco non andava al di là dell'ipotesi, unanime si alzò il coro contro la guerra e le sue miserie senza cedimenti. Nel PSI persino destri e centristi facevano a gara nel condannare l'imperialismo e nel bollare a caratteri di fuoco la vera natura della guerra che, comunque combattuta o sotto qualsiasi bandiera, vedeva sangue proletario versarsi per la salvezza economica e politica di questa o quella borghesia. Da Turati a Mussolini, dall'Avanti! al Corriere il coro fu unanime: No alla guerra!

Le cose cominciarono a cambiare quando l'intervento cessò di essere una ipotesi per diventare una tragica realtà anche per il proletariato italiano. Al proposito va detto che al PSI, grazie alla pressione della Sinistra, non accadde di cadere pesantemente nel calderone dell'interventismo in cui i partiti fratelli già da un anno avevano trovato dimora; pur tuttavia l'atteggiamento fu sufficientemente ambiguo. Dietro le dichiarazioni ufficiali di ripudio della guerra non seguivano indicazioni concrete e, soprattutto si faceva strada l'ipotesi che, in mancanza di meglio, la migliore via d'uscita era attendere al proprio posto, in altre parole “nel dubbio astenersi”. Il convegno di Bologna, tenutosi nel maggio del 1915, non fa che ratificare queste posizioni: no alla guerra, no all'appoggio del governo Salandra, ma no anche per le indicazioni concrete al proletariato italiano che marciava contro quello austriaco. Il tono del congresso può essere sintetizzato dalla frase attribuita a Costantino Lazzari “né aderire né sabotare”. La frase in sé, oltre al “valore” aneddotico, é a dire poco infelice, come del resto lo era la condizione di stallo di tutto il partito. Il non aderire poteva essere interpretato, con molta buona volontà, come una indicazione di mobilitazione contro la guerra e la borghesia italiana che di questa era diventata una componente attiva, ma il sabotare, se da un lato ricomponeva le ingenue velleità, dall'altro significava avallare nelle cose, come fatto compiuto, irreversibile, l'intervento. Mentre nell'agosto del 1917 il dissenso alla guerra scende spontaneamente nelle piazze, all'interno del partito va accentuandosi l'allineamento del riformismo ai canoni guerrafondai dell'ideologia borghese italiana.

A Torino nutrite schiere di operai operanti nelle industrie belliche, oberati dai ritmi di produzione e affamati da salari sempre più decurtati dall'inflazione, diedero una prima risposta di classe alla borghesia. La repressione fu immediata, più di cinquanta cperai rimasero sulle barricate, le condanne furono pesantissime, lo stesso Serrati, accorso precipitosamente, fu arrestato. L'episodio segnò un passo in avanti nella polemica all'interno del partito. Mentre la sinistra rivoluzionaria lamentava l'assenza del partito su indicazioni di lotta reale e di direzione politica contro la guerra che permettessero ad episodi di esasperate spontaneità come questo di essere coordinati in una visione strategica nazionale, la destra per bocca di Treves, boccia l'episodio definendolo un errore di localismo. La diversa interpretazione che internazionalisti e direzione riformista del partito diedero sull'episodio andava oltre il fatto in sé. Da un lato si andava prepotentemente facendo strada la necessità di trasformare la guerra in assalto rivoluzionario, visione in cui fatti come quello torinese, anche se episodici e localizzati erano l'espressione di una radicalizzazione della classe operaia che il partito non solo doveva tenere in conto ma farne la base di una ripresa rivoluzionaria su base allargata. Dall'altro, la coscienza riformista, la accettazione nelle cose dei superiori interessi della borghesia erano diventate l'angolo visuale attraverso il quale ogni visione dei fatti era sollecita al rifiuto di tutto ciò che poteva uscire dal quadro degli interessi nazionali.

La disfatta di Caporetto determinò un ulteriore accostamento della socialdemocrazia all'ideologia patriottarda. Lo smarrimento dei proletari in prima linea non fu secondo al vacillare dei destri in parlamento.

Rigola, segretario generale della CGL, riformista da sempre, non seppe trattenere in gola ciò che la sua coscienza nazional-sciovinista gli dettava. Dichiarazioni del tipo 'il popolo italiano deve raccogliersi in un supremo sforzo di volontà per respingere l'aggressore' non aspettavano che il momento propizio per uscire dall'equivoco.

La salvezza della patria in pericolo e la necessità della difesa dei confini svolsero fino in fondo la loro funzione. Non importava che al fronte, a scannarsi con alterne vicende, vi fossero degli sfruttati, il nodo della questione era fornito dal fatto che quelli austriaci trucidavano quelli italiani e ciò, solamente ciò, non andava bene.

Turati, in una seduta alla Camera, nel difendere dagli attacchi del governo il giornale ed il partito, denunciando le continue violazioni sulla libertà di stampa e dei più elementari diritti democratici, ebbe a ricordare che, nonostante tutto, anche per i socialisti 'la patria é sul monte Grappa'.

Prampolini andò oltre. Nel rintuzzare l'accusa secondo la quale i socialisti avrebbero avuto un ruolo determinante nella disfatta di Caporetto, invitò i soldati alla fermezza e alla resistenza.

Qualche tempo dopo su Critica Sociale (3) apparve un articolo a firma di Treves e Turati in cui si faceva appello al patriottico spirito di sacrificio dei soldati al fronte nello strenuo ed eroico tentativo di opporsi all'invasione nemica.

Il 15 giugno, lo stesso Turati, in un ennesimo intervento alla Camera augurava la vittoria ai soldati che combattevano sul Piave. II suo discorso, ciclostilato in milioni di copie, venne immediatamente distribuito nelle trincee. Il tentativo di agganciare il partito socialista alla causa nazionale, cioè alla guerra, era cosa fatta.

Nell'agosto, sempre Turati, propose che il partito accettasse l'invito del Governo a partecipare con il gruppo parlamentare ed i dirigenti sindacali a 'gruppi di studio' per risolvere insieme i problemi del dopo guerra. In altri termini, per Turati, se il Partito non aveva tempestivamente saputo adeguarsi alle esigenze del capitalismo nazionale durante l'evento bellico, poteva riabilitarsi completamente contribuendo a porre le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione.

Il tradimento di classe venne evitato in circostanze eccezionali, artefice del miracolo fu ancora una volta la sinistra. Gli elementi rivoluzionari che ancora erano ingabbiati all'interno del partito, cercarono di creare un argine al dilagante nazionalismo. Gli elementi del gruppo parlamentare furono dissuasi a viva forza, in più di una occasione, dal presentarsi in Parlamento per una dichiarazione di disponibilità in un momento così difficile per la nazione. Dalla federazione giovanile agli elementi della base l'intento fu uno solo: fermare la destra prima che alla disfatta dell'esercito al fronte si accompagnasse in Parlamento quella del partito.

Questi, come altri infiniti esempi, danno la misura di come l'imperialismo riesca, di volta in volta a seconda della peculiarità delle proprie esigenze, ad esprimere in termini di ideologia, le strutture portanti attraverso le quali si esprimono e si conservano i suoi interessi fondamentali. In quei frangenti non ha importanza che ad esprimere uno stato di necessità sia un linguaggio conservatore o progressista, che ad organizzare le masse sul terreno della carneficina sia una forza politica di destra o di “sinistra”, il dato prioritario é fornito dal fatto che se la guerra é una, necessità del capitalismo, questa deve essere combattuta fino in fondo, La storia ha sufficientemente dimostrato come le grandi crisi del capitalismo portino inevitabilmente alle guerre ed al conseguente ingabbiamento del proletariato all'interno dì una ideologia borghese se viene a mancare la tempestiva opera del partito rivoluzionario che sappia esprimere forze e capacità sufficienti ad infrangere l'involucro ideologico borghese, a svelare la vera natura della guerra e, soprattutto, a dimostrare nei fatti e non solo nelle analisi, come il vero nemico non sia al di fuori dei confini della patria, non sia lo sfruttato tedesco, russo o francese, ma il capitale, i suoi interessi, indipendentemente che essi siano indigeni o stranieri, indipendentemente dagli orpelli sovrastrutturali dietro i quali si nasconde.

Essere contro la guerra significa operare perché vengano eliminate le cause che la pongono in essere, significa lottare per la sua trasformazione in lotta civile, mai può significare la sua accettazione totale o parziale.

Quando ci si scosta da questo terreno per entrare nel merito dei più controversi “distinguo” si cessa di operare in funzione di una soluzione rivoluzionaria per diventare coscientemente o no strumento della conservazione borghese.

Nel corso della seconda guerra mondiale il gioco si ripeté nei modi e nelle circostanze imposte dalla nuova situazione allo schieramento imperialistico internazionale. Così, accanto all'imperitura ideologia nazionalistica della difesa, sempre e comunque, dei confini della patria, si aggiunse il correttivo della difesa della democrazia dagli attacchi del nazifascismo. Anche in questo secondo caso il ruolo aggiornato dell'ideologia di un fronte dell'imperialismo aveva lo scopo di identificare gli interessi di milioni di lavoratori con quelli della “democrazia” borghese, perché in nome della democrazia, ovvero dell'imperialismo si combattesse ancora.

La stessa definizione di imperialismo tende ad assumere connotazioni, di volta in volta differenti, assurde, se analizzate sul terreno degli interessi di classe.

Come vent'anni prima le teorie giustificatorie sono costrette ad inseguire gli avvenimenti, a mutare contenuto ogni qual volta la situazione “concreta” lo richiede. Guerra, imperialismo, intervento cessano di essere lo spartiacque tra conservazione e rivoluzione per diventare più semplicemente un problema di scelta, scelta di campo. La “grande guerra” segnò la definitiva disfatta della seconda Internazionale, il suo irreversibile passaggio, armi e bagagli, al campo borghese; il secondo conflitto mondiale sancì inequivocabilmente la vittoria della controrivoluzione in Russia, il suo schierarsi nella guerra con un fronte dell'imperialismo, e con essa sancì la sconfitta del proletariato internazionale.

Dal 1917 al secondo conflitto mondiale molta, troppa acqua passò sotto i ponti della controrivoluzione. Fallito il primo, grandioso esempio di rivoluzione proletaria, stravolti i compiti dell'Internazionale Comunista, completato il processo di revisione all'interno dei singoli partiti europei, Russia e partiti centristi erano maturi per giocare lo stesso ruolo, nei confronti della guerra, che ricoperse la socialdemocrazia nella prima. (4) Anzi, in molti casi, Italia compresa, vecchia e neo-socialdemocrazia si diedero la mano per tamponare le velleità insurrezionali di larghe masse di lavoratori che avrebbero potuto con il loro 'irresponsabile spontaneismo' mettere in forse ì disegni di restaurazione democratica-borghese.

L'equilibrio del PCI, che per anni, anche quelli della clandestinità, fu costretto a rincorrere i voltafaccia della politica economica ed internazionale del Kremlino (5), fu lo strumento più idoneo che gli permise di ricoprire in Italia quel ruolo di contenimento perché nella seconda fase della guerra la lotta antifascista non assumesse i caratteri di una lotta anticapitalista.

Crollo del fascismo e moto partigiano

Il 1 luglio del 1942, quando le alterne vicende belliche non potevano ancora far prevedere il crollo dell'asse Roma-Berlino, l'Unità di Togliatti dà prova di profondo senso nazionalistico annunciando l'avvenuta costituzione del “Comitato d'Azione per l'Unione del popolo italiano”, organismo interclassista composto, oltre che da un “gruppo di militanti del Partito comunista d'Italia, da elementi del Partito socialista italiano, del Movimento Giustizia e Libertà” il cui programma “rivoluzionario” consisteva nella denuncia del patto di alleanza con la Germania, pace separata con Inghilterra e Russia e con tutti gli altri paesi in guerra con il fascismo, il ritiro delle truppe italiane dal fronte russo per liberare l'Italia dagli oppressori hitleriani. Nei mesi successivi, parlando al popolo italiano dai microfoni di radio Mosca (5) precisò, sotto forma di omaggio, a quale “nuovo” fronte della guerra gli italiani avrebbero potuto guardare fiduciosi:

... noi dobbiamo essere grati all'America non soltanto di avere dato lavoro per tanti decenni a tanti nostri fratelli, ma per il fatto che a questi uomini, che uscivano dalle tenebre di rapporti sociali quasi medievali, ha fatto vedere e comprendere che cosa é un regime democratico moderno, che cosa é la libertà.

Il discorso é comprensivo di tutto, ed é l'anticipazione del comportamento borghese e controrivoluzionario che il PCI terrà, di li a pochi mesi, nel moto partigiano.

  1. In primo luogo é palese l'invito a non organizzarsi contro la guerra sulla base dell'esperienza dell'ottobre bolscevico, ma soltanto di cambiare fronte a fianco dei nuovi, democratici, alleati.
  2. Riconoscimento dell'intervento imperialistico americano come fattore progressista non solo in tempo di guerra ma anche nei periodi di ricostruzione in quanto paese industrialmente avanzato.
  3. Identificazione di libertà con il concetto politico di democrazia borghese.
  4. Definitivo abbandono del perseguimento rivoluzionario della dittatura del proletariato.

Niente di nuovo sotto il sole, il partito di Gramsci e Togliatti, praticamente cancellato dalle leggi eccezionali del 1926 si sforzava di riannodare le fila sulla base di quanto era andato maturando in quindici anni di adattamento controrivoluzionario. L'interclassismo, la difesa dello stato democratico e le conseguenti tattiche erano già insiti nelle elaborazioni teoriche del fronte unito e del governo operaio degli anni 1920. L'unica novità risiedeva nel fatto che allora il PCI le fece sue senza poterle esprimere, ora tentava di renderle praticabili operativamente. Con questa tattica e con queste finalità strategiche il PCI intendeva rivolgersi ad un proletariato, come quello italiano, che di li a qualche mese avrebbe espresso, nelle campagne come nelle fabbriche, la sua ostilità alla guerra. Nel marzo del 1943, ad un lasso di tempo brevissimo dalla caduta ufficiale del fascismo, il proletariato industriale si mosse. Nelle zone industrializzate del nord, ed in modo particolare nella regione piemontese, quasi duecentomila lavoratori tra tessili, metallurgici e chimici, incrociarono le braccia contro la guerra, contro il fascismo che l'aveva voluta, contro la produzione bellica ed i suoi salari di fame. (6) La rilevanza del fenomeno va comunque ben oltre il dato numerico. Se si eccettuano gli scioperi dell'ottobre del 1942 alla FIAT, quelli del marzo del 1943, rappresentano un primo, importante episodio di ripresa della lotta di classe dopo un ventennio di quasi assoluto silenzio. Inoltre l'iniziativa operaia anticipava, esasperandoli, i prodromi dello sfacelo politico-organizzativo della società italiana. Con già gli anglo-americani padroni della Sicilia e pronti a risalire tutta la penisola, il 25 luglio crollava il baraccone fascista. La congiura di palazzo recise l'ultimo filo che teneva ancora in piedi Mussolini. Sulla mozione dell'ex ministro fascista Grandi, presentata nella burrascosa seduta del Gran Consiglio, si concentrarono gli sforzi nel tentativo di salvare il salvabile. Via il fascismo per un ritorno della monarchia, via Mussolini dentro Badoglio. Ma il periodo che va dalla caduta ufficiale del fascismo alla fuga della corona a Brindisi, dopo l'armistizio con gli alleati, apri una fase di stallo in cui istituzioni e forze sociali crollarono sotto il peso degli avvenimenti. Del fascismo rimanevano le briciole raccolte intorno alla Repubblica Sociale Italiana, il governo Badoglio non poteva avere l'autorità politica necessaria per iniziative autonome, la monarchia si ripresentava sulla scena italiana troppo screditata, per fungere da punto di riferimento. Ad aggravare la situazione si aggiunse lo sbandamento nell'esercito sia al fronte che nell'interno. Centinaia di migliaia di operai, contadini, popolani che furono costretti a vestire l'abito della patria divisa, si trovarono dall'oggi al domani disgregati, senza una guida, senza sapere quale fosse il campo di battaglia e quale il nemico. (7)

Come gli scioperi diedero il segno di quanto pesasse in fame e sfruttamento la guerra borghese, così la diserzione mostrò quanto inutile e disumano fosse morire al fronte non sapendo nemmeno bene per chi e per che cosa.

La borghesia, quella stessa che era cresciuta sotto il fascismo, che per anni aveva economicamente sfruttato l'involucro ideologico del partito nazional-fascista, si trovò in quei mesi travagliati senza strumenti di rimpiazzo immediato e soprattutto senza una ideologia che potesse recuperare le masse all'interno di una situazione che le permettesse di continuare, nella fase post-fascista, ad essere la classe dominante.

In simili frangenti la borghesia aveva a sua disposizione una sola strada percorribile: prendere le distanze dal fascismo, organizzare, promuovere o più semplicemente sostenere “nuove” forze politiche che facessero del proseguimento della guerra a fianco degli alleati la base di partenza del loro muoversi tattico, imbrigliare il proletariato italiano all'interno di una visione nazionalistica, democratica e borghese che scaricasse sul regime fascista tutte le colpe in modo che la paventata e per certi versi già operante ripresa della lotta di classe, si incanalasse negli appositi steccati dell'antifascismo e che non assumesse le forme di una lotta anticapitalista.

D'altro canto l'eterna contrapposizione libertà-coercizione, autonomia-oppressione, fascismo-democrazia ebbe, in più di una occasione, l'opportunità di mostrare l'intercambiabilità dei due fattori, fermo restando il quadro di fondo, ovvero i rapporti di produzione capitalistici. La borghesia internazionale, e quella italiana in modo particolare, ben conoscevano la meccanica di queste pantomime per averle già praticate in più di una occasione.

In aggiunta va rilevato come la neo-nata ideologia dell'antifascismo propugnata e praticata nelle cose dalle forze partitiche democratico-borghesi, quali PCI, Partito popolare partito d'Azione ecc. si sforzasse di incanalare la rabbia e la disperazione di ingenti masse contro un obiettivo che in pratica non esisteva più. Il fascismo era caduto, e più ancora della congiura di palazzo o delle vicende che seguirono, per la sproporzione che andava delineandosi tra i contendenti imperialistici con l'intervento a fianco degli “alleati” delle potenzialità produttive e quindi belliche degli Stati Uniti. I rovesci militari tedeschi in Russia ed in Africa, l'avanzata americana nel Meridione, la crisi interna dello stato fascista uniti agli scioperi dei maggiori centri industriali e al fenomeno inarrestabile della diserzione, non potevano far individuare nella Repubblica di Salò un bersaglio concreto. Eppure la mistificazione ebbe successo.

La mancanza di una forza rivoluzionaria (8), di una operante strategia comunista, permise alla borghesia di superare la fase di stallo in cui le vicende esterne ed interne l'avevano costretta, di nascondere la maschera fascista per quella democratica, di organizzare nuove forze politiche, che altro non erano se non quelle del periodo pre-fascista, di dar vita ad un nuovo corso ideologico che le consentisse di “cambiare tutto senza modificare niente”.

Cosi si stravolsero contenuti ed orpelli, l'istintivo odio delle masse verso la guerra fu mediato nell'odio verso “quella guerra” la rabbia contro lo Stato ed i suoi poteri fu convogliata verso “quello stato” e la disponibilità alla lotta di larghe fasce proletarie scaricata attraverso una serie infinita di soluzioni intermedie e minimali. Non vana, del resto, era la speranza borghese che, una volta emarginate, con le buone o con le cattive, le sparute minoranze rivoluzionarie, il proletariato si sarebbe si mosso ma che autonomamente non sarebbe andato al di là del primo diaframma o che comunque più agevole sarebbe stato lo sforzo di arginamento. Perché dall'ipotesi teorica del quadro generale entro il quale avrebbe dovuto svolgersi il disegno conservatore si passasse, con relativa sicurezza, ai complessi nodi della sua operatività nel vivo delle cose, alla borghesia italiana era necessario, tra gli altri, un partito che, pur accettando di muoversi all'interno di una strategia politica di conservazione dichiaratamente borghese, avesse forza e credito sufficiente per inserire tutto questo sotto forma di “tattica necessaria” nelle aspettative operaie. Sin troppo palese era agli occhi del capitale ed ai suoi manutengoli di professione od occasionali che, a nulla o a poco sarebbe valso proporre una linea di condotta del genere se a disporne non fosse intervenuta, tra le altre, una forza partitica di “sinistra”.

Fu così che il 9 settembre 1943 prese corpo il tentativo di rinascita della borghesia italiana sotto forma del CLN comprensivo di una sua destra e di una sua sinistra ma coeso nello spirito antifascista.

Al di là delle divergenze tattiche, la destra (DC, PLI, DL) propugnava l'abbattimento del fascismo per un ritorno al mondo economico e politico liberale del pre-fascismo senza apportare grosse riforme al tessuto economico produttivo. La sinistra (PCI, PSUP e P.d'AZ) era portatrice nel suo programma di una più avveduta tattica rispetto alle necessità della ricostruzione capitalistica per l'immediato dopoguerra, puntando sulla necessità delle riforme di struttura nel settore agrario e di una maggiore concentrazione in quel lo produttivo (nazionalizzazione). Unanime era la sfiducia nella corona e nelle possibilità del governo Badoglio. In una, ancora più estrema sintesi, potremmo dire che la borghesia italiana con il CLN non trovò soltanto le forze più idonee alla prosecuzione della guerra nell'altro fronte, con il conseguente recupero di una parte di “credibilità”, ma anche i fattori politici della ricostituenda Repubblica democratica comprensiva di tutti gli annessi e connessi del caso. Come se non bastasse, con l'arrivo di Togliatti dalla Russia (9) l'asse politico del CLN fu spostato ulteriormente a destra. Prima del suo arrivo, la posizio del PCI, come quella dei restanti cinque partiti, riguardo la questione monarchica, già espressa da Scoccimarro “non vi é possibilità di compromesso con il governo Badoglio” ruotò di 180 gradi. In una riunione del Consiglio Nazionale del Partito tenutasi a Napoli alla presenza di tutti i quadri disponibili del Meridione (10) Togliatti sostenne la tesi di una unità nazionale contro il fascismo e l'invasore tedesco che comprendesse tutti gli italiani dai comunisti ai monarchici. Per ciò che concerneva i compiti ed il ruolo del partito cosciente dello stato di difficoltà della patria economia, Togliatti ne tracciò uno schizzo prospettico:

il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione. (11)

E perché non ci fossero dubbi di sorta per chi avrebbe dovuto portare la linea politica alle masse combattenti e per le stesse masse partigiane, Togliatti, e con lui la ricostituita direzione del partito, chiarì che:

l'insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani una volta liberata tutta l'Italia attraverso una libera consultazione popolare e la elezione di una Assemblea Costituente. (12)

Tattica, tradimento, opportunismo? Sono tutti aggettivi che non possono esprimere la reale portata dei contenuti politici di simili dichiarazioni perché direttamente o in maniera mediata si riferiscono ad un partito che si pretendeva essere ancora comunista.

Ma il PCI aveva, e da tempo, cessato di tradire, di agire in maniera opportunistica. La fisionomia di partito borghese, l'accettazione delle istanze economiche e politiche del capitalismo nazionale lo ponevano inequivocabilmente non più alla destra del movimento di classe ma lo promuoveva ad ala sinistra delle istanze conservatrici della borghesia italiana. Ed un partito borghese lo si denuncia come tale e non gli si rimproverano opportunismi tattici né, tanto meno, tradimenti di sorta. Nel rifiuto del perseguimento del fine rivoluzionario per la guerra di liberazione nazionale, la rinuncia alla dittatura del proletariato per una libera consultazione nazionale, “poi domani si vedrà”, l'elaborazione teorica della funzione eminentemente nazionalista del “nuovo” partito, sembravano far rivivere in maniera capovolta le epiche battaglie che il partito bolscevico condusse nei confronti della socialdemocrazia, la mortale polemica che Lenin condusse contro il rinnegato Kautsky a proposito di dittatura proletaria e Costituente. (13)

Ma a questo servono le ideologie. In quei momenti l'eterno gioco della mistificazione si ripeteva. Poste in chiaro le direttive di fondo, in modo che il partito comunista italiano potesse rivendicare a pieni titoli la sua idoneità alla futura gestione della “cosa pubblica”, in quanto artefice primario o quantomeno “primus inter pares”, occorreva convincere le masse che, nonostante tutto, quella era la loro battaglia, che la vittoria delle forze democratico-borghesi era la loro vittoria, che in certi frangenti gli antagonismi tra le classi non sono più inconciliabili ma possono trovare la loro giusta composizione. Per Togliatti, come per i vecchi centri del potere, aveva senso parlare di interclassismo, di cooperazione tra tutte le forze sociali a condizione che il PCI, oltre alle garanzie di fedeltà alla democrazia, buttasse sul piatto della bilancia il peso delle sue capacità di convogliare su questo terreno la classe operaia. Non era, cioè, sufficiente la forma, occorreva il contenuto. Per cui non era più illecito di vincerla per schiacciare il nazismo, noi avremmo potuto e saputo risolvere rapidamente la situazione con una azione rivoluzionaria delle masse.

Ma appunto perché c'è la guerra, che malgrado tutto é la nostra guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse, giustamente esasperate da una situazione che non é più tollerabile, tentino di risolvere spontaneamente la situazione in forme che potrebbero essere una limitazione allo sforzo di guerra. (14)

Ma mentre il CLN, con il PCI in testa, andava operosamente costruendo, gradino su gradino, le condizioni di base della futura, ed ormai imminente repubblica democratica il proletariato industriale del nord rialzò la testa. Tra l'estate del 1944 e quella del 1945 sono innumerevoli ed imponenti per partecipazione gli scioperi a Sesto San Giovanni (quarantamila) nel lodigiano (cinquemila) a Torino (ottantamila una prima volta, cinquantamila la seconda) Ai dirigenti picisti tremarono i polsi non tanto perché questi episodi potessero trascrescere in senso rivoluzionario, ma in quanto avrebbero mostrato agli attenti occhi della borghesia la loro incapacità a svolgere il ruolo di pompieri. La paura fu pari alla forza di mobilitazione:

Le cellule di fabbrica e i compagni responsabili si devono mobilitare... essi devono con l'esempio incitare al lavoro, alla disciplina, Molti non hanno voglia di lavorare perché dicono che in fondo nulla é cambiato, sono ancora e sempre degli sfruttati che lavorano per il padrone. Ad essi bisogna far comprendere che un primo, importante passo in avanti é stato fatto, che oggi esistono tutte le premesse per far funzionare in pieno regime di libertà e di democrazia progressiva tutti quegli istituti che rappresentano le prime conquiste dell'Insurrezione: i CLN i consigli di gestione, le commissioni interne, gli spacci, attraverso i quali si realizzerà una sempre più vasta partecipazione e controllo degli operai sulla produzione. (15)

E se ciò non fosse stato sufficiente, se cioè il PCI, da solo non fosse risultato idoneo all'espletamento del compito che si era imposto, Togliatti aveva in riserbo una ulteriore soluzione tattica: organizzare con il PSIUP un più largo e compatto fronte socialdemocratico perché più estesa fosse la cintura di sicurezza attorno agli interessi del capitale, la cosa non andò in porto, ma come spesso accade, quello che conta é il pensiero:

Ci si deve avviare alla realizzazione del Partito unificato della classe operaia e dei lavoratori italiani. Questo partito, sorgendo sulla base di un programma concreto e largo di azione politica, economica, sociale, dovrà poter raccogliere in una sola formazione politica quelle forze di lavoratori che si muovono nella direzione della democrazia progressiva e del socialismo, anche se non partono da premesse ideologiche marxiste. (16)

Mentre si costruivano ipotetiche soluzioni tattiche con gli altri partiti della sinistra, si continuava nell'intesa con la democrazia cristiana, infantilmente definita per l'occasione partito delle masse cattoliche, portatrice secondo l'Unità “delle nostre stesse premesse” in materia di riforma agraria,

le quali si riassumono nella necessità di distruggere i residui della feudalità e di dare la terra a tutti i contadini che la lavorano.

Poi continuava ad esserci la guerra con i suoi problemi di irregimentamento delle coscienze del richiamo alle armi e della diserzione. Anche qui occorreva dimostrarsi capaci, efficienti:

Ai compagni richiamati alle armi le Federazioni devono raccomandare di ottemperare al richiamo. Se i compagni obiettassero il carattere tuttora reazionario degli organismi militari italiani, la presenza in essi ancora oggi di quadri legati al fascismo, in essi ancora in vigore, bisogna rispondere che il partito attraverso i propri rappresentanti nel Governo si sforza di migliorare tale situazione. Bisogna d'altra parte spiegare ai compagni che quanto più numerosi entreranno nell'esercito gli elementi politicamente coscienti e sani, tanto più difficile sarà alle forze reazionarie servirsi di esso a loro difesa, e tanto più facile la sua democratizzazione. Per gli stessi motivi ai compagni provenienti da formazioni partigiane poi disarmate e disciolte, non si deve sconsigliare l'arruolamento nell'Esercito. (17)

La nascita del Partito Comunista Internazionalista

A chi obiettava l'eccessivo zelo democraticistico con cui il PCI andava affrontando tutti i problemi, non ultimo quello della partecipazione governativa, questa era la risposta ovviamente non priva di mistificazioni storiche, nonché politiche:

Teoricamente, ciò che noi abbiamo fatto entrando nel governo corrisponde in parte, nella particolare situazione nella quale ci troviamo noi oggi, a ciò che Lenin proponeva di fare nel 1905, quando sosteneva la necessità della partecipazione socialdemocratica a un governo allo sopo di lottare a fondo contro tutti i tentativi controrivoluzionari e di difendere gli interessi autonomi della classe operaia. Come Lenin allora,noi vogliamo battere la contro rivoluzione, cioè il fascismo non solo dal basso, dal di fuori, ma anche dall'alto dal seno del governo. (18)

Sin troppo evidente era l'imbarazzo della risposta. Togliatti, e con lui la Direzione del partito, fingeva di non conoscere la lezione storica, nonché pratica del leninismo sulla questione dello stato, di come la rivoluzione d'ottobre seppe dimostrare nei fatti che io stato borghese, in qualsiasi veste si presentasse (fascista, democratico o progressista) non poteva giovarsi dell'appoggio tattico del proletariato, ma che solo la sua distruzione poteva consentire la condizione necessaria alla costruzione della dittatura del proletariato. Ogni altra via non sarebbe risultata idonea, non solo, ma avrebbe prestato il fianco ad un rafforzamento di uno stato borghese “democratico”, inteso come migliore baluardo di difesa contro le velleità revansciste di uno stato borghese fascista, faceva il paio con la rinuncia al perseguimento della soluzione rivoluzionaria per lasciare spazio a quella riformista. Come sempre, le soluzioni tattiche non sono momenti politici a sé stanti, situazioni che possono essere affrontate e risolte da sole o una per volta, indipendentemente o addirittura al di fuori della visione strategica che dovrebbe sottenderle. Ogni scelta tattica presuppone un disegno strategico così come qualsiasi strategia abbisogna di momenti tattici tra loro coerenti. Non é possibile perseguire un fine rivoluzionario con una tattica riformista, come addirittura folle sarebbe il suo contrario.

La storia, e non solo quella recente; ha dimostrato come le crisi economiche, le conseguenti crisi politico-istituzionali siano sempre state alla base di una recrudescenza della lotta di classe, e che le guerre abbiano spesso accelerato ed esasperato i termini della lotta, ma che mai il muoversi della classe in senso autonomo, o per grazia ricevuta, abbia portato di per sé ad un orientamento rivoluzionario senza la presenza strategica del partito di classe.

Anche negli anni 1943-45 la storia si é ripetuta. Esistevano, e drammaticamente, tutti gli ingredienti necessari: la crisi economica, la guerra, il vuoto istituzionale creato dallo sbandamento della borghesia, la precaria esistenza di due governi (quello repubblichino di Salò e quello monarchico di Brindisi) che governavano meno di uno, e un esercito allo sbando.

La classe operaia del nord e decine di migliaia di reduci dal fronte si mossero. Ci furono scioperi e diserzioni, determinazione alla lotta ma anche confusione politica. Inevitabilmente la risposta di classe alle disperate condizioni di vita imposte dalla guerra non poteva scontrarsi che con il primo diaframma che le si poneva innanzi, il fascismo. Come nella Russia del 1917, quando la rabbia di milioni di sfruttati si espresse contro il regime dittatoriale dello zarismo si rese necessario l'intervento del partito bolscevico, perché la lotta di classe non si limitasse al primo passo come predicava la socialdemocrazia russa sorretta dal coro di quella internazionale, ma colpisse nel cuore il regime capitalistico, cosi, in Italia, urgeva la presenza di un partito rivoluzionario che indicasse il superamento della lotta democratica contro il fascismo per una soluzione rivoluzionaria anticapitalistica. (20)

Sullo sfondo di quella situazione obiettiva e sulla base di questa necessità politica, tra lo sfacelo ideologico operato dalla Terza Internazionale e perseguito dal partito centrista, nasceva il Partito Comunista Internazionalista. Dopo vent'anni di controrivoluzione internazionale e di dittatura fascista nel mezzo della seconda carneficina mondiale, il sorgere di un partito rivoluzionario che si ponesse a punto di riferimento politico di un processo di ripresa della lotta di classe, poneva, prima ancora che da un punto di vista organizzativo, problemi di analisi e di programma. Per i rivoluzionari era sin troppo chiaro che le agitazioni di massa, l'esasperazione di chi pagava con il supersfruttamento in fabbrica o addirittura con la vita in trincea il prezzo della guerra imperialista, si sarebbero dimostrate un inutile sacrificio di lotta se non si fossero riallacciate ad una tattica politica che avesse come scopo ultimo una strategia rivoluzionaria. Ma perché ciò fosse nelle cose e non soltanto nelle intenzioni occorreva rian nodare i fili rossi della storia della lotta di classe, riorganizzare le sparute forze fisiche che non si fecero travolgere dall'immane ondata controrivoluzionaria, soprattutto, fare chiarezza sui problemi fondamentali che la pratica imperialistica di quegli anni andava drammaticamente imponendo. Se compito di una forza rivoluzionaria é quello di andare alla lotta così come essa si manifesta, imbrigliata e condizionata da mille fattori che si intersecano e si sovrappongono, non per rimanerci invischiata ma per dirigerla sul suo terreno, quello cioè degli interessi di classe, allora era prioritario sbarazzare il campo da equivoci, mistificazioni, cercando di tracciare un solco, il più profondo possibile, tra classe e classe. I nodi da sciogliere erano quelli di sempre ma attualizzati da una prassi politica che li rendeva "nuovi" tipici di quella fase storica.

  1. Innanzitutto la guerra. Se le forze borghesi, comunque travestite, si sforzavano di ideologizzarla trasfigurandola in momento positivo se combattuta in "chiave" democratica o progressista, imperativo doveva essere !o sforzo di ana lisi e di denuncia della vera natura della guerra, della sua matrice economica, del suo carattere imperialistico e della sua ineluttabilità in regime economico capitalistico. Lo scopo ultimo era quello di dimostrare alla classe operaia che al fondo della questione non c'era l'abbandono di “quella” guerra per “un'altra”, che proseguirla sotto l'insegna della democrazia, dopo averla combattuta come fascista, non avrebbe significato uscire dallo steccato borghese ma soltanto attestarsi sull'altro fronte dell'imperialismo e che, comunque, un solo interesse doveva animare la ripresa della lotta di classe dal proletariato italiano, al pari di quello internazionale: trasformare la guerra in rivoluzione, la guerra imperialista in guerra civile.
  2. Il secondo nodo da sciogliere, quello forse più difficile, era rappresentato dalla Russia. Anche se tanti, troppi episodi di ripiegamento controrivoluzionario si erano accumulati da quell'ormai lontano ottobre bolscevico, anche se la Terza Internazionale, prima di chiudere definitivamente i battenti (21), era stata costretta a stravolgere completamente quello stesso programma politico che era stato alla base della sua fondazione, ancora grande era nella emotività delle masse il suo prestigio. Mosca significava socialismo, era ancora il punto di riferimento della rivoluzione internazionale, e se il paese che aveva dato i natali a Lenin era sceso in campo contro il Nazi-fascismo per la salvaguardia della democrazia voleva dire che quella era la battaglia che bisognava combattere. Su questo terreno facile si sarebbe dimostrato il compito di coinvolgimento del proletariato da parte della conservazione se non fosse intervenuta l'opera di demistificazione e di denuncia del processo controrivoluzionario che aveva condotto l'ex Repubblica dei Soviet ad essere, come capitalismo tra i capitalismi, protagonista della disputa imperialistica.
  3. Conseguentemente l'opera di demistificazione di chiarezza politica non poteva che proseguire nei confronti di tutte quelle organizzazioni partitiche, primo fra tutte il PCI, che non avevano saputo o voluto recidere il cordone ombelicale che li vedeva più o meno vincolati al processo controrivoluzionario staliniano, che li rendeva partecipi al proseguimento della guerra ed attestati sui bastioni della lotta democratica in difesa degli interessi della borghesia nazionale. L'equivoco doveva essere chiarito non in termini tattici ma strategici. Al PCI non doveva essere rinfacciata l'erroneità di un comportamento tattico compromissorio, di aver ceduto qua e là nel suo programma politico pur di raggiungere opportunisticamente un ruolo di reale dirigenza all'interno di una fase di lotta che per contenuti e finalità non oltrepassava i limiti dell'impostazione che le stesse forze borghesi avevano imposto, ma andava denunciato suo completo, irreversibile tradimento di classe, che lo collocava interamente all'interno delle istanze contingenti storiche dell'avversario di classe.
  4. Denuncia e critica dovevano uscire dalla loro veste ideologica per assumere negli avvenimenti che il fine guerra convulsamente proponeva, i caratteri specifici della lotta rivoluzionaria nelle fabbriche, nelle campagne, nelle piazze ed ergersi a punto di riferimento politico contro la prassi del CLN e del moto partigiano. Operativamente la battaglia doveva essere combattuta su due fronti, su quello fascista perché la disgregazione del vecchio stato arrivasse sino in fondo e su quello democratico perché sulle macerie del primo non ne sorgesse un secondo, ugualmente borghese ed imperialista, ma con un abito nuovo, più consono alle esigenze di ricostruzione capitalistica del dopo guerra.
  5. Sempre in senso operativo, era necessario che gli internazionalisti si ponessero nel vivo delle lotte per rendere operativa quella prassi rivoluzionaria che un ventennio di scura controrivoluzione aveva reso estranea alle masse proletarie, al loro modo di agire.

In questo senso va inteso il richiamo alla tradizione politica programmatica della “sinistra italiana” a Livorno e alle “Tesi di Roma”, all'iniziativa del “Comitato d'Intesa”, alla riacquisizione dei dettami rivoluzionari dei primi due congressi dell'Internazionale Comunista. bolscevismo per arrivare alla vittoria dovette passare sul cadavere della Socia-democrazia, al PC Internazionalista non restava che percorrere la medesima strada, questa volta, contro la neo-socialdemocrazia, quella cioè uscita dalle macerie della III Internazionale. Guerra, ruolo della Russia, PCI e moto partigiano erano dunque i nodi da sciogliere perché si potesse sperare di rompere in Italia i primi contrafforti della immensa diga del l'imperialismo internazionale.

Si partì dall'analisi:

Nella fase attuale del capitalismo, che é caratterizzata da una crescente concentrazione in tutti i rami della vita economica, fase di grandi blocchi economici all'interno delle singole economie nazionali, e di economie nazionali organizzate esse stesse come grandi blocchi, ogni guerra ha caratteri ed obiettivi imperialistici, verte cioè intorno alla conquista di mercati, all'occupazione di punti nevralgici dell'economia e quindi della politica mondiale, al controllo finanziario e allo sfruttamento dei paesi meno evoluti ma ricchi di possibilità economiche e, in una parola, ad una nuova spartizione del mondo a favore di questa o quella potenza industriale.
Dominati dalla necessità di espandere continuamente le proprie capacità produttive per non rimaner soffocate, e quindi di trovare sempre nuovi sbocchi ai loro prodotti nuove possibilità di sfruttamento al loro capitale, le singole economie nazionali entrano in una gara di velocità che, esaurite le possibilità pacifiche di concorrenza, sboccano fatalmente nell'atto sanguinoso della guerra.
Questa non ha dunque origine in contrasti di natura ideologica, a quel modo che si é usi rappresentare il conflitto come lotta tra civiltà e barbarie, fra libertà e schiavitù, fra giustizia ed arbitrio; anzi, la diversità delle ideologie e delle forme politiche é essa stessa il prodotto di una diversa posizione dei belligeranti nel quadro dell'economia e della politica mondiale.
La guerra é perciò anche la manifestazione suprema di una crisi insolubile della società borghese. Essa scoppia quando all'interno dei paesi più direttamente interessati al dominio mondiale, e nelle loro relazioni reciproche ogni possibilità di comporre pacificamente la crisi sociale si é esaurita. Allora si pone alla società capitalistica il dilemma: guerra o rivoluzione. [... Ma] se dalla guerra deve uscire vincitore, come noi fermamente vogliamo, non questo o quel gruppo imperialista. ma la classe proletaria questa vittoria sarà realizzata soltanto da un partito che abbia combattuto contro entrambe le parti del capitalismo; la faccia democratica e la faccia fascista, non si sarà lasciato sviare dal suo cammino né dalle sirene che lo invitavano a impugnare il fucile per una più alta giustizia sociale né da quelle che gli rivolgevano lo stesso invito in nome della difesa nazionale e del governo popolare.
Solo chi non ha ammesso patteggiamenti con la guerra ha diritto di convocare il proletariato a quella lotta, che ha nome: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. (22)

Ma analisi e demistificazioni della guerra hanno un senso se corredate sul piano operativo da iniziative idonee a legare il quotidiano, l'aspetto tattico contingente, alla visione strategica generale attraverso il coordinamento politico delle spinte di base, con iniziative tempestive ed adeguate alle necessità del momento. Non é sufficiente proclamare di essere contro l'imperialismo, occorre individuare i mezzi materiali e le forme di lotta più idonee allo scontro:

Contro coloro che tentano di incanalare la vostra lotta nel fronte di liberazione nazionale fingendo di ignorare che la “patria” del proletariato, quella del lavoro e della solidarietà senza frontiere, non ha nulla di comune con la “patria” dei borghesi. voi, operai, rispondete con le parole di Lenin: “la guerra é un inevitabile stadio del capitalismo, una forma altrettanto normale della vita del capitalismo quanto la pace”. Il rifiuto di prestare il servizio militare, gli scioperi contro la guerra e simili cose, sono pure stupidità un pallido e codardo sogno di lotta inerme contro la borghesia armata, un sospiroso desiderio di ottenere l'annientamento del capitalismo senza una disperata guerra civile; oggi, chiusa in se stessa, la lotta per le rivendicazioni economiche immediate perde significato e valore; a che gioverebbe la parziale soddisfazione delle vostre richieste se l'immane massacro continuasse succhiando il vostro sangue il vostro sudore!
L'ora presente impone la formazione di un fronte unico operaio, l'unione cioè di tutti coloro che non vogliono la guerra, sia essa fascista o democratica. Operai di tutte le formazioni politiche proletarie e senza partito unitevi ai nostri operai, discutete insieme i problemi di classe al lume degli avvenimenti della guerra e formate di comune accordo in ogni fabbrica, in ogni centro comitati di fronte unico capaci di riportare la lotta del proletariato sul suo vero terreno di classe. ll fronte unico tra operai sarà una realtà viva e operante alla sola condizione che voi, qualunque sia la vostra posizione politica di partito, siate d'accordo sulle seguenti premesse alla guerra.
1. La guerra imperialista é il tentativo più vasto, violento corruttore condotto contro il proletariato per sbarrargli la strada che conduce alla conquista del potere.
2. Tra i due poli della guerra, il fascista e il democratico, il primo sintesi di violenza e il secondo di corruzione, il proletariato esprime avversione ad entrambi come ad aspetti appartenenti alla stessa realtà capitalistica.
3. Nessuno sarà più disposto a fare credito alla ormai vecchia e ridevole storiella della manovra tattica che comporta la lotta al male maggiore (leggi nazifascismo) per preferire all'alleanza al male minore (leggi dittatura democratica).
4. Le parole d'ordine della insurrezione armata, cara ai guerriglieri della liberazione nazionale é soltanto verbosi tà rivoluzionaria che nasconde il tradimento della rivoluzione proletaria e mira a creare ai sei partiti una sufficiente base elettorale per la scalata al potere politico.
5. Nella fase attuale della crisi e sotto l'imperversare più furioso della guerra, le rivendicazioni di natura' sindacale o di contingenza politica, se da un canto esprimono i bisogni gravi e urgenti delle masse e sono inevitabili, come inevitabile e insopprimibile é diritto proletario di valersi dei mezzi che gli sono propri per la difesa dei suoi interessi dall'altro sarebbero praticamente vane e illusori se nel proletariato non esistesse la coscienza che solo l'avversione attiva, classista alla guerra, solo la guerra spietata all'imperialismo comunque camuffato, solo la lotta rivoluzionaria vittoriosa assicureranno il potere al proletariato.
6. È necessario distinguere fra lo sciopero, espressione organica della lotta operaia a mezzo normale di difesa della classe, e la scioperomania di coloro che portano nella direzione del movimento una mentalità da guerrigliero balcanico e da organizzatore di bande armate. Ciò serve in definitiva a rendere inefficace l'arma dello sciopero e a screditarlo nella coscienza delle masse. Solidali perciò con gli scioperi e con ogni manifestazione classista di fabbrica, promotori anzi della loro condotta, gli operai siano soprattutto gli assertori costanti, instancabili, della suprema necessità della lotta per il potere da parte del proletariato nel cui clima storico le lotte contingenti, nella loro stessa parzialità e inutilità, si illuminano e assumono così colore e sostanza di classe.
7. Sulla base di queste premesse gli operai (l'etichetta della loro fede politica non conta) si facciano divulgatori dell'appello del nostro partito e, dibattute e chiarite e accettate le idee che ne sono la giustificazione, si facciano essi stessi iniziatori dei primi contatti e dei primi raggruppamenti organici sul posto di lavoro. Del resto gli operai hanno dimostrato chiaramente di essere ormai maestri nell'arte di organizzarsi in barba ai padroni e ai loro servi fascisti.
8. Il fronte unico operaio raggruppa e cementa le forze destinate a battersi sulle barricate di classe contro la guerra e le sue forze politiche di direzione, tanto fasciste quanto democratiche. Suo compito maggiore e più urgente é impedire che gli operai siano appestati dalla propaganda guerraiola; di smascherare gli agenti mascherati da rivoluzionari, ed evitare che lo spirito di lotta e di sacrificio che anima il proletariato sia comunque sfruttato ai fini della guerra e della sua continuazione, sia pure sotto la barriera della libertà democratica. (23)

Ma denunciare la guerra e le sue maschere, togliere cioè alla barbarie imperialista i suoi orpelli giustificatori, significava anche presentare al proletariato i soggetti attivi di questo processo. Dato per scontato il giudizio nei confronti dei paesi "alleati” e del nazi-fascismo. rimaneva da sciogliere il ruolo della Russia. Quello stesso Stato che per primo ed unico nella storia della lotta di classe era riuscito a dare nei fatti, oltre che nelle elaborazioni teoriche una risposta rivoluzionaria alla guerra imperialista, poteva essere ancora considerato come punto di riferimento di una ripresa della lotta rivoluzionaria internazionale,un modello da seguire ciecamente o criticamente nello sviluppo della rivoluzione europea; uno stato socialista degenerato, oppure la sua compartecipazione alla seconda carneficina mondiale, sulla base della difesa dei principi democratici, era la riprova del definitivo fallimento della rivoluzione d'ottobre sostituita nelle forme economiche e nel contenuto politico dallo sviluppo delle strutture portanti del capitalismo di stato con tutte le conseguenze del caso nei suoi rapporti con la guerra:

La bolscevizzazione del partito russo e dell'Internazionale, la liquidazione cioè dei quadri direttivi espressi dal proletariato e la loro sostituzione con i servi sciocchi dell'opportunismo, l'ineguaglianza dei salari, che doveva ripristinare le differenze sociali, il ruolo assunto dalla burocrazia di stato di partito, della classe dei tecnici usciti dal travaglio della industrializzazione forzata e dalla chiesa come forze direttrve e preminenti dello stato in luogo della dittatura del proletariato, i piani quinquennali per lo sfruttamento intensivo degli operai ridivenuti classe soggetta, sono gli aspetti esteriori dell'affermarsi di interessi non più coincidenti con quelli del proletariato, la messa in esecuzione, data l'imminenza della guerra, di un piano economico e politico senza precedenti per grandiosità d'intenti e di realizzazioni, reso possibile dalla particolare organizzazione sociale sovietica, la più adatta a interpretare ed a premere nella sua ideologia e nella sua struttura di capitalismo di stato la fase estrema dell'imperialismo. A questo punto gli affossatori della rivoluzione hanno ritenuto opportuno dimostrare alla borghesia internazionale la realtà e concretezza del nuovo indirizzo della politica russa, sacrificando sull'altare della concordia democratica gli uomini della vecchia guardia gli artefici incorrotti della rivoluzione d'ottobre. Questa é la Russia cara al cuore di Roosvelt, di Churchill di tutto il radicalismo internazionale, ma non la nostra. (24)

Il diverso ruolo giocato dalla Russia nel secondo conflitto mondiale rispetto a quello rivoluzionario della prima non poteva che coinvolgere i partiti centristi, le loro appendici di sinistra. Attaccare la Russia, mostrare come la sua economia non potesse essere contrabbandata come socialista, significava anche additare al proletariato che, al di là dei camuffamenti più o meno riusciti, il partito di Togliatti agiva da contenitore della rabbia operaia, da ultimo baluardo difensivo del capitalismo: così mentre il PCI dal seno del CNL dava ordini d'attacco alle forze partigiane:

La grande battaglia per la liberazione dell'Europa é incominciata. Gli eserciti anglo-americani avanzano in Toscana, sbarcano, a centinaia di migliaia di uomini, in Francia. L'esercito sovietico, che ha già battuto in cento battaglie i tedeschi, sta per scatenare la sua ultima travolgente offensiva. È giunta l'ora dell'attacco generale per tutte le formazioni partigiane, per tutti i patrioti, per tutti gli italiani (25)

... il PC Internazionalista rispondeva:

Di fronte a questa politica la nostra posizione é chiara. Il partigianesimo a sfondo nazionale antitedesco é un'arma di cui la borghesia si serve per accecare l'operaio, per distoglierlo dal suo terreno specifico di lotta, per fecondare con il suo sangue un nuovo risveglio dell'agonizzante regime capitalista. Fra due imperialismi che si combattono nel nostro paese e di cui l'uno gli promette una libertà illusoria e l'altro lo invita a vendicare l'onore macchiato, non vi é per noi interesse di scelta. Non vogliamo combattere contro il tedesco perché l'imperialismo anglo-sassone vinca, vogliamo combattere perché siano distrutte una volta per sempre le radici di qualunque imperialismo. Non vogliamo combattere contro la guerra nazista per legittima re la guerra democratica sotto qualsiasi veste si nasconda. Non vogliamo che il proletariato si dissangui per amore di una patria borghese: vogliamo che lotti per la sola causa che gli interessi, la conquista del potere. Alla parola d'ordine “nazione contro nazione” noi sostituiamo la parola d'ordine “classe contro classe” al moto delle bande partigiane antitedesche, l'armamento del proletariato per il raggiungimento dei suoi compiti storici. (26)

Il partito di Togliatti, e non poteva essere diversamente, nei confronti di chi, perseguendo una linea rivoluzionaria, tentava di staccare le masse lavoratrici dall'inganno nazional-borghese mettendo a nudo il suo tradimento, usò la mano pesante. La cosa non era nuova, Le prove generali erano già state fatte in Spagna. Più di allora, anche perché in questo caso era messa in discussione la sua ambizione di potere, il PCI usò nei confronti degli Internazionalisti ogni arma, anche la più carognesca pur di scongiurare ogni pericolo di travalicamento della sua politica frontista.

Provocazione, delazione alla stessa polizia fascista, eliminazione fisica erano i modi usuali dei “gendarmi della democrazia”. (27) Quando questi mezzi risultavano impraticabili o di difficile realizzazione, s'incaricava la stampa di denunciare e denigrare i rivoluzionari definendoli venduti al fascismo e fiancheggiatori del nazismo.

Questi uomini vanno trattati “come spie e traditori, come agenti della Gestapo e la loro stampa va boicottata e bruciata”. (28) Paradossalmente i servizi segreti del Regime che tenevano accuratamente aggiornata la lista dei partiti e delle organizzazioni antifasciste, in un rapporto della fine del 1943 così codificava il Partito Comunista Internazionalista ed il suo organo di stampa clandestino Prometeo:

Prometeo - Organo del Partito Comunista Internazionalista. Già segnalato nei due precedenti rapporti. Reca in sopratitolo: “Sulla via della sinistra”, e nell'angolo di destra: “Proletari di tutti i paesi unitevi!”.
Bandisce un comunismo puro, leninista e trozkista, antistaliniano. Avverso alla guerra sotto qualsiasi aspetto (capitalista o democratica, fascista o sovietico-staliniana che sia), pertanto in lotta aperta anche con la coalizione antifascista, alleata degli anglo-sassoni. Avverso al fenomeno partigiano e agli scioperi incolsulti. Nemico deciso e dottrinariamente ferrato del Partito comunista di Ercoli.
Come già fu detto, é il più indipendente dei giornali sin qui pervenuti nelle nostre mani, e non manca di destar sorpresa in chi lo legge. Autentico tuttavia, nonostante le accuse dei fogli ispirati da Togliatti.
... Sarebbe interessante conoscere quale seguito effettivo abbia il movimento di Prometeo. È da ritenere che sia scarso, per la sua posizione intransigente, troppo in contrasto col dilagante opportunismo delle masse antifasciste, frutto della viltà morale e fisica di cui gli avvenimenti del luglio e del settembre non furono che le manifestazioni più appariscenti. Comunque sembra accertata la buona fede di questo foglio estremista, l'unico senza dubbio degno di qualche considerazione nel turpe coro del sovversivismo. (29)

Ma il PCI ormai era lanciato. Nella sua forsennata corsa alla gestione del potere borghese, una volta debellato lo spauracchio fascista, due rimanevano gli ostacoli da superare: limare le residue perplessità riguardo la sua politica pro-capitalistica con quelle frange operaie che amaramente deglutivano il calice del tradimento, e screditare le minoranze rivoluzionarie tacciandole di fascismo. Nel primo caso riemergeva la solita spudorata menzogna dell'interclassismo fatta passare come “illuminata” capacità tattica:

In una riunione di quadri tenutasi a Milano, é stato detto che noi vogliamo lavorare con gli operai e anche con i capitalisti onesti; questo ha originato un subbuglio di discussioni da parte dei compagni, che non sapevano spiegarsi come si può parlare di capitalisti onesti. Ma si tratta di agitare un determinato programma politico-economico e che i capitalisti lo accettino. Ora noi pensiamo possono accettare il nostro programma,che é un programma di democrazia e di ricostruzione, e lavorare onestamente per la sua realizzazione. Noi vogliamo mettere in evidenza quei capitalisti che fanno di tutto per opporsi alla marcia verso la democra zia e vogliamo mobilitare le masse contro di loro. È dunque evidente che noi siamo pronti a marciare d'accordo con le masse lavoratrici. Se noi non poniamo il problema della conquista del potere, é chiaro che le officine e tutte le industrie restano ai capitalisti e, pertanto, già per forza di cose, lasciamo sussistere questa classe. Il problema e le discussioni si devono allora porre su un altro terreno.. Da noi purtroppo, il settore capitalistico sarà ancora quello che dominerà. Ma sarà interesse di tutti di seguire onestamente la marcia delle classi lavoratrici per la ricostruzione nazionale, nel senso che le classi lavoratrici, per la loro attività, sono quelle che realizzano più conseguentemente la politica di ricostruzione. Così, noi vediamo che, in fondo, chi dirige realmente é la classe lavoratrice. (30)

In altri termini si tentava di convincere gli operai che sarebbe stato possibile creare le condizioni favorevoli per un nuovo ciclo di accumulazione capitalistico a fianco, ovviamente, della borghesia nazionale “buona” in cui la classe operaia avrebbe assunto un ruolo determinante, dimenticandosi di aggiungere che in regime capitalistico la forza lavoro può solo essere oggetto e non soggetto dello sviluppo economico. Parallelamente si tacciava di fascismo un programma politico come quello del Partito Comunista Internazionalista che fondava la sua ragione prima di vita politica sulla inconciliabilità degli interessi di classe e sulla imprescindibile necessità di autonomia della classe operaia soprattutto nei confronti del proprio avversario di classe. Turlupinare la buona fede dalla classe operaia imponendole di dichiararsi disponibile al rilancio della economia nazionale era progressismo, un programma rivoluzionario come quello che riproduciamo in figura 1 e figura 2, veniva tacciato di fascismo.

PCI a parte, la grande forza della neo-socialdemocrazia italiana ed europea, in proposito va ricordato che il fenomeno del partigianesimo non fu una prerogativa della borghesia italiana, ma che sotto altre vesti, con accenti politici più o meno radicali, attecchì in tutta l'Europa “hitlerizzata”, dalla Francia di De Gaulle ai futuri paesi dell'est, ebbe nel ritardo delle forze rivoluzionarie, la sua arma migliore. Solo in Italia la sinistra comunista tentò di riorganizzare le fila nel bel mezzo di una confusione politico-ideologica anche e soprattutto tra quelle forze o iniziative che cercavano in qualche modo di prendere le distanze dalla prassi politica del partito centrista. In quest'area del dissenso tanto eterogenea quanto spontanea, prevalente era l'accento polemico nei confronti del PCI sulle questioni di tattica, più debole per non dire inesistente quello riguardo la sua matrice controrivoluzionaria. Analogo atteggiamento era riservato alla Russia ed al moto partigiano. Soprattutto dopo lo scioglimento della III Internazionale e l'appoggio del PCI al primo governo Badoglio nacquero nel centro nord organizzazioni che tentarono di rappresentare un'alternativa tattico-politica al PCI quali il PC Integrale a Torino che aveva come organo di stampa “Stella rossa” e le iniziative milanesi di Lelio Basso che diedero alla luce a partire dal giugno del 1944 il PS Rivoluzionario, il PP Rivoluzionario ed il Movimento di unità proletaria tutte aventi come organo di stampa “Bandiera rossa”.

Tutte queste esperienze, proprio perché non avevano portato sino in fondo un serio processo di rielaborazione delle esperienze passate passarono come meteore nel pur breve risorgere della lotta di classe in Italia, finirono per rifluire da dove erano partite, cioè nel PCI, nel PSI e nel moto partigiano.

Per il P.C. Integrale la Russia restava il paese del socialismo e Stalin il suo profeta. Conseguentemente “Stella Rossa” si considerava l'ala combattente dello stalinismo contrapponendosi al frontismo capitolatore di Togliatti.

“Bandiera Rossa” romana andava oltre, considerando rivoluzionaria la guerra combattuta dai proletari sovietici e che “Mosca”, pur non essendo in assoluto “il comunismo”, ne rappresentava tuttavia “la prima grande tappa di realizzazione che agevola ed accelera le successive”.

Cosi per Bandiera Rossa milanese la Russia di Stalin, pur se ambigua sul piano della diplomazia internazionale e delle alleanze, era “il più solido baluardo della rivoluzione proletaria”.

Anche gruppo del “Lavoratore” vede il suo scioglimento ed il rientro nel P.C. dei suoi organizzatori di maggiore prestigio quali Venegoni e Fortichiari.

Un cenno particolare merita la F.M. dei comunisti e dei socialisti. Innanzitutto perché, pur essendo il ricettacolo indifferenziato di tutte le opposizioni di sinistra che andavano organizzandosi dalla linea “gotica” in giù, esisteva, implicito, il tentativo di legarsi ideologicamente alla tradizione della sinistra italiana. In secondo luogo perché vedeva, dopo quasi vent'anni di silenzio, la ricomparsa sulla scena politica di Bordiga.

Ma anche nella F.M. che si costituì agli inizi del 1944, se erano chiari ed ormai acquisiti i punti di riferimento politici della “Sinistra Italiana” quali la critica alla degenerazione della III IC allo stato russo, i richiamo a Livorno e alle Tesi di Roma, per ciò che concerneva l'atteggiamento che le forze rivoluzionarie avrebbero dovuto tenere nei confronti del partito centrista, in un momento di sfascio delle istituzioni e di ripresa delle lotte di classe, non c'era altrettanta chiarezza. La stessa “presenza” di Bordiga non contribuì molto a sciogliere i nodi più importanti della F.M., soprattutto per quanto riguardava il rapporto Frazione-Partito centrista e Frazione-costruzione del nuovo partito, per cui dal marzo del 1944 al giugno del 1945 sugli organi di stampa dei compagni del meridione (Proletario, la sinistra proletaria, l'avanguardia, ecc.) si possono leggere posizioni incerte e contraddittorie che ricalcano, nelle linee generali, il ritardo storico che era presente nelle formazioni all'estero quali la FF della CCI e della frazione Belga.

Cosi nel “Proletario” del 15 luglio del 1944 si legge che lo scopo della Frazione é quello di:

  1. Riportare i partiti (sia quello centrista che il PSI n.d.r.) sul terreno della politica classista, quando ve ne é ancora la possibilità.
  2. Trasformarsi in partito autonomo, quando il raddrizzamento dei partiti esistenti si rivela del tutto impossibile.

L'enunciazione programmatica ha una straordinaria identità con le posizioni di Vercesi (Bilan 1933) e della F.I. all'estero con l'aggravante di essere riproposte con undici anni di distanza e nel bel mezzo della seconda guerra mondiale.

Ma due mesi più tardi, sempre sul “Proletario” (15 settembre 1944) mentre si inneggia al PC Internazionalista che già operava al nord si tende a dare del ritardo organizzativo un'altra giustificazione:

La assoluta identità tra la Frazione di Sinistra e il Partito Comunista Internazionalista che lotta al Nord Italia ci é stata riconfermata in questi giorni.
L'aver noi impostato la nostra battaglia come Frazione, anziché come Partito, é dovuto unicamente alle diverse esigenze politiche che il mezzogiorno d'Italia presenta e soprattutto presentava prima dell'inizio della nostra azione. Nel desiderio di essere al più presto riuniti con i nostri compagni del Nord, attestiamo ai militanti del PC Internazionalista la nostra assoluta fedeltà ai principi base della lotta comune... Il proletariato saluta nel Prometeo il compagno che con impavida fermezza si batte.

Sullo stesso numero in contrasto palese con queste posizioni non solo non si rinuncia al proprio ruolo di fazione ma addirittura si ipotizza una sorta di centrismo nel PCI:

Se la Frazione non lavorasse all'interno del Partito, questi elementi sarebbero abbandonati a sé stessi e diventerebbero facile preda della diseducazione e della corruzione cui il partito li indirizza. Invece, lavorando all'interno, la frazione può e deve sgrossare questi elementi, chiarire loro le idee, condurli sapientemente a quelle posizioni di intransigenza che sono le posizioni stesse della frazione.

L'atteggiamento attendista di quei mesi, superato formalmente in occasione del Congresso (6-7 gennaio 1945) ebbe in Bordiga il suo “discreto” ispiratore. Non a caso, ai compagni del meridione che gli si rivolgevano per avere indicazioni sul da fare, Bordiga consigliava di intervenire al convegno di Bari del PC (gennaio 1944), in quanto “lì c'erano le masse”. Anche se Bordiga collaborò nel 1945 alla stesura con Villone e Pistone della piattaforma della Frazione “verso la costituzione del vero partito comunista”, restò sino alla fine degli anni 1940 nella convinzione che contrapporsi al PC da partito a partito sarebbe stato un errore, meglio operare come frazione.

Comunque la piattaforma programmatica sorti l'effetto di rompere l'organizzazione meridionale per cui, invece di essere un punto di riferimento delle forze rivoluzionarie, funse da momento disgregatore di quanto di raccogliticcio si era andato organizzando nei mesi precedenti. Molti rifluiranno nel PC e nel PSI, altri, con alla testa Villone, entreranno nel movimento trotzkista. Solo una parte aderì al PC Internazionalista nel luglio del 1945, mentre Bordiga iniziò una sorta di collaborazione esterna che culminò nel 1951 in aperta rottura sui problemi di sempre: partito, analisi della Russia, imperialismo, che furono alla base della scissione del 1952.

Fabio Damen

(1) A Basilea nel 1912, quando ormai chiara era la prospettiva della guerra, si tenne un congresso dei partiti della II Internazionale, da cui sorti la delibera che imponeva ai partiti socialisti di adottare tutti i mezzi possibili contro questo evento catastrofico, dal rifiuto di votare nei rispettivi parlamenti leggi sul finanziamento bellico per arrivare al disfattismo rivoluzionario vero e proprio (vedere tesi pag. 40-431).

(2) Dalla risoluzione adottata alla Conferenza Internazionale di Londra del 1915 voluta dai partiti socialisti belligeranti ed organizzata dal segretario della II Internazionale Van-der-Veld.

(3) Critica sociale era ed é tuttora la rivista teorica del PSI fondata dallo stesso Filippo Turati nel 1908.

(4) Non riteniamo opportuno, anche per mancanza di spazio, dilungarci sulle ragioni economiche e politiche che determinarono si fallimento della rivoluzione d'ottobre, Diamo per scontata dunque l'acquisizione di questa tesi.

(5) I discorsi di Togliatti (Mario Correnti) al popolo italiano tramite Radio Mosca durarono sino all'11 maggio 1943.

(6) Solo in Piemonte si ebbero 107 scioperi con la partecipazione di 94.453 operai. Negli altri centri industrializzati si mossero non meno di 100 mila metallurgici, 27 mila fra tessili, chimici e manifatturieri.

(7) Dopo l'8 settembre, sul territorio nazionale, concentrate soprattutto al nord furono abbandonate senza direttive 13 divisioni di cui due motorizzate. La stessa sorte toccò alle divisioni in fase di “occupazione” in Francia ed in Russia.

(8) Il Partito Comunista Internazionalista, di cui si parlerà più ampiamente nel capitolo successivo, andava organizzandosi in quei momenti cruciali attraverso il difficilissimo lavoro di ricucitura di vecchi quadri e di nuovi elementi ma non poteva assolvere organizzativamente dall'oggi al domani, all'immane compito rivoluzionario Per il quale, tuttavia, era sorto.

(9) Togliatti rientrò in Italia dalla Russia il 27 marzo 1944 con l'investitura ufficiale del Kremlino quale “capo” del P.C.I.

(10) La riunione, la prima di una certa rilevanza dopo le vicende del'8 settembre, fu tenuta a Napoli, il 30-31 marzo 1944

(11) Tratto da “Il Partito” di Palmiro Togliatti.

(12) Istruzioni che Togliatti, a nome della Direzione del Partito inviò a tutta l'organizzazione il 6 giugno 1944.

(13) È interessante notare come, in altre situazioni ambientali ma nel cuore della medesima guerra imperialistica, l'esperienza maoista muovesse dai medesimi presupposti tattico-strategici. Fronte Unito, coalizione delle quattro classi rivoluzionarie, lotta per l'indipendenza nazionale, dittatura del proletariato sostituita dalla “nuova democrazia”. Al riguardo vedere Prometeo n. 24-25 - 1975.

(14) Dall'Unità del 44 citata in A. Lepre “La svolta di Salerno” e riportata nell'opera di Montaldi “Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970)”.

(15) Normalizzare la vita nelle fabbriche - 2 luglio 45

(16) Dalla risoluzione della Direzione del PCI del 10 luglio 1945

(17) Comunicato della Direzione alle federazioni comuniste provinciali. Citato nell'opera di Montaldi “Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970)”.

(18) Rinascita n. 1 - 1944.

(19) Al riguardi vedere le posizioni di Lenin sia nella “Lettere da lontano" e nelle "Tesi di Aprile”.

(20) La III Internazionale si scioglie ufficialmente a Mosca il 24 maggio 1943.

(21) Da Prometeo clandestino 1/12/1943.

(22) Dal volantino “Appello del Partito Comunista Internazionalista per la creazione del Fronte Unito Proletario contro la guerra 1944”.

(23) Da Prometeo clandestino “La Russia che amiamo e difendiamo”.

(24) Dall'Ordine del giorno n. 8 del Comando dei distaccamenti e delle Brigate d'assalto Garibaldi del 10/6/1944.

(25) Da Prometeo clandestino dell'1/11/1943.

(26) Tra le vittime internazionaliste dello Stalinismo vanno ricordate le figure di due militanti rivoluzionari: Mario Acquaviva e Fausto Atti presenti nel Partito Comunista Internazionalista sin dal momento della sua fondazione.

(27) Tratto da “La Fabbrica”organo della Federazione milanese del PCI del 1/1/1944.

(28) I rapporti a Mussolini sulla stampa clandestina 1943-45 a cura di E. Camurani - Forni Editore.

(29) Rapporto di Longo alla riunione dei segretari federali dell'Alta Italia. 28 Agosto 1945. Già citato in Montaldi “Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-70)”.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.