Crisi ed imperialismo

L'attuale crisi economica, da noi interpretata come conferma ed ulteriore manifestazione della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, presenta peculiarità che la distinguono da quelle analoghe che il capitalismo ha vissuto in passato. Essa giunge, infatti, nell'epoca in cui il capitalismo monopolistico ha raggiunto la piena maturità e fatica ad assolvere il compito per il quale si è storicamente prodotto.

Il monopolio, come ha già sottolineato Marx nel 3° libro del Capitale, è l'approdo cui è pervenuto il sistema capitalista sotto la spinta della caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Il saggio medio del profitto, come è noto, tende a diminuire in conseguenza della continua modificazione della composizione organica del capitale. L'introduzione nei processi produttivi di quote crescenti di capitale costante, in sostituzione di quello variabile, tende a restringere il campo di estrazione del plus-valore. Tale diminuzione, però, può essere assorbita incrementando la produttività del lavoro. La concentrazione dei mezzi di produzione, cui corrisponde la centralizzazione dei capitali, in poche mani, consente l'accoglimento nel processo produttivo, fermi restando i rapporti di produzione borghesi, di grandissime quote di capitale costante e, quindi, anche delle tecnologie più avanzate che permettono l'innalzamento della produttività a ritmi folli. La relativa diminuzione dell'impiego di forza-lavoro e la conseguente diminuzione del saggio del profitto che si determina nella grande concentrazione industriale, trova così la prima fonte di assorbimento. La grande industria realizza, inoltre, economie di scala, dovute alla diminuzione dell'incidenza dei costi fissi per unità di prodotto, che aggiunte alla maggiore produttività del lavoro consentono la produzione di merci a costi più bassi e perciò più competitive rispetto a quelle prodotte con combinazioni produttive a più bassa composizione organica. Le grandi quantità di merci prodotte danno, infine, un potere di intervento nel processo di formazione dei prezzi, sconosciuto all'impresa di piccole e medie dimensioni che in genere subiscono il prezzo che si determina in virtù della legge della domanda e dell'offerta. Dalla combinazione di tutti questi elementi favorevoli, la grande concentrazione è in condizioni di acquisire plus-valore estorto anche al di fuori del suo o dei suoi processi produttivi. La maggiore competitività e il controllo, seppure parziale, del processo di formazione dei prezzi sui mercati, rendono possibile la vendita di merci ad un prezzo più elevato di quello che si sarebbe avuto se il mercato avesse operato obbedendo alla legge della domanda e dell'offerta senza interferenze di sorta. Si tratta, è evidente, di una forma di appropriazione parassitaria di plus-valore, ovvero di profitti provenienti, oltre che dallo sfruttamento diretto della forza-lavoro, anche (e oggi soprattutto) da una posizione sul mercato che favorisce la realizzazione di elevatissime rendite da monopolio. Marx ha chiamato questo particolare profitto "extra-profitto" a sottolineare il suo essere qualcosa di diverso e di più del "normale" profitto.

A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, cioè dai suoi albori fino ai nostri giorni, la grande industria ha conosciuto un poderoso sviluppo. Oggi si calcola che meno del 2% delle grandi imprese dell'Occidente industrializzato controllano il 70-80% del mercato mondiale. Soprattutto nella prima parte della sua vita, la grande impresa monopolistica ha soddisfatto in pieno i compiti per i quali si era storicamente determinata, tanto che, non pochi, videro nel suo successivo e definitivo affermarsi il superamento della contraddizione fondamentale, immanente al processo di accumulazione del capitale e che aveva portato Marx ad anticipare come ineluttabile il crollo catastrofico del capitalismo. In quel contesto economico, fatto essenzialmente di imprese piccole e medie e perciò meno competitive, la grande concentrazione monopolistica poteva spostare agevolmente enormi masse di plus-valore prodotte nei settori più arretrati. Si trovò così nella condizione ottimale per accogliere nel proprio seno i nuovi settori produttivi che le continue scoperte scientifiche mettevano a disposizione. Non solo, impiantando ferrovie, sviluppando la meccanica e la siderurgia essa consentiva al capitalismo nel suo insieme, di assecondare lo sviluppo delle forze produttive senza grandi scosse. Se, infatti, il suo saggio del profitto risultava più basso, essa lo compensava ampiamente con l'extra profitto. Inoltre, allargando la base produttiva, con l'apertura di nuovi settori, si allargava anche la massa di plus-valore complessivo prodotto dal sistema.

La conseguente crescita del profitto totale, in pratica, annullava gli effetti della caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Ma nonostante ciò, la contraddizione tra l'uso borghese delle forze produttive ed il mancato riconoscimento del loro carattere sociale, ebbe modo di manifestarsi. Anzi, più le forze produttive si sviluppano, più risultava evidente e stridente la contraddizione. La crescente massa di plus-valore estorta al proletariato difficilmente poteva essere interamente utilizzata nell'ambito delle aree dove operava la grande concentrazione monopolistica. Nelle metropoli industrializzate ben presto si pose il problema della destinazione delle eccedenze di capitale finanziario che, via via, andavano formandosi. Nacque immediatamente il problema del controllo di aree, influenzate dagli Stati più sviluppati, dove, oltre che prelevare materie prime a basso costo, fosse possibile esportare capitale finanziario

Lenin individuò questa fase, come la fase del moderno imperialismo, ovvero quella fase in cui l'appropriazione di plus-valore ha luogo, oltre che mediante lo sfruttamento diretto della forza-lavoro, anche mediante la rendita da monopolio e l'esportazione del capitale finanziario. All'inizio, anche l'esportazione di capitale finanziario non presentò grosse difficoltà, dato il numero ristretto delle potenze imperialistiche e la vastità dei mercati a loro disposizione. Ma il monopolio non poteva restare un'esperienza marginale in un'economia libero-scambista. La generalizzazione di questa esperienza era inevitabile, poiché essa offriva, senza modificarli, ai rapporti di produzione vigenti un involucro più adeguato al nuovo stadio di sviluppo delle forze produttive. Ma proprio perché favoriva questo sviluppo, il nuovo involucro non poteva tardare a maturare le contraddizioni preesistenti in un contesto ancora più ampio.

Superata la breve stagione delle vacche grasse, la caratteristica propria delle società decadenti, data dal diffondersi dell'appropriazione parassitaria del frutto del lavoro altrui, esplose drammaticamente. La restrizione delle aree di raccolta interna di plusvalore, dovuta al dilatarsi della grande impresa monopolistica a danno delle imprese piccole e medie, rese sempre più acuta la necessità di realizzare extra-profitto mediante l'esportazione di capitale finanziario e quindi più acute le tensioni fra le diverse centrali imperialistiche. Assestatisi i nuovi settori produttivi, la continua espulsione di forza-lavoro dal processo di produzione non trovò compensazione e, con essa, non trovò compensazione la diminuzione tendenziale dei saggi di profitto mediante allargamento della massa totale di plus-valore estorto. Ha inizio così la nostra epoca, l'epoca delle grandi crisi e della grandi guerre. Da allora il capitalismo ha vissuto imponendo all'umanità un prezzo elevatissimo e facendo della distruzione sistematica delle forze produttive, un fatto funzionale alla propria sopravvivenza. I dati di seguito indicati mostrano inequivocabilmente la stretta connessione esistente fra l'andamento del ciclo economico e le due guerre mondiali.

Con l'approssimarsi della 1 a guerra mondiale si riscontra, a partire dal 1907, una brusca impennata della disoccupazione: dall'1,8% di quell'anno, si passa all'8,5% del successivo. Negli anni 1909-10 la disoccupazione resta intorno al 5 per cento. Nel 1906 era dello 0,8%. Nel 1914 essa risale all'8% e nel 1915 raggiunge il 9,7%.

La stessa curva si ripropone per la 2a guerra mondiale. Nel 1926 si ha una disoccupazione pari all'1,9% Dal 1927 al 1929 oscilla intorno al 4010. Raggiunge d'un sol balzo 1'8,7% nel 1930, il 15,9% nel 1931 e supera il 20% nel periodo 1932-35. La flessione si attenua nel 1936 (16,9%), ma nel 1938 la disoccupazione è di nuovo al 19 per cento. Per il periodo precedente la prima guerra mondiale, non sono disponibili dati relativi all'utilizzazione delle capacità produttive, lo sono invece per il periodo 1929-34. Nel 1929 l'utilizzazione delle capacità produttive è pari a 83. Nel 1930 a 66. Si ritorna a quota 83 nel 1932, ma nel 1933 si è a quota 60. Si supererà quota 80 soltanto a partire dal 1950. (I dati indicati sono stati tratti da "Il Capitale monopolistico" di Baran e Sweezy e si riferiscono agli Stati Uniti d'America).

Da essi si rileva un andamento ciclico del processo economico in cui si colgono due fasi: una ascendente che coincide con i periodi post-bellici ed un altra discendente che si conclude con l'esplosione dei conflitti. Sulla base dell'esperienza passata e dell'andamento dell'attuale ciclo economico possiamo affermare di trovarci, oggi, nel pieno di una fase discendente del ciclo di accumulazione avviatosi con la chiusura della 2a guerra mondiale ed esauritosi sul finire degli anni 60. Anche in questo periodo, come dimostrano i dati di seguito indicati, si coglie nettamente l'inversione di tendenza dopo una fase di espansione seguita alla 2a guerra mondiale. I dati si riferiscono sempre agli Stati Uniti, ma tenuto conto che si tratta del maggior centro imperialistico del mondo, assumono valore probante per l'intera economia mondiale. Fatto il 1950 base 100, abbiamo per l'occupazione e per l'utilizzazione delle forze produttive i seguenti indici:

Anno Utilizzo capacità produttiva Disoccupazione in percentuale
1951 103 3,7
1952 99 2,7
1953 98 2,5
1954 87 5
1955 92 4
1958 76 5,8
1959 81 5,5
Tabella1 - Indici dell'utilizzazione della capacità produttiva e della disoccupazione

Dal 1959 al 1963 l'utilizzazione delle forze produttive è rimasta mediamente pari ad 82 e la disoccupazione pari al 6%. A partire dal 1970 l'utilizzazione delle capacità produttive non ha più superato l'indice 70 e la disoccupazione è andata crescendo fino agli attuali 15 milioni, pari a circa il 12 per cento della forza-lavoro disponibile.

Paese Media 1962-73 1972 1973 1974 1975 1976 1977
USA 4,6 5,6 4,7 5,4 8,3 7,5 6,9
Germania 0,6 1,0 0,9 1,5 3,6 3,6 3,6
Italia 3,5 4,0 3,7 3,1 3,6 6,1 7,5
G.B. 3,1 3,4 2,8 2,9 4,4 6,4 6,9
Francia 2,2 2,3 2,6 2,7 4,1 4,6 5,2
Giappone 1,4 1,4 1,3 1,4 2,0 2,1 2,1
Olanda 2,7 2,4 2,4 3,0 4,2 4,6 4,9
Svezia 2,1 2,7 2,5 2,0 1,6 1,6 1,8
Belgio 4,5 2,2 2,2 2,4 4,2 5,6 6,6
Svizzera 0,0 0,0 0,0 0,0 0,3 0,7 n.d.
Tabella 2 - Tassi di disoccupazione (percentuali sul totale della disoccupazione attiva) - Avvertenze: Le serie sono omogeneizzate dall'OCSE secondo definizioni internazionali. Il dato del 1977 per Belgio e Olanda è tratto dalle serie nazionali (rispettivamente percentuale dei disoccupati registrati non aggiustata stagionalmente e percentuale della forza lavoro dipendente). In Italia inizia una nuova serie nel 1976 i cui dati non sono confrontabili con quelli della serie precedente. Fonte: OCSE 1231.

La linea di tendenza è chiara: non siamo in presenza di una crisi congiunturale che possa risolversi in un arco di tempo più o meno lungo, ma in presenza di una crisi economica permanente il cui epilogo non potrà essere che un nuovo conflitto mondiale. D'altra parte le stesse risposte che il capitalismo ha dato fin qui alla crisi mostrano che si tratta di tentativi per arginare la caduta del saggio medio del profitto, di tentativi, cioè, miranti ad attenuare le conseguenze di una delle contraddizioni strutturali più caratteristiche del sistema. Il capitalismo monopolistico non ha fatto altro, a livello mondiale, che accentuare l'appropriazione parassitaria di plusvalore.

Manifestazioni e conseguenze della crisi

Le prime manifestazioni della crisi agli inizi degli anni settanta, furono vere e proprie bufere sui mercati finanziari internazionali. Nel 1972 il periodico succedersi di esse indusse il governo Nixon a rompere gli accordi di Bretton-Woods che regolavano gli scambi internazionali e le relazioni di cambio fra le diverse monete del blocco occidentale. La denuncia degli accordi che ammettevano la convertibilità del dollaro in oro ad una parità prestabilita, giunse a seguito d'emissioni di dollari oltre la parità stessa. In pratica gli Stati Uniti emisero, per un certo periodo di tempo, dollari senza copertura. Con questo sistema essi riuscirono a scaricare sull'intero blocco occidentale la propria crisi. Quando la massa di dollari in circolazione assunse le dimensioni di una valanga, i possessori di capitale-finanziario in dollari iniziarono a chiedere la conversione in oro secondo la parità fissata. Ma poiché l'emissione era avvenuta senza la prevista copertura, gli Stati Uniti, se avessero tenuto fede agli accordi di Bretton-Woods, avrebbero dovuto dichiarare fallimento. Dichiararono invece l'inconvertibilità del dollaro. Da allora, nonostante numerosi tentativi, quel regime di cambi fissi che Bretton-Woods aveva consentito e che era il segno della stabilità economica, non è più stato ristabilito e le crisi finanziarie si succedono interessando alternativamente quasi tutte le monete dei maggiori paesi. Gli economisti e gli intellettuali borghesi hanno elaborato, da allora, decine e decine di progetti, ma essi sono risultati tutti evanescenti. E non poteva essere diversamente. Questo perché le loro analisi non coglievano la causa vera della crisi, ma si limitavano a coglierne i fenomeni di superficie.

Perché, dopo anni di stabilità monetaria, i mercati dei cambi furono, e tuttora sono, sottoposti a queste tempeste monetarie?

Fatto uguale a 100 l'indice dei profitti industriali nel 1962, esso risulta pari a 144 nel 1960 e a 83 nel '70, per scendere a meno di 80 nel '71. A partire dalla seconda metà degli anni sessanta il profitto industriale anziché crescere ha iniziato a diminuire. La risposta del capitale finanziario a questa tendenza non poteva che essere l'accentuazione delle attività volte ad incrementare l'extra-profitto. Fra queste, inevitabilmente, la speculazione sui cambi. Gli Stati Uniti, emettendo dollari senza rispettare le parità prefissate, in realtà altro non facevano che pagare merci e servizi, prodotti altrove, con moneta svalutata e quindi meno di quanto avrebbero dovuto. In pratica essi si appropriavano, mediante un'attività manifestamente speculativa, di plusvalore prodotto da altri sistemi produttivi, con cui compensare la diminuzione dei profitti provenienti dalle attività direttamente produttive.

Dal mercato dei cambi la speculazione si è, via via, estesa praticamente a tutte le attività economiche e commerciali. La crisi petrolifera del 1973 è stata la più colossale operazione speculativa che il grande capitale monopolistico abbia attuato in tutta la sua storia. Il mercato del petrolio, come è noto, è nelle mani di un numero ristretto di multinazionali. Il prezzo del petrolio alla produzione è rimasto praticamente invariato per oltre venti anni e ancora oggi, se confrontato a prezzi costanti, l'incremento (alla produzione, rispetto al 1950) è del tutto irrisorio mentre, effettivamente, a partire dal 1973, sui mercati internazionali il suo prezzo è cresciuto vertiginosamente. Cioè, mentre i paesi produttori hanno a mala pena difeso il prezzo del 1950, quelli consumatori lo hanno pagato anche 30-40 volte in più. Trattandosi di una materia prima fondamentale nella moderna società industriale, e consumata pressoché sotto tutte le latitudini, ci si rende conto della dimensione della speculazione che è stata condotta dalle multinazionali petrolifere. Nel 1978, anno nero per l'industria mondiale, le più grandi compagnie del settore, che sono anche le multinazionali più potenti, registrarono incrementi medi dei loro profitti dell'80%, con punte del 150% (Exxon).

La divaricazione tra profitti industriali ed extra-profitti si è cristallizzata, inoltre, negli elevatissimi tassi di interesse praticati dalle banche sui mercati finanziari internazionali. Capo-fila della politica degli alti tassi sono ancora gli Stati Uniti, ovvero la maggiore concentrazione monopolistica del mondo. Essendo il dollaro la più importante moneta internazionale ed avendo gli USA nel frattempo recuperato, rispetto al 1972, competitività e quindi ridotto le loro importazioni, hanno ridotto anche la quantità di dollari in circolazione, aumentando i tassi d'interesse. Poiché le transazioni commerciali sul mercato mondiale avvengono in gran parte in dollari, è come se fosse stata imposta una gabella sulla maggior parte delle attività economiche internazionali di cui beneficia il grande capitale finanziario. Creandosi un'area dove il capitale finanziario è remunerato così abbondantemente, in mancanza di un adeguamento da parte dei sistemi comunicanti, si avrebbero fughe enormi di capitale finanziario verso l'area più remunerativa. Da qui l'estensione della politica degli alti tassi a tutto il mondo che sta letteralmente strozzando le imprese che non hanno il supporto di strutture di autofinanziamento come le grandi imprese monopolistiche. In Italia, secondo quanto dichiarato dal presidente della Confindustria, Merloni, negli ultimi tre anni, la divaricazione fra tassi attivi e passivi praticati dalle banche è cresciuta del 70-80%. Come dire che: se prima le banche per ogni lira raccolta pagandone una, prestandola ne ottenevano tre, oggi ne ottengono 24.

La conseguenza più drammatica e vistosa determinata dal sommarsi delle attività speculative è l'inflazione. Ad essa dedichiamo una più particolareggiata analisi a parte, data l'attualità e l'importanza dei problemi che ad essa si collegano. Qui ci interessa sottolineare come l'attività parassitaria, sotto la spinta della crisi, si sia allargata a dismisura con effetti dirompenti sull'assetto nazionale ed internazionale dell'economia capitalistica.

Il monopolio, che è lo strumento che per eccellenza ha consentito al capitalismo il contenimento della caduta del saggio medio del profitto, esaurita la fase dell'espansione iniziale, ripropone la contraddizione fondamentale del processo di accumulazione del capitale in una dimensione nuova e senza alternative poiché oltre il monopolio (monopolistico è anche il capitalismo di Stato) non vi può essere che il socialismo o un lento ma inesorabile declino dell'intera società. La ricerca dell'extra-profitto è stata per un certo periodo di tempo lo strumento che ha consentito di contenere, nell'ambito dei rapporti di produzione borghesi, il poderoso sviluppo delle forze produttive dell'ultimo secolo, ma queste, sviluppandosi, hanno anche imposto la generalizzazione del monopolio che alla fine ha generato un tessuto economico dove l'acquisizione di extra-profitto si è resa sempre più difficoltosa. La ricomposizione del campo di raccolta del plusvalore che, periodicamente, si rende necessaria, passa, ormai, solo attraverso la sistematica distruzione delle forze produttive eccedenti.

La ristrutturazione dell'apparato produttivo

Perché vi possa essere appropriazione di plusvalore, anche se parassitaria, è necessario che, comunque, esso venga estorto. Il meccanismo di appropriazione monopolistica ha avuto successo per tutta una fase storica, perché ad esso, comunque, si è accompagnata la crescita vertiginosa della produttività del lavoro, insieme all'espansione della base produttiva. Anzi, possiamo dire che non avremmo avuto la grande industria e la produzione su vasta scala senza il capitalismo monopolistico. La moderna industria non si sarebbe mai sviluppata permanendo il tessuto economico liberoscambista. Per la grande impresa monopolistica accrescere la produttività del lavoro è vitale. Soltanto producendo merci più competitive essa può compensare i suoi saggi di profitto tendenzialmente più bassi. La crisi, dunque, non poteva non accelerare le spinte verso un accrescimento della produttività del lavoro. Ma qui si è subito manifestata la prima grande differenza fra l'attuale crisi e quelle analoghe degli anni trenta, degli ultimi anni del secolo scorso e i primi di questo. Sia la prima che la seconda crisi giunsero in uno stadio dello sviluppo delle forze produttive del tutto particolare. Vi erano settori nascenti (quello chimico e quello automobilistico) che faticavano a decollare in un contesto economico dominato ancora dall'impresa piccola e media. Le due crisi, accelerando la concentrazione, ne favorirono lo sviluppo e con esso lo sviluppo di tutte le attività industriali. Le grandi emigrazioni di lavoratori dei primi del '900 e fino a tutti gli anni sessanta dai luoghi dove era predominante l'economia agricola verso le grandi metropoli industrializzate, danno la misura di quanto imponente sia stato questo sviluppo, se si tiene conto anche che in alcuni settori, negli ultimi 70 anni, si sono verificate crescite di produttività da 1 a 2000, e la giornata lavorativa si è ridotta mediamente, rispetto alla fine del secolo scorso e i primi del novecento, di sole 6 ore circa, dove l'ultima riduzione da 48 a 40 ore settimanali ha avuto luogo in modo compiuto meno di 10 anni fa. Il capitalismo ha vissuto sì le due crisi precedenti in modo drammatico, ma aveva di fronte a sé ancora margini sufficientemente ampi in cui ipotizzare un ulteriore sviluppo se pure in un quadro generale di decadenza.

La rincorsa alla produttività oggi si colloca invece in un quadro tecnologico del tutto differente. All'orizzonte non ci sono settori assolutamente nuovi con un potenziale espansivo. L'elettronica e l'informatica che ne deriva, costituiscono, senza dubbio, la base di una nuova rivoluzione industriale, ma soltanto se si ipotizza il definitivo riconoscimento del loro carattere sociale, altrimenti potranno essere solo il più sofisticato strumento della più feroce dittatura che mai nella storia dell'uomo sia stata esercitata da una classe su un'altra. Il fatto è che la ristrutturazione produttiva in atto è ristrutturazione sostitutiva di manodopera senza possibilità di riassorbimento. Lo stadio dello sviluppo tecnologico è ormai quello della completa automazione e la ristrutturazione non può aver luogo che sulla base di ciò. Ne sta venendo fuori una nuova organizzazione, una nuova divisione internazionale del lavoro.

All'interno delle fabbriche più avanzate, la tradizionale catena di montaggio sta lasciando il posto all'organizzazione per gruppi omogenei. Il gruppo composto da pochi operai è completamente isolato dagli altri. Il processo produttivo è posto sotto il controllo di elaboratori elettronici ed ogni gruppo è collegato elettronicamente all'elaboratore centrale. Da questo prende ordine e direttive. Il vero interlocutore del gruppo è una macchina. La macchina a sua volta funziona sotto il controllo di un numero ristretto di tecnici che però restano completamente distaccati dalla base operaia. La tradizionale gerarchia di fabbrica è saltata. Il movimento cosiddetto dei "capi" esploso due anni fa in seguito alla lunga vertenza Fiat è in fondo il prodotto di questa nuova realtà organizzativa.

Il nuovo processo produttivo ha lentamente esautorato tutta la fascia di tecnici intermedi e reso inutili i capi addetti alla catena; la mancanza di una denuncia politica chiara della nuova realtà di fabbrica e la complicità criminale dei sindacati hanno impedito che queste stratificazioni di aristocrazia operaia in fabbrica potessero prendere coscienza del loro destino. La loro frustrazione è stata inevitabilmente utilizzata dalla borghesia ed indirizzata contro le masse operaie "anarchiche" e "ribelli" ad ogni disciplina.

I sindacati sono stati e sono i veri protagonisti di questa fase della ristrutturazione. Le parole d'ordine del capitale si sono cristallizzate nelle piattaforme rivendicative, tutte impostate sul discorso della professionalità. Ma il riconoscimento della professionalità non è altro che il riconoscimento della dequalificazione e della nuova divisione del lavoro che separa definitivamente l'operaio da ogni legame con il processo produttivo e lo riduce ancora e più di prima a pura appendice della macchina. Si ha così un duplice movimento: da una parte si riducono le categorie e le divisioni interne alla fabbrica ma dall'altra gli operai vengono divisi tra loro mediante la dispersione in piccoli gruppi. L'aggregazione e l'indispensabile unità dei lavoratori ne esce dunque ancora più frantumata, anche se si intravvedono nuove possibilità di una maggiore sintesi politica delle istanze economiche della classe. Più in generale dalla ristrutturazione sta venendo fuori non il predominio dell'aristocrazia operaia come tanti intellettuali pseudorivoluzionari hanno sostenuto, bensì un'accelerazione del processo di proletarizzazione della società, con la distruzione di vasti strati di piccola borghesia.

La piccola borghesia impiegatizia, in modo particolare, data l'automazione del terziario, è destinata a perdere qualunque legame con la base produttiva e perciò ad essere soggetta ancora di più ad oscillazioni e sbandamenti; l'esperienza della Fiat dimostra che se il proletariato non riuscirà a costituire un forte polo d'attrazione nei loro confronti, queste stratificazioni sociali costituiranno l'esercito della moderna Vandea.

La dequalificazione crescente e l'instabilità del ciclo economico stanno inoltre profondamente modificando il mercato della forza-lavoro. Nel processo produttivo occorre una ristretta fascia di tecnici addetti alla fase della programmazione del controllo centralizzato e una manodopera poco qualificata che assiste il robot mentre svolge il suo lavoro e compie i lavori non automatizzatili, che sono, con l'introduzione del microprocessore, divenuti pochissimi e quasi tutti sussidiari. Inoltre serve manodopera per la manutenzione. Anche qui però non è come comunemente si crede: accanto a pochi tecnici altamente specializzati, operano gruppi di operai che compiono il lavoro di manutenzione mediante apparecchiature dall'uso estremamente semplice. La manodopera è dunque facilmente intercambiabile e perciò più debole nel suo potere contrattuale.

L'instabilità del ciclo economico ha reso inoltre sempre più importante la possibilità per il capitale di liberarsi delle eccedenze di manodopera ogni qual volta la congiuntura è sfavorevole. Finora si è fatto ricorso alla C.I.G. ed ai licenziamenti di massa. Ora si va delineando invece, la costituzione di un mercato del lavoro assolutamente nuovo. Il grande esercito di operai disoccupati o in cerca di una prima occupazione, espulso dalla fabbrica, verrà assegnato a un'agenzia del lavoro gestita dallo Stato e dai sindacati. Il salario sarà costituito da una parte fissa (salario minimo) e da una parte lega-ta alla produttività (la più consistente). L'operaio non utilizzato prende sempre la parte minima che perde però se dovesse rifiutare, nell'ambito di certe regolamentazioni, il lavoro che gli propone l'agenzia. I lavoratori possono dunque lavorare ora in una fabbrica ora nell'altra. La loro controparte, però è, di fatto, l'agenzia che essendo gestita dai sindacati è anche quella che stipula i contratti di lavoro. La dipendenza di questa forza-lavoro dai sindacati sarà totale. Un simile mercato del lavoro indebolisce enormemente il proletariato e rafforza il sindacato come strumento per l'esercizio della dittatura borghese sui luoghi di lavoro. Ma fornisce anche i presupposti obiettivi per una nuova conflittualità contro il sindacato, allargandola dalla fabbrica al territorio, dal microcosmo del gruppo omogeneo al macrocosmo della società. Non tenerne conto potrebbe comportare un errore di capitale importanza per i futuri sviluppi della lotta di classe.

Ma fino a che punto il capitalismo può spingersi su questa strada? La ristrutturazione indubbiamente innalza la produttività e agevola per certi versi l'esercizio della dittatura del capitale, ma apre anche contraddizioni che tutte insieme possono costituire una miscela veramente esplosiva. Il bilancio della prima fase del processo di ristrutturazione ha prodotto, secondo i dati del F.M.I., 30 milioni di disoccupati nel solo mondo occidentale. Senza che vi sia stato un crollo delle dimensioni del 1929, ci stiamo avvicinando ad una disoccupazione di dimensioni pari a quella degli anni trenta che raggiunse, sempre nel mondo occidentale, i 40 milioni. Secondo previsioni del C.N.R., nel 1985, quando il processo di ristrutturazione sarà stato portato a compimento, il settore industriale perderà il 30% degli attuali posti di lavoro ed il terziario, che avrebbe dovuto, secondo molti intellettuali ed economisti, assorbire la manodopera espulsa dall'industria, perderà nel settore dei servizi, 5 posti di lavoro su 6. Si tratta di una massa enorme di senza lavoro che si aggiungerà a quella già esistente.

Sempre secondo il C.N.R. anche la prevista riduzione dell'orario di lavoro a 36 ore settimanali non potrà costituire una base del riassorbimento, perché la tendenza all'espulsione della forza-lavoro è connaturata alle nuove tecnologie produttive fino al punto che anche la riduzione dell'orario di lavoro, effettuata assecondando il ciclo di produzione, potrà produrre, anziché un aumento dell'occupazione, un'ulteriore riduzione conseguente ad una crescita della produttività dovuta alla possibilità di ridurre ed eliminare (data l'organizzazione per gruppi e l'automazione delle lavorazioni), pause e buchi necessari nelle attuali 40 ore settimanali. L'irreversibilità della tendenza alla crescita della disoccupazione è confermata anche dal fatto che essa cresce quando il ciclo congiunturale è favorevole. In Italia nel 1980, a fronte di una crescita del 5% del P.N.L. si ebbe una diminuzione di 250.000 occupati. Al di là delle considerazioni relative alle tensioni di ordine sociale che la disoccupazione di tali dimensioni innesca, va sottolineata la contraddizione che si è aperta tra il fine che il capitale persegue e gli obiettivi che raggiunge. L'aumento della produttività è ricercato per produrre merci più competitive, ma questa maggiore competitività anziché allargare il mercato lo riduce poiché esso passa attraverso l'espulsione di manodopera dal processo produttivo ovvero di quelle masse di lavoratori che costituiscono in definitiva la parte più consistente della domanda complessiva di merci.

L'eccedenza di merci e in definitiva di capitali, che ne consegue, spinge inevitabilmente alla ricerca di sbocchi verso l'estero. Ma anche qui le cose si sono terribilmente complicate. I maggiori paesi industrializzati, trovandosi più o meno tutti nella medesima situazione, sono spinti all'adozione di misure protezionistiche che limitano il commercio internazionale. La concorrenza internazionale quindi, si inasprisce, ma inasprendosi spinge ancora verso la ricerca di aumenti di produttività, in un circolo vizioso fino ad oggi senza sbocchi, tanto più se si tiene conto che questa frenetica rincorsa ha letteralmente messo in ginocchio i paesi più poveri. La corsa alla competitività sta spingendo infatti, le grandi concentrazioni industriali a percorrere fino in fondo la strada della ricerca della riduzione dei costi di produzione e quindi ad incrementare quelle economie di scala che appunto favoriscono la grande industria rispetto alla piccola e media. Ma in una fase già di elevata concentrazione dei mezzi di produzione, tale ulteriore spinta alla concentrazione ha assunto dimensioni che travalicano i confini nazionali. Stanno nascendo processi produttivi integrati a livello continentale che vedono coinvolti i maggiori gruppi industriali del mondo. Per rimanere in Italia basti ricordare gli accordi Fiat-Peugeot, Alfa-Nissan e Fiat-Alfa.

Il primo di questi accordi che è anche il più significativo, prevede la costruzione di una grande fabbrica di motori che utilizzerà, ovviamente, tutte le più avanzate tecnologie. Le economie di scala di un simile raggruppamento sono enormi. Esso in pratica consente (per il momento solo per alcuni modelli) di eliminare intere fabbriche divenute di conseguenza obsolete. Questa integrazione internazionale dei processi produttivi, porta però inevitabilmente, ad approfondire il distacco fra le metropoli capitalistiche e la loro periferia. Tutti i paesi, anche industrializzati, che non riescono a tenere il passo con simili colossi, sono ineluttabilmente destinati al fallimento. I paesi poveri ovviamente sono ancora più esposti perché, essendo privi di una struttura industriale avanzata, non possono neppure immaginare una sua ristrutturazione, ma così facendo essi sono costretti a cedere in cambio di mezzi e dei capitali provenienti dalle metropoli, più merci da loro prodotte con i vecchi sistemi, o più materie prime. Ma il loro ulteriore impoverimento, oltre a tradursi in morte per fame per milioni e milioni di uomini, ormai si ritorce contro la stessa area metropolitana. Il caso clamoroso del Messico ridotto ormai a chiedere prestiti soltanto per pagare gli interessi sui debiti contratti in precedenza non è un'eccezione, ma sarà anche il prossimo inevitabile approdo di molti altri paesi del terzo e del quarto mondo, e anche di quei paesi semi-industrializzati o di recente industrializzazione (ad esempio la Polonia) che non saranno in grado di reggere il passo. Ma il loro fallimento segnerà anche il culmine della crisi a livello mondiale, perché implicherà un ulteriore restringimento del mercato. D'altra parte come interpretare i numerosi conflitti locali che si accendono quotidianamente in ogni angolo del mondo fino all'immediata periferia delle grandi metropoli se non come una sorta di guerra imperialistica permanente dove i paesi poveri non avendo null'altro da dare al grande capitale monopolistico internazionale che uomini affamati, prestano le braccia per quella distruzione sistematica di forze produttive di cui il capitalismo ha fisiologicamente bisogno? Essi combattono quasi sempre nell'illusione della conquista di una indipendenza o di una maggiore autonomia, ma in realtà sono null'altro che strumenti ciechi dell'occhiuta rapina che il capitale perpetua quotidianamente contro il mondo del lavoro.

Le prospettive della crisi

Sin dal primo manifestarsi della crisi economica mondiale, il nostro partito ha sostenuto che lo sbocco era obbligato. L'alternativa che si pone è netta: o il superamento borghese della crisi tramite la guerra mondiale verso un capitalismo monopolistico ulteriormente accentrato nelle mani di pochi gruppi di potere, o la rivoluzione proletaria. Oggi siamo alla verifica di questa tesi che ci ha caratterizzato e distinto nel corso di questo decennio. La restrizione del mercato alimenta quotidianamente tensioni anche fra i paesi più avanzati dei due maggiori blocchi imperialistici. Tutte le aree strategiche sono interessate da guerre che in ogni momento possono estendersi ed allargarsi. L'idea stessa della inevitabilità della guerra sta lentamente maturando anche nelle grandi masse. Certo, non è questione di ore e neppure di giorni. La borghesia internazionale giustifica la corsa agli armamenti come necessaria per il mantenimento di quell'equilibrio del terrore considerato indispensabile per la pace e beatifica la bomba atomica come l'arma il cui potere distruttivo è talmente grande da scoraggiare la guerra. Anche in passato altre armi hanno fatto dire le stesse cose. Ebbene è capitato che non siano state usate, ma mai una guerra è stata evitata.

Il pacifismo piccolo borghese ed in particolar modo il PCI alimenta l'illusione di un'Europa neutrale che possa porsi come capofila di un nuovo blocco. L'Europa, presa nel suo insieme, costituisce l'area più industrializzata del mondo. Il suo potenziale produttivo e tecnologico è sullo stesso livello di quello statunitense e certamente superiore a quello russo. Non è un caso che le guerre commerciali più virulente di questi ultimi anni abbiano interessato proprio USA ed Europa tanto da stimolare ipotesi di uno scontro anche militare tra loro. Ma in realtà l'Europa, nonostante tutto, non è e non può diventare la capofila di un nuovo blocco imperialista se mai agganciato con paesi produttori di materie prime che ad essa mancano. Essa è interessata in un blocco imperialistico che costituisce comunque un tutt'uno. Sia dal punto di vista produttivo che da quello militare è organizzata nell'ambito del blocco occidentale. L'eventuale distacco di uno o più paesi europei dal blocco di appartenenza potrebbe significare la rottura di tutti gli equilibri imperialistici in atto ma questa ipotesi non esclude affatto la guerra ma significherebbe solo il suo inizio. L'Europa in blocco è ancora una volta destinata ad essere comunque il grande teatro del confino che si prepara. Tocca ancora al proletariato europeo il ruolo decisivo.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.