Post-fordismo e vecchio riformismo

Premessa

Le ragioni dell'indubbio successo del libro di Alani Bihr "Dall'assalto al cielo all'alternativa" presso una certa sinistra che va da alcune frange periferiche di Rifondazione comunista sino all'arcipelago libertario passando per l'Autonomia, risiedono nella più totale confusione nella quale versa il movimento operaio internazionale dopo il plateale crollo dell'Urss e dei paesi del socialismo reale.

Non che la già precaria immagine del "socialismo" sovietico dovesse attendere il totale fallimento per innescare un processo di rilettura delle cause economiche e politiche che l’hanno prodotto, ma è certo che la sua epocale scomparsa ha rappresentato uno straordinario elemento di accelerazione. Purtroppo il condizionamento politico e ideologico quasi cinquantennale in cui è stato calato il movimento proletario internazionale grazie alla profonda e devastante opera controrivoluzionaria dello stalinismo e della neo socialdemocrazia, dal crollo del capitalismo di stato contrabbandato per socialismo, non poteva che nascere un anti stalinismo di destra e una ripresa delle tesi idealistiche pre e anti marxiste, anche se, come nel caso di Bihr, il marxismo e il programma comunista rimangono aleatoriamente presenti.

Il nostro commento ha l'obiettivo di non consentire che, dopo il crollo ideologico dello stalinismo e nel bel mezzo di una confusione ideologica che raramente trova riscontri nella storia operaia dei decenni procedenti, posizioni politiche pre marxiste, idealistiche e radical riformistiche possano rientrare nel bagaglio ideologico del proletariato proprio nel momento in cui c'è bisogno della massima chiarezza sulle ragioni della crisi del movimento operaio, sulle modificazioni intervenute all'interno dei rapporti di produzione capitalistici e sulle prospettive della ripresa della lotta di classe nei paesi ad alta industrializzazione.

Schematicamente il lavoro si compone di tre parti. La prima comprende la critica della esperienza socialdemocratica del movimento operaio, sia nella versione riformista che in quella rivoluzionaria. L'aspetto critico si accentra sullo statalismo, ovvero sulla visione strategica della conquista dello stato come fattore prioritario per la trasformazione economica e politica della società, comune, secondo l'autore, alle due esperienze socialdemocratiche, attribuendo alla prima l'errore della conquista graduale e progressiva della "macchina"stato, alla seconda di commettere lo stesso errore ma partendo da una prospettiva rivoluzionaria, ovvero di raggiungere lo stesso falso obiettivo, con la forza espressa dalla lotta di classe. Critica che, come vedremo più avanti, oltre che partire da una premessa idealistica già ampiamente battuta dal marxismo sin dall'epoca della Comune di Parigi, si articola sulla base di un gravissimo errore, quello di ritenere che l'anima rivoluzionaria della socialdemocrazia, il bolscevismo, avesse come obiettivo strategico la conquista dello stato, e che la differenza che lo separava dal riformismo risiedesse soltanto nel modo delle conquista dello stato. Errore così macroscopico da ingenerare il sospetto che non si tratti di cattiva lettura del programma bolscevico né di una colossale svista, ma di una vera e propria mistificazione.

La seconda parte analizza le cause economiche della fine del sistema fordista, la scomposizione sociale della classe proletaria, la crisi di identità e politica del movimento operaio europeo. In questo caso l'analisi è rigorosa e puntuale. È giustamente messo in risalto il ruolo della caduta tendenziale del saggio medio del profitto. L'esasperazione di tutte le contraddizioni del capitalismo. La natura strutturale della disoccupazione e il feroce attacco allo stato sociale e al salario operaio. Il decentramento produttivo e la fase della globalizzazione. Stranamente non si fa assolutamente cenno all'aspetto soggettivo o ideologico della crisi del movimento operaio. Lo stalinismo, i suoi "ismi" di destra e di sinistra, il ruolo dei vari partiti comunisti dal secondo dopo guerra in avanti non hanno trovato il benché minimo spazio. Ne c'è menzione sulla esperienza dell'Urss, del suo percorso controrivoluzionario e della pesante eredità che ancora oggi il movimento operaio internazionale è costretto a subire in termini di confusione e mistificazione. La risposta potrebbe risiedere nel fatto che, nell'immaginario politico di Bihr, lo statalismo dell'Urss, quale logica conseguenza dell'errore originario commesso dal bolscevismo, spiegherebbe da solo, sempre e comunque, qualsiasi sconfitta nel campo proletario. Non peritandosi di accennare alle cause interne e internazionali che hanno prodotto il fallimento dell'unica esperienza rivoluzionaria mondiale.

La terza parte, quella politicamente più pregnante, riguarda il problema dell'alternativa. Secondo l'autore, il comunismo, o un tipo di organizzazione sociale che abbia caratteristiche molto simili, si dovrebbe cominciare a costruire sin da adesso all'interno dei rapporti di produzione capitalistici. "Hic et nunc" è lo slogan che attraversa tutta l'ultima parte del lavoro. Non si dovrebbe più attendere la rivoluzione sociale come il presupposto da cui partire per la costruzione della futura società, ma questa deve cominciare a essere costruita a partire dall'immediato rivendicando e imponendo una serie di conquiste che vanno dalla diminuzione dell'orario di lavoro al contropotere politico organizzativo sino al creare progressivamente le condizioni per un diverso modo di organizzare la produzione e la distribuzione della ricchezza.

L'operazione, peraltro non nuova, consiste nel prendere una serie di punti, che sono da sempre alla base del programma comunista, di collocarli all'interno della società capitalistica dichiarandoli perseguibili e quindi ottenibili, contro, ma dentro i meccanismi di valorizzazione del capitale, in una sorta di rivisitazione di vecchie utopie che avrebbero la pretesa di presentarsi come la migliore e più moderna ricetta per fare uscire il movimento operaio dalla sua attuale crisi, indicandogli la strada del comunismo versione anni duemila. Da sempre questi percorsi si sono chiamati riformismo, comunque si presentassero o sotto qualunque veste ideologica operassero. La tragedia consiste proprio nel fatto che una simile riproposizione di vecchie tattiche anti e controrivoluzionarie, che fanno parte a tutti gli effetti del bagaglio teorico e tattico del più retrivo riformismo, anche se in chiave radicale, sono salutate da una certa sinistra come la migliore e più aggiornata versione del comunismo.

Parte prima: la socialdemocrazia e lo stato

Secondo Bihr l'errore che il movimento operaio avrebbe commesso sin dai suoi esordi, sia nel campo riformista che in quello rivoluzionario, andrebbe ricercato nella sudditanza ideologica al feticismo dello stato inteso come la condizione senza la quale non ci sarebbe stata nessuna possibilità di creare le condizioni per il passaggio dalla società capitalistica a quella comunista, rinunciando così a percorrere altre strade che meglio e senza rischi di degenerazione avrebbero potuto portare al medesimo risultato. Normale per un anarco comunista prendersela con lo stato e con tutte le ideologie che lo presuppongono, meno normale l'opera di mistificazione che l'autore compie sul rapporto tra il ruolo dello stato borghese, lo stato di transizione, e la rivoluzione proletaria. Peggio ancora quando accomuna le due tendenze della socialdemocrazia sul progetto stato, attribuendo loro, indiscriminatamente, la stessa propensione politica ad agire con lo stesso stato, e differenziandole soltanto sul terreno della sua conquista.

Nell'operare una simile mistificazione l'autore parte da una premessa in parte errata, in parte falsa che avrà come logica conseguenza quella di arrivare a conclusioni che nulla hanno a che vedere con una corretta analisi del ruolo dello stato nella tradizione marxista e di celare le abissali differenze tra la scuola socialdemocratica in senso stretto, e quella bolscevica che proprio contro quella impostazione si è battuta sino a rompere con il socialismo riformista.

A pagina 18 del testo, a proposito della questione dello stato e dei differenti approcci all'interno della socialdemocrazia si legge:

L'esistenza e l'originalità del modello socialdemocratico risiedeva anzitutto in un curioso progetto consistente nel proporre al proletariato di emanciparsi dal capitalismo attraverso lo Stato emancipando lo Stato dal capitalismo. Questo progetto presupponeva che il proletariato potesse liberarsi dallo sfruttamento e dal dominio esercitato dal capitale conquistando ed esercitando il potere statale e strappando questo potere dalle mani della borghesia e dei suoi alleati politici... La società che si presumeva prodotto di questa rivoluzione politica (il socialismi) era dunque assimilata ad un processo più o meno radicalizzato di statalizzazione del capitalismo.

Per il momento, l'unico aspetto che meriti l'appellativo di "curioso" è che il progetto politico della conquista dello stato e della "statalizzazione" del capitalismo venga attribuito indifferentemente alle due versioni della socialdemocrazia, come se il feticcio dello stato borghese fosse il traguardo da raggiungere sia per i Bernstein, Adler e Turati, che per i Lenin e i Trotsky. La falsa argomentazione si esplicita un paragrafo più avanti quando fa la distinzione tra l'approccio riformista e quello rivoluzionario:

A partire da questa formulazione di base ritroviamo facilmente le due varianti del modello socialdemocratico del movimento operaio. La variante riformista o socialdemocratica nel senso che si dà correntemente a questo termine, la quale limitava le sue aspirazioni a delle "riforme di struttura" secondo la terminologia proposta poi da Henri de Man: nazionalizzazione dei monopoli industriali fondamentali, controllo più o meno diretto dei grandi gruppi finanziari, decentramento amministrativo... riduzione delle ineguaglianze sociali attraverso una democratizzazione dell'imposizione fiscale e dell'insegnamento, ecc... Di conseguenza le conquista del potere statale era obiettivo da perseguire per via legale (elettorale), mentre l'esercizio del potere rimaneva entro il quadro istituzionale borghese (parlamentare)... Il socialismo veniva via via ridotto a una semplice democratizzazione della società capitalistica, alla concretizzazione nella società civile dei diritti e degli ideali della democrazia politica da cui dovevano progressivamente derivare le riforme di struttura.

Tutto ciò è vero ma va ascritto solo ed esclusivamente alla politica riformista. In questa logica, non solo lo stato doveva essere conquistato pacificamente attraverso l'uso degli spazi democratici, non solo lo stato che si voleva conquistare era lo stato borghese così come la borghesia lo aveva modellato a uso e consumo dei suoi interessi economici e politici, ma le stesse conquiste sociali, economiche come le riforme di struttura, che sommandosi le une alle altre avrebbero cambiato qualitativamente la stessa organizzazione sociale in senso socialista, potevano essere raggiunte nel capitalismo. Una strana lotta contro il capitale rimanendo all'interno delle logiche di accumulazione del capitale stesso.

In questo senso le colpe del riformismo sono molto più gravi di quelle di aver ritenuto possibile l'emancipazione del proletariato attraverso la conquista pacifica dello stato. Innanzitutto perché cosi pensando ha misconosciuto il carattere classista della stato borghese. Questi, ben lungi dall'essere una entità al di sopra delle parti, è nato quale strumento politico di dominio della borghesia sul mondo del lavoro, quale mezzo indispensabile nella lotta di classe per mantenere l'ordine e sollecitare l'efficienza all'interno dei meccanismi di valorizzazione del capitale, e arma repressiva nel momento in cui il proletariato ritenesse agire autonomamente fuori e contro le leggi del capitale.

In secondo luogo, perché concependo in questi termini la natura dello stato borghese e derivandone una tattica di conquista pacifica, si collocava obiettivamente su di un terreno che non era solo politicamente falso, idealistico, rinunciatario nei confronti delle aspettative storiche della lotta di classe, ma controrivoluzionario, contribuendo non poco allo svilimento politico del proletariato internazionale.

In terzo luogo perché la via pacifica al socialismo, che lo si ammettesse o meno, presupponeva una coesistenza con le categorie economiche capitalistiche la cui potenza condizionatrice avrebbe comunque avuto la meglio sulle presunte capacità di riforme della utopia socialdemocratica.

Per ultimo, era fatale che si finisse con l'identificare il socialismo con la statalizzazione dei mezzi di produzione, come se il cambiamento di proprietà delle categorie economiche capitalistiche da privata a statale, potesse da sola caratterizzare il nuovo tipo di società che si andava vagheggiando.

In sintesi "l'errore" della socialdemocrazie non è stato quello di essere caduta nel tranello del feticcio stato, ma di aver fatto una analisi sbagliata dello stato borghese, di averne dedotto un utilizzo tattico assolutamente improponibile, di non aver minimamente pensato alla possibilità di uno stato proletario, di aver banalizzato il programma socialista riducendolo ad una riorganizzazione dei fattori economici del capitale, confondendo il socialismo con il capitalismo di stato e di aver abbandonato i termini antagonistici della lotta di classe passando sul terreno controrivoluzionario, e quindi della conservazione borghese. Cosa che non si può assolutamente addebitare al bolscevismo. Ma per Bihr le cose non stanno in questi termini, sfoggiando una superficialità disarmante e una non conoscenza dei problemi e dei dibattiti storici in seno alla classe operaia internazionale, a pagina 19 continua nel suo esame della socialdemocrazia nei confronti del problema stato prendendo in esame la "variante" rivoluzionaria.

La variante rivoluzionaria (di cui il leninismo - più precisamente il bolscevismo - ha costituito la forma compiuta), puntava invece all'espropriazione della borghesia e dei suoi alleati (le altre classi possidenti) attraverso la statalizzazione dei mezzi di produzione e nella prospettiva di gettare le basi di uno sviluppo pianificato dell'apparato statale. A queste condizioni la conquista del potere statale supponeva una rottura violenta con le forme istituzionali della democrazia parlamentare.

Più avanti, nella stessa pagina, penultimo paragrafo, conclude ritornando al solito ritornello dell'identità delle due versioni della socialdemocrazia sul feticismo statalista con una stupefacente falsificazione dei termini della questione.

Non deve quindi sorprendere il loro comune feticismo dello stato, al di là del diverso rilievo che questo assume nell'una e nell'altra variante: quella riformista presenta lo Stato come organo neutro posto al di sopra delle classi, ovvero come strumento che si può mettere indifferentemente al servizio sia di una politica borghese che di una politica proletaria; quella rivoluzionaria riprende in un certo senso la stessa tesi, presentando lo Stato come trascendente ed in grado di sanare le contraddizioni riguardanti l'accumulazione del capitale (in particolare quella tra la crescente socializzazione della produzione e la proprietà privata dei mezzi di produzione). Nell'uno e nell'altro caso, la stretta connessione dello Stato al capitale, inteso come rapporto sociale, risulta misconosciuta; è inoltre occultato il ruolo che lo Stato svolge nella riproduzione di questo rapporto(dunque nel mantenimento dei rapporti capitalistici di sfruttamento e di dominio).

Il tutto va riletto almeno due volte perché ad una prima occhiata si ha l'impressione di aver letto male. Secondo le allucinazioni di Bihr, Lenin e compagni avrebbero avuto come programma nel corso della rivoluzione d'ottobre la conquista del potere statale e che solo l'atto di violenza rivoluzionaria li avrebbe distinti dal medesimo progetto dei riformisti. Niente di più falso. In Lenin (vedere al proposito "la dittatura del proletariato e il rinnegato Kautskj, "Stato e rivoluzione", "le tesi di Aprile" ecc.) non si parla mai di conquista dello stato borghese ma della sua distruzione. Per il leninismo, ieri come oggi, è ben presente il significato classista dello stato, l'impossibilità della sua conquista dall'interno delle istituzioni, ma soprattutto è forte la consapevolezza che la macchina statale borghese, proprio perché nata a immagine e somiglianza degli interessi del capitale, non potrà mai essere usata dal proletariato per la costruzione di una società senza classi , senza sfruttamento e senza il capitale e le sue ferree leggi. Anzi in Lenin, come in tutta la tradizione marxista, la necessità della rivoluzione risiedono proprio nella impossibilità di una graduale trasformazione delle categorie economiche del capitale, e dell'uso dello stato a questo fine. Di più, la differenza tra il riformismo socialdemocratico e il rivoluzionarismo leninista sta innanzitutto nel diverso modo di concepire il rapporto con lo stato borghese. Per il primo lo stato borghese e la sua graduale conquista rappresenterebbero la strada per l'emancipazione della classe lavoratrice, per il secondo non esiste nessuna possibilità di emancipazione se l'atto rivoluzionario non ha come primo, imprescindibile obiettivo, quello di abbattere lo stato borghese in qualunque veste si proponga, democratico, socialdemocratico, dittatoriale o militare. In nessun caso e in nessun modo è possibile accomunare le due esperienze e parlare di conquista del potere statale, se non attraverso una falsa quanto provocatoria operazione di mistificazione dei principi del leninismo quanto della esperienza della rivoluzione d'Ottobre che ha avuto proprio nell'atto della distruzione del governo socialdemocratico e riformista di Kerenskhj la realizzazione della prima parte del suo programma rivoluzionario.

La confusione e la mistificazione diventano assolute quando si cuce sul programma leninista o bolscevico l'obiettivo della statalizzazione dei mezzi di produzione al fine di pianificare l'economia. Anche in questo caso niente di più falso. Nella teoria come nella prassi leninista i passaggi obbligati per la creazione delle condizioni necessarie allo sviluppo socialista della società erano: la rivoluzione sociale, ovvero l'atto di violenza rivoluzionaria degli oppressi dal capitale contro il modo di produzione capitalistico, contro la classe borghese e i suoi alleati, la distruzione dello stato borghese, la sua sostituzione con uno stato proletario che avesse come primo imprescindibile compito quello di attuare la socializzazione dei mezzi di produzione.

Nessuno stato borghese, conquistato o riformato, sarebbe stato in grado di proporre, né tantomemo di realizzare, la socializzazione dei mezzi di produzione. Nella strategia comunista era chiara l'idea che nessuna riforma di "struttura" sarebbe stata possibile all'interno delle istituzioni politiche ed economiche dello stato borghese, da cui l'inevitabilità della rivoluzione proletaria, così come il nuovo stato proletario (la dittatura del proletariato) non avrebbe mosso un passo verso l'edificazione della società socialista, senza passare attraverso la socializzazione dei mezzi di produzione. La rivoluzione nasceva come necessario obiettivo strategico per l'impossibilità di dare una soluzione riformistica alla lotta di classe. La socializzazione dei mezzi di produzione, e non la loro statalizzazione, si poneva come obbligatorio atto del governo rivoluzionario di cancellazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, terra compresa, delle materie prime, delle vecchie categorie economiche capitalistiche, quali il capitale finanziario, la produzione di merci, la gestione del commercio interno ed estero. Mai e poi mai, una rivoluzione vittoriosa sul terreno politico, momentaneamente superiore in termini di rapporti di forza con l'avversario di classe ma ancora esposta alle possibili rivincite della borghesia, avrebbe potuto garantirsi da tutto questo e iniziare il complesso processo di trasformazione sociale senza dotarsi di un proprio stato, e senza che questo stato non operasse in tempi brevi e in termini radicali l'atto di espropriazione.

Solo a queste condizioni la dittatura del proletariato, lo stato di transizione, il semistato come lo chiamava Marx, ovvero lo strumento politico proletariato nato dalla rivoluzione, messa in atto la socializzazione dei mezzi di produzione, può procedere alla trasformazione in senso socialista dei meccanismi produttivi e della distribuzione della ricchezza, alla progressiva cancellazione delle classi sociali e alla sua stessa estinzione in quanto stato politico per lasciare il posto ad un meccanismo tecnico di amministrazione delle necessità sociali.

Che tutto ciò possa non piacere ad un autore di ispirazione libertaria è comprensibile, meno comprensibile è la mistificazione che si propone sul programma leninista a proposito della questione rivoluzione - stato - socializzazione, ridotta alla più banale formuletta, questa sì interamente socialdemocratica, basata sulla conquista dello stato e sulla statalizzazione dei mezzi di produzione.

Quello che lascia ulteriormente perplessi è che Bihr attribuisce al leninismo e all'esperienza rivoluzionaria dell'ottobre bolscevico ciò che è stato il frutto, in termini di teoria revisionista e di costruzione pratica del capitalismo di stato in URSS, della controrivoluzione stalinista senza nulla distinguere tra le due esperienze e senza mai menzionare la seconda. Come se lo stalinismo fosse figlio del leninismo, o che il capitalismo di stato sorto dall'impossibilità della creazione di una società socialista all'interno di un solo paese, peraltro ad economia arretrata ,senza che altre esperienze rivoluzionarie a scala internazionale si producessero e formassero un tutt'uno con quella sovietica, fosse la logica conseguenza della rivoluzione di Ottobre. Al "nostro" autore sfugge la nozione in base alla quale, accanto a un processo rivoluzionario vittorioso, con tanto di creazione di una stato proletario e della socializzazione dei mezzi di produzione, o la lotta di classe internazionale si arricchisce di altre esperienze rivoluzionarie, e allora il processo di trasformazione economico in senso socialista ha possibilità di successo, oppure qualsiasi rivoluzione, anche quella che si determina nel paese più avanzato ed economicamente forte, è destinata a fallire in tempi più o meno lunghi.

Nel primo caso la socializzazione dei mezzi di produzione, attuata e gestita dallo stato proletario, serve da base alla graduale scomparsa delle categorie economiche capitalistiche che per il mero fatto della rivoluzione politica non sono assolutamente scomparse. Il capitale cessa di essere il motore primo dell'economia. Il profitto smette di essere il punto di riferimento della produzione e il rapporto di sfruttamento tra il capitale e la forza lavoro viene progressivamente meno sino a scomparire. La produzione di merci lascia il posto alla produzione di beni e servizi atti a soddisfare le esigenze individuali e il soddisfacimento delle necessità sociali va gradatamente prendendo il posto del profitto e della valorizzazione del capitale.

Nel secondo caso la socializzazione dei mezzi di produzione, non potendo operare, per questioni di arretratezza economica interna e per l'isolamento da altre esperienze rivoluzionarie su scala internazionale, come precondizione e fattore agente della trasformazione economica in senso socialista, finisce per ridursi al suo mero atto giuridico: la statalizzazione dei mezzi di produzione.

Nel primo caso, il controllo sociale dei mezzi di produzione da parte delle istituzioni rivoluzionarie accompagna il processo di trasformazione, nel secondo, l'impossibilità della trasformazione economica in senso socialista riduce la socializzazione al possesso statale della produzione e delle sue categorie economiche che continuano a rimanere capitalistiche. Nell'Urss, arretrata economicamente e isolata da altre esperienze rivoluzionarie è avvenuto proprio questo. La socializzazione si è trasformata in statalizzazione. Mentre tutte le categorie economiche capitalistiche, dal capitale al profitto, dalla produzione di merci alla determinazione del loro prezzo, dal controllo dei salari alla commercializzazione del prodotto sociale si sono potenziate e sviluppate all'interno della pianificazione economica sotto il possesso e le direttive dello stato.

In altri termini Bihr ha confuso il programma comunista che è stato alla base della rivoluzione di ottobre con i risultati della controrivoluzione stalinista che hanno posto in essere il più grande equivoco storico: la confusione tra il comunismo, il suo programma e la realizzazione del capitalismo di stato contrabbandato per comunismo.

Nella storia successiva, quando il colosso sovietico, capitalista e imperialista, è uscito dalla seconda guerra mondiale come uno dei due grandi predatori internazionali, ha proposto e imposto ai paesi "fratelli" il suo modello come unico referente politico ed economico. Il capitalismo di stato di produzione russa, fraudolentemente spacciato per socialismo è stato alla base della nascita di altre esperienze "socialiste" che hanno fatto della statalizzazione dei mezzi di produzione, e quindi del capitalismo di stato, il principio fondante del presunto socialismo reale, sia in Europa che nel continente asiatico, Cina compresa.

Parte seconda: la crisi del fordismo

Nella seconda parte Bihr analizza la crisi del fordismo, inteso come il modo di produzione capitalistico che ha caratterizzato la vita economica dei paesi ad alta industrializzazione per almeno cinquant'anni, che è vissuto sul cosiddetto patto sociale tra il capitale e la forza lavoro, partendo giustamente dalle cause economiche che lo hanno provocato, per arrivare ad analizzare l'attuale crisi del movimento operaio e proponendo, infine, i percorsi e le strategie della ricomposizione di classe e delle future "conquiste comuniste".

L'autore colloca l'inizio della crisi del fordismo tra la fini degli anni 1960 e gli inizi degli anni 1970 alla fine cioè del grande ciclo di accumulazione che si era aperto con la fine della seconda guerra mondiale. Alla base di tale evento quattro sarebbero le cause principali:

  1. l'attenuazione degli incrementi di produttività;
  2. l'aumento della composizione organica del capitale:
  3. la saturazione dello standard sociale di consumo; ed infine,
  4. lo sviluppo del lavoro improduttivo.

Va subito detto che questa seconda parte del lavoro è certamente più organica e valida della prima, sia per quanto riguarda l'individuazione delle cause economiche della crisi del fordismo, sia per le loro conseguenze sul terreno della riorganizzazione del rapporto tra capitale e forza lavoro nella società post fordista, che per i durissimi colpi patiti dalla classe lavoratrice e in termini di disaggregazione e di compressione dei salari reali che di perdita del salario differito "grazie" al crollo dello stato sociale. Ciononostante si impongono un paio di rilievi.

Il primo riguarda il rapporto tra le quattro cause fondamentali della crisi del fordismo che per l'autore si collocano all'incirca sullo stesso piano, con una leggera prevalenza per la diminuzione della produttività sul finire degli anni sessanta, inizio settanta, e lo sviluppo del settore improduttivo. Comunque, come sostiene l'autore a pag. 62:

I quattro fattori appena descritti hanno provocato una riduzione del tasso medio del profitto...

creando le condizioni delle crisi economiche degli anni settanta e delle profonde ristrutturazioni degli anni ottanta e novanta.

Il fatto è che alla fine degli anni sessanta, prima negli Usa e Inghilterra e successivamente anche in Giappone e Germania, il saggio medio del profitto si era già ridotto del 35% circa rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. È stata questa diminuzione che ha corroso il sistema economico e le modalità di produzione su cui si basava il fordismo. La difficoltà di aumentare la produttività rimanendo all'interno degli schemi della ormai obsoleta catena di montaggio, della massificazione delle merci e della rigidità degli impianti produttivi ha certamente contribuito all'innesco della crisi del sistema produttivo, ma non ne è stata la causa. Così come non lo è stata l'inevitabile aumento dei costi di gestione della produzione o, andrebbe aggiunto, del mantenimento dello stato sociale, erano sempre meno compatibili o sopportabili da un sistema economico che procedeva a saggi del profitto sempre più bassi. Ciò che ha messo in crisi il sistema fordista, più o meno edulcorato dall'intervento dello stato nelle variegate forme keynesiane, non può essere attribuito alla presunta saturazione del mercato dei beni durevoli "automobile, abitazione familiare, attrezzature domestiche", né alla esplosione "del costo crescente della previdenza sociale”, ma dal fatto che, con margini del saggio medio del profitto progressivamente più bassi, era inevitabile che il sistema economico nel suo complesso soffrisse di una produttività troppo scarsa, ritenesse di dover diversificare i tradizionali beni di consumo durevoli e di prima necessità e che non potesse sopportare oltre il costo della spesa sociale in un momento in cui, i bassi profitti rendevano i meccanismi di valorizzazione del capitale più deboli.

Il secondo riguarda l'aspetto fenomenologico della crisi. Per Bihr, la dinamica della crisi si sarebbe espressa in questi termini cronologici e accompagnata da questi eventi.

In una prima fase, questa crisi rimaneva tuttavia latente. L'apparente continuità nella crescita lasciava intravedere però alcuni segni d'involuzione del regime di accumulazione: - un'accelerazione dell'inflazione, attraverso la quale le imprese tentavano di far pagare ai consumatori finali (dunque essenzialmente ai salariati) la progressione dei salari e dei profitti che il rallentamento degli incrementi di produttività non permetteva più di finanziare.

pag.63

A parte l'oscurità della frase, forse dovuta a una non felice traduzione, se ne deduce che l'inflazione in quel periodo sarebbe legata al rallentamento degli incrementi di produttività e che l'obiettivo sarebbe stato quello di far pagare agli operai la progressione dei salari attraverso un aumento dei prezzi dei beni di consumo. La circostanza è solo approssimativamente vera. Il fenomeno inflattivo che alla fine degli anni sessanta aveva raggiunto il livello dell'8-10% nei paesi ad alta industrializzazione, aveva alla sua radice il tentativo di recuperare attraverso i prezzi di monopolio, là dove la cosa si rendeva possibile sul mercato interno ed internazionale, non tanto e non solo il rallentamento degli incrementi della produttività o per contenere gli aumenti salariali, peraltro mai particolarmente intensi, quanto la diminuzione del saggio medio del profitto dovuta all'aumento del rapporto organico del capitale. In secondo luogo il fenomeno del recupero attraverso i prezzi di margini di profitto accettabili per le quote di capitale investito non riguardava assolutamente soltanto i beni di consumo, ma anche i beni strumentali. Per cui non erano...

essenzialmente i salariati a essere colpiti, ma era l'intero sistema che si attorcigliava su se stesso, in una sorta di convulsione mercantile, rendendo il fenomeno dell'inflazione assoluto, grave e sintomatico di una crisi strutturale che non si sarebbe risolta in tempi brevi.

Gli altri aspetti fenomenologici, il crescente indebitamento dello imprese, anch'esso legato alla caduta del saggio del profitto, la rapida internazionalizzazione dei mercati e della produzione, e un lento ma inesorabile incremento della disoccupazione erano gli effetti della medesima causa. L'accentuarsi della concorrenza internazionale, il ricorso alla pratiche protezionistiche, così come il tentativo di scaricare una parte del peso della crisi economica, attraverso i canali del mercato commerciale e finanziario, verso l'esterno a danno dei paesi concorrenti e dei paesi più deboli, innescando episodi di reazione che hanno avuto come risultato quello di incrementare quella stessa crisi che li aveva generati.

Ma per Bihr le cose stanno altrimenti. Sempre a pag. 63 si legge:

È dunque in una situazione già alquanto deteriorata che sopraggiunge, tra la fine del 1973 e l'inizio del 1974, la quadruplicazione del prezzo del petrolio grezzo sul mercato mondiale. La crisi latente si trasformava allora in crisi manifesta. In un contesto generale di riduzione del tasso di profitto, il brusco rincaro della rendita petrolifera provocava la prima recessione generalizzata dell'economia capitalistica dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Nei fatti le cose si sono svolte in maniera diversa. La crisi ha la sua fase di gestazione sul finire degli anni sessanta al culmine del lungo processo di accumulazione apertosi con la fine della seconda guerra mondiale. Ad andare in crisi sono i meccanismi di accumulazione del capitale minati da quasi trenta anni di lenta erosine del saggio del profitto dovuto alla modificazione del rapporto organico del capitale. Come precedentemente detto, in questo periodo, negli Usa e successivamente anche negli altri paesi ad alta industrializzazione il saggio medio del profitto era diminuito del 35% rispetto agli anni quaranta. E non è un caso che la crisi scoppi virulenta proprio negli Usa dove il fenomeno si è presentato prima e in termini più intensi, accompagnato da tutti gli altri fattori che Bihr ha messo in evidenza.

Ben prima della "crisi" petrolifera, nell'agosto del 1971, l'amministrazione Nixon, ha dovuto fronteggiare le falle della grave crisi che stava percorrendo l'economia americana. La depressione si è annunciata con un deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero delle partite correnti pari a 2,5 milioni di dollari. Cifra di per sé insignificante rispetto al pauroso deficit che gli Usa raggiungeranno negli anni ottanta (180 miliardi di dollari), ma significativa di una preoccupante inversione di tendenza. Per tutti gli anni della ricostruzione economica post bellica gli Usa avevano stradominato il mercato commerciale internazionale, la loro divisa era diventata il coefficiente universale di scambio di tutte la merci, l'industria e la finanza americane dettavano legge in ogni angolo del mondo occidentale.

"Improvvisamente" la linea di tendenza si era invertita. Gli Usa da esportatori di merci, servizi e capitali iniziavano a diventare importatori, sintomo di perdita di competitività in alcuni settori chiave della loro economia e di crisi da diminuzione del saggio medio del profitto. La crisi si era presentata in termini così gravi da costringere l'allora Presidente Nixon a mettere in atto le famose tre misure del 15 agosto 1971 consistenti sull'imposizione di una tassa del 10% su tutte le merci di importazione, la svalutazione del dollaro e le dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro e a creare le condizioni diplomatiche per la chiusura della guerra del Vietnam. La prima "crisi" petrolifera, ben lungi dall'avere reso manifesta una crisi latente, è stata la conseguenza dell'esplodere della crisi stessa e non il contrario.

Il quadruplicato prezzo del greggio alla fine del 1973, così come la successiva dichiarazione dei paesi Opec di agganciare il prezzo del greggio al tasso medio di inflazione nei paesi industrializzati, sono il frutto delle inique ragioni di scambio tra l'area dei paesi industrializzati e quella dei paesi produttori di petrolio, rese ancora più insopportabile dall'aumento dei prezzi dei beni industriali aventi mercato internazionale negli anni immediatamente vicini alla esplosione della crisi. In sintesi, il corso delle ragioni di scambio tra le due aree e il motivo dell'esplosione del prezzo del greggio, su di uno scenario di crisi e di inflazione già esistenti, è questo: Il prezzo del greggio, tra il 1900 e il 1973, prima dello storico aumento di 8 dollari a barile, è passato da 1 dollaro e venti centesimi a 1 dollaro e ottantacinque centesimi. In altri termini , per più di settanta anni il prezzo del greggio è rimasto praticamente invariato per le economie ad alta industrializzazione che del petrolio e dei suoi derivati, hanno fatto la base del loro sviluppo economico.

Di converso, dal solo 1945 al 1973, i prezzi dei prodotti industriali provenienti dall'Europa e dagli Usa sono aumentati del 375% con un incremento del 10% annuo a partire dal 1969. Il che rende evidente due cose. La prima è che un simile rapporto di scambio non poteva durare in eterno, e che al di là dell'occasione storica della guerra dello Yom Kippur, l'aumento del prezzo del greggio si imponeva ormai da anni, ma che solo con l'ulteriore impennata dei prezzi dei beni industriali prodotti dall'Occidente economico si è reso improrogabile. La seconda è che la responsabilità dell'aumento del prezzo del greggio va ricercata all'interno dei meccanismi di crisi dell'Occidente, Usa in testa, e non come sostiene Bihr che "la quadruplicazione del prezzo del petrolio" avrebbe provocato "la prima recessione generalizzata dell'economia capitalistica dopo la fine della seconda guerra mondiale", errore appena medicato dalla dichiarazione che il tutto sarebbe avvenuto in una situazione economica "già alquanto deteriorata".

Ciononostante l'analisi delle difficoltà di valorizzazione del capitale internazionale a partire dagli inizi degli anni settanta è efficace, anche se non si dà la giusta collocazione alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto quale motore primo dell'esasperarsi di tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, quali ad esempio, la doppia polarizzazione della ricchezza e della povertà sociali, l'assoluto aumento della pauperizzazione anche nelle cattedrali del capitalismo sviluppato oltre che nelle solite zone diseredate, l'attacco alla forza lavoro sia sul piano dei salari che dei contratti, la disoccupazione, l'esasperazione della concorrenza, il decentramento produttivo verso aree a costi del lavoro inferiori. Come efficace è la descrizione della fine del sistema fordista di produzione con tutte le conseguenze che si sono abbattute sulla schiena della classe operaia.

Parte terza: gli obbiettivi e le strategie

Nell'ultima parte l'analisi lascia il posto alla fantasia. L'infantilismo politico assurge a protagonista assoluto, l'idealismo a metodo universale di prassi e progettualità, il programma comunista, svirilizzato, svuotato dai suoi intimi contenuti rivoluzionari, viene proposto in piccole pozioni da ingerire "riformisticamente" un po' per volta, ogni giorno sino a completa assimilazione.

L'autore, infatti, da buon anarco-comunista, a filo della più banale dialettica formale, dichiarata fallimentare e chiusa, senza peraltro spiegarne i motivi, l'esperienza rivoluzionaria del leninismo, e, a futura memoria, qualsiasi altra esperienza che ad essa si richiami, dopo un totale recupero della prassi riformistica, attua un processo di traslazione di alcuni capisaldi della società comunista che di peso vengono immessi, come possibili, all'interno della società capitalistica. Siamo al delirio radical riformista contro il capitale, ma all'interno del capitalismo. Insomma la solita strategia che si illude di modificare gli effetti del capitalismo senza intaccare le cause che li hanno prodotti, ovvero di lottare contro il capitale ma all'interno di esso senza minimamente porsi il problema della praticabilità di un simile progetto, senza che la frattura rivoluzionaria si incarichi almeno di bloccare con la forza i meccanismi politici e tecnici che presiedono al dominio del capitale.

Non ci proponiamo in questa occasione di riprendere un vecchissima polemica tra il marxismo e l'anarchismo, tra l'impostazione dialettica dei fenomeni politico sociali e quella idealistica, ma più semplicemente di mettere in rilievo alcuni aspetti contraddittori dell'analisi e delle strategie di Bihr. Contraddizioni tra la natura della crisi del capitalismo, le incompatibilità con il più morbido dei riformismi e gli obbiettivi da raggiungere all'interno della società borghese improntati al più idealistico radical riformismo.

Gli obbiettivi sono presto individuati. Sono ovviamente gli stessi che la società borghese, sotto la pressione della crisi, della concorrenza internazionale e dei processi di ristrutturazione nega nei fatti per il semplice motivo che non sono conciliabili con i sempre più precari processi di valorizzazione del capitale. Il primo, quello che Bihr pone a fondamento di tutto l'impianto riformistico è il lavorare tutti, lavorare meno, lavorare diversamente. Sulla attuabilità di una simile rivendicazione all'interno del quadro di riferimento economico e politico capitalistico abbiamo già detto a sufficienza (vedi in Prometeo 9 del 1995 "La disoccupazione tra decadenza del capitalismo e illusioni del riformismo") e non intendiamo ritornarci per esteso, ma un paio di critiche possono essere ancora aggiunte.

Non è sufficiente individuare il fenomeno, la disoccupazione, e la causa che l'ha prodotta:

la riduzione del tempo di lavoro necessario, che lo sviluppo tecnologico rende ineluttabile, prende oggi, nelle società capitalistiche, la forma di un massiccio sviluppo della disoccupazione e del precariato...

pag. 154

per esorcizzarlo contrapponendogli il suo opposto, la piena occupazione, senza che tra le due situazioni non intervenga nulla di modificante se non la volontà riformatrice delle masse lavoratrici.

D'ora in poi , lo scopo delle lotte e delle rivendicazioni sotto il capitalismo consisterebbe nel difendere il principio comunista secondo cui il lavoro non è soltanto un diritto, ma anche un dovere.

Dunque si deve imporre al capitale di lavorare tutti, ovviamente meno, perché ciò non soltanto è un diritto-dovere, ma un obiettivo concreto, perseguibile nella società borghese, anche se è incompatibile con le leggi della valorizzazione del capitale e preso di peso dal programma comunista la cui realizzazione prevede ben altri percorsi.

In secondo luogo con quali "forze" persuasive si costringe il capitale ad un suicidio economico come quello prospettato dalla grande riforma dell'orario di lavoro senza che la reazione borghese non imponga nei fatti un atto di forza rivoluzionario?

Invece, nell'immaginario politico dell'autore, non soltanto è possibile tutto ciò, ma sono possibili congiuntamente altre riforme di struttura quali "il deperimento del lavoro salariato" per mezzo di un "reddito sociale garantito" a tutti i lavoratori, il "diverso orientamento della produzione sociale", e perché no a questo punto, lo sviluppo di "una società alternativa", che sempre nell'immaginario politico dell'autore, dovrebbe avere le sembianze della società comunista.

Perché uno solo di questi punti possa avere un minimo di possibilità di realizzarsi necessiterebbe di una rivoluzione sociale. Ma a parte questo "piccolo dettaglio" rimane il fatto che, mai e poi mai, sarebbe possibile far crescere un salario sociale definito "in funzione del volume della ricchezza sociale e delle scelte della collettività nella ripartizione tra investimenti e consumi, fondi di riserva ecc.", contemporaneamente al permanere di tutte le strutture economiche, politiche e giuridiche che presiedono alla salvaguardia del profitto e del saggio del profitto. Sarebbe come pretendere di imporre al capitale di comportarsi da anti capitale, consentendogli di avere tutte le armi a disposizione per continuare ad essere capitale.

Lo stesso discorso vale per le produzioni alternative, o "piani alternativi di produzione" che partono delle aree del no-profit, dal criterio dell'utilità sociale per arrivare all'obsoleto progetto dell'autogestione, vecchio arnese ideologico che tante sconfitte e tanti guai ha procurato alla classe operaia sin dagli inizi del secolo, proprio perché non hanno preventivamente fatto i conti con il potere gestionale del mercato da parte del capitale, o non partono nemmeno, oppure dopo i primi passi vengono spazzati via dal mercato stesso al primo refolo di recessione economica. Ciò in virtù della banale osservazione che tutte queste iniziative economiche alternative nascono, crescono e rimangono all'interno del mercato (categoria economica capitalistica che, come per il capitale, il profitto e la produzione di merci, Bihr si guarda bene dall'eliminare) solo a condizione di essere competitive e di garantire quindi sufficienti margini di profitto per i capitali investiti; altrimenti sopravvivono per alcuni anni ai margini del mercato per scomparire come tutte le iniziative produttivi o speculative non profittevoli.

Ancora una volta l'utopia consiste nel pretendere di far crescere il sogno di una società alternativa all'interno del capitalismo senza prima bloccare i meccanismi di sviluppo della società borghese, senza cioè aver creato le condizioni minime, ma necessarie, perché la trasformazione economica e sociale possa muovere i suoi primi passi. Un simile approccio è giustificato soltanto dal fatto che Bihr è fondamentalmente un riformista e che come tutti i riformisti ritiene che tutto sia conquistabile all'interno della società borghese, con magari intense lotte di classe che però non devono mai giungere alla rottura rivoluzionaria. Questo approccio lo si evince anche nella parte riservata alla strategia, dove il contropotere economico e politico attraverso l'uso e la trasformazione della democrazia (da indiretta, rappresentativa a quella diretta) camminerebbe progressivamente in avanti sino al punto di configurare il tipo di società alternativa. Esempi di questo riformismo li troviamo dappertutto, ne è intriso il metodo di analisi, il modo di affrontare i problemi economici e politici; ma la sublimazione del suo riformismo la troviamo nel capitolo dedicato alle strategie.

A pag.178 si legge:

La rivoluzione proletaria è necessariamente un'opera di ampio respiro che consiste nell'appropriazione, dentro e contro la società capitalistica, degli elementi e delle condizioni della costruzione di una società comunista...

Va da sé che il termine rivoluzione è usato non in senso politico ma nell'accezione più corrente di radicale cambiamento delle cose. Che il termine rivoluzione sia usato inequivocabilmente con significato riformistico, progressivo e democratico è dimostrato dai passi successivi:

Nello stesso modo (si) può sfruttare la democrazia politica, gli spazi che offre, così come l'esaltazione delle libertà veicolata dall'ideologia dominante...

pag.179

Più avanti a pag. 180 si legge:

L'ipotesi di partenza è la seguente: un superamento rivoluzionario del capitalismo è possibile solo sulla base di reti organizzate di contropoteri, create dallo sviluppo di progetti alternativi.

Nella pagina successiva il concetto si completa.

Strutture di questo genere possono nascere solo da una lotta contro il potere esistente, al fine di limitarne le prerogative e di permettere ai membri della società una riappropriazione della potenza sociale.

A parte il già osservato uso anomalo del termine "rivoluzione", le strutture del contropotere, sorte da una non ben precisata volontà da parte del proletariato, su cui dovrebbe poggiare la creazione della società futura, o quantomeno la sua struttura dorsale, avrebbero il compito sì di lottare contro il potere costituito, sempre ammesso che lo stesso potere e le leggi del mercato ne abbiano nel frattempo permesso la nascita e lo sviluppo, ma solo per limitarne la prerogative, non per abbatterlo o metterlo nelle condizioni di non agire. Tutto, dagli obbiettivi alle strategie per ottenerli, dai rapporti tra la lotta di classe e il capitale, tra la lotta di classe e il potere politico, il crescere "democraticamente" della nuova società contro ma dentro il sistema della vecchia, è improntato al più classico dei metodi riformisti.

Ma sorprendentemente, nell'atto conclusivo dello sviluppo del contropotere politico e dell'alternativa economico sociale, quando il proletariato avrebbe raggiunto la quasi totale realizzazione del suo programma, scatta la "rottura rivoluzionaria", quella che Bihr definisce la terza e ultima tappa dell'ambizioso e fantasioso progetto politico:

Una terza tappa è infatti il momento della rottura rivoluzionaria, momento in cui il contropotere proletario giunge a smantellare l'apparato statale per sostituirvisi nella gestione generale della società... Una simile rottura rivoluzionaria, quand'anche dovesse assumere forme insurrezionali, nulla avrebbe a che fare con il colpo di mano di una minoranza di rivoluzionari di professione che si autoproclamano e si auto-sostituiscono in dirigenti del processo rivoluzionario, creando un rapporto di sostituzione rispetto alle masse. (pag. 183)

A parte la polemica con i rivoluzionari di professione, con il leninismo e con il presunto sostituzionismo che non intendiamo affrontare, perlomeno in questo frangente, rimane l'aspetto paradossale dell'impostazione conclusiva. Dopo aver ripetutamente sostenuto la tesi del riformismo "dentro e contro il capitale" infarcendo il suo lavoro di invettive contro la socialdemocrazia sia nella versione tradizionale che rivoluzionaria, l'autore scopre improvvisamente l'eventualità (non la necessità ) di una soluzione rivoluzionaria proprio nel momento in cui non ce ne sarebbe assolutamente bisogno.

Collocando l'eventuale processo rivoluzionario in cima alla conquiste economiche e politiche che il proletariato avrebbe ottenuto contro l'economia del capitale e contro il potere dello stato borghese, si tratterebbe soltanto, a quel punto, di eliminare il dualismo di potere che si sarebbe creato, con un atto di forza il cui obiettivo consisterebbe nell'appropriarsi delle "gestione generale della società". Nulla di più assurdo. Se non si è reso necessario l'evento rivoluzionario per tutto l'arco di tempo in cui la lotta di classe ha strappato al capitale e allo stato borghese potere economico e potere politico sino, a ridurli a poca cosa, non si vede come la rivoluzione possa essere presa in considerazione, anche se solo a livello di ipotesi, nell'ultima fase, quando la questione, in termini di lotta di classe, si riduce alla smantellamento dell'apparato statale borghese, ormai quasi completamente svuotato dalle conquiste proletarie. Anzi, a questo punto dei rapporti di forza, dovrebbe essere la borghesia a tentare un atto estremo che cancelli di colpo quanto avrebbe perduto dall'avanzata riformistica del proletariato giunto alle soglie del controllo complessivo della società.

Le cose stanno esattamente nei termini contrari. L'atto rivoluzionario è necessario proprio nel momento in cui l'avversario di classe, dominando i rapporti sociali oltre che quelli economici, disponendo della polizia, dell'esercito, della magistratura, controllando gli spazi "democratici", ovvero aprendoli e chiudendoli a seconda dell'andamento della lotta di classe, non acconsentirebbe mai a che una soltanto delle vagheggiate riforme di struttura possa affermarsi. La rivoluzione politica, ovvero la distruzione della stato borghese sostituito dallo stato proletario è resa indispensabile dalla impossibilità di organizzare la trasformazione economica, e quindi sociale in senso comunista, all'interno del potere economico politico e militare del capitale.

O la rivoluzione crea le condizioni per l'inizio di un lungo processo di trasformazione i cui risultati, oltretutto, dipendono dalla configurazione rivoluzionaria internazionale, oppure ogni velleitario tentativo di riformare il capitalismo dentro la società borghese finirebbe per cozzare contro il muro della conservazione o della più spietata reazione al primo accenno di incompatibilità con il sistema vigente. Altro che prefigurare una crescita del contropotere, di forme alternative della produzione. Occorre qualcosa di diverso all'infantile progetto di inoculare all'interno del capitalismo il comunismo a colpi di riforme usufruendo di spazi "democratici" che in realtà altro non sono che gli ambiti in cui la borghesia ha creato a sua immagine e somiglianza il diritto civile, il diritto penale e il rapporto giuridico tra capitale e forza lavoro.

Tentare di usare la democrazia del capitale contro la società borghese è come impugnare un'arma al contrario. Significa non avere chiari i termini dei rapporti di forza tra le due classi, significa non avere capito nulla della genesi e dello svilupparsi delle lotte di classe. Ma Bihr, che è e resta un riformista e, conseguentemente, un ottuso controrivoluzionario, lui sì, legato alla tradizione socialdemocratica della Seconda Internazionale più di quanto non voglia far credere, commette un secondo grave errore: quello di riproporre la prassi del riformismo, già storicamente battuta da un secolo di insuccessi, nella fase di decadenza del capitalismo.

Il riformismo classico, quello degli inizi del novecento, che aveva in cima ai suoi programmi l'instaurazione di una società socialista, realizzabile attraverso una serie di conquiste economiche e politiche all'interno degli schemi del capitale, è fallito miseramente di fronte all'impossibilità di andare oltre le compatibilità del sistema. Non solo, ma da quel fallimento il riformismo socialdemocratico è andato gradatamente ripiegando su obbiettivi minori, sino a concepire come conquista strategica la statalizzazione dei mezzi di produzione e la difesa degli interessi immediati della classe lavoratrice. Ovvero ha dovuto raddrizzare il tiro del programma in funzione di quelle riforme che fossero compatibili con il sistema e i con i margini di valorizzazione del capitale. Ma con una avvertenza, all'epoca i margini di valorizzazione del capitale erano molto più ampli di adesso. Nei paesi ad alta industrializzazione il saggio medio del profitto era del 40-50% più alto di adesso. Le crisi economiche si producevano all'incirca ogni dieci anni, le riprese erano più repentine e lunghe, l'internazionalizzazione del mercato commerciale e finanziario era ancora ai primi passi, mentre la concorrenza non aveva ancora raggiunto i toni esasperati di oggi. Quindi si sono rese possibili, perché compatibili con quei saggi di sfruttamento e del profitto, lotte e conquiste riformistiche quali la riduzione dell'orario di lavoro e l'impianto dello stato sociale. Spazi e margini che hanno consentito alla borghesia dell'epoca di ricattare la classe operaia e le sue degenerate rappresentanze politiche e sindacali. Briciole di quote di profitto, ridistribuite sotto forma di salari differiti (previdenza e sanità) in cambio della pace sociale, o quantomeno di un livello di lotta di classe che non andasse contro le compatibilità del sistema nel suo complesso. Nel capitalismo contemporaneo le cose non stanno più in questi termini. La caduta tendenziale del saggio medio del profitto, che soltanto dalla chiusura della seconda guerra mondiale ha penalizzato del 30-35% i meccanismi di valorizzazione del capitale, ha accentuato la frequenza e l'intensità delle crisi economiche, ha esasperato i termini della concorrenza sui mercati internazionali, riducendo al minimo gli spazi di manovra per qualsiasi tipo di politica riformistica, in modo particolare se radicale.

Oggi non solo si sono ridotti enormemente gli spazi e i margini di compatibilità del sistema, per cui l'epoca delle "conquiste", o più semplicemente delle riforme si è chiusa, ma assistiamo ad uno storico attacco del capitale alla forza lavoro sotto forma di iper sfruttamento per chi ha la "fortuna" di avere un posto di lavoro, di disoccupazione crescente, di precarietà e flessibilità sul fronte dei salari e dei contratti per tutti gli altri. L'inarrestabile vortice, fermi restando i rapporti di produzione capitalistici, bassi saggi di profitto - crisi - inasprimento della concorrenza - ristrutturazioni ad alto contenuto tecnologico, hanno come logica e ineluttabile conseguenza la disoccupazione e i bassi salari. Tutto ciò che in questa situazione esce dalla logica di un capitale con enormi problemi di valorizzazione si scontra immediatamente con le compatibilità dell'intero sistema. Ed è in una simile situazione che Bihr ritiene di presentare il riformismo, per giunta in veste radicale, quale "nuova" ricetta per risolvere i problemi del proletariato moderno. Il paradosso sta proprio nel fatto che ad un capitalismo in decadenza - in cui tutti i termini del processo di valorizzazione del capitale vengono compressi ed esasperati, azzerando il rapporto tra le istanze riformistiche e le possibilità del sistema socio economico di accoglierle - si contrappone l'esperienza del riformismo che ha visto la sua impraticabilità in periodi storici ben più favorevoli.

Una corretta lettura dell'evolversi delle contraddizioni capitalistiche (disoccupazione, precarietà del posto di lavoro, bassi salari, caduta della stato sociale ecc. ) avrebbe dovuto portare alla ineluttabilità di un processo rivoluzionario quale unico mezzo per interrompere il feroce attacco alla classe lavoratrice, e contemporaneamente rimuovere le cause che lo hanno posto in essere, per spianare la strada alla costruzione di una società basata su di un nuovo modo di produrre e di distribuire la ricchezza. Una lettura idealistica, politicamente infantile, tutta racchiusa nell'utopia riformistica, non poteva che ragionare in termini di contrapposizione formale. Il moderno capitalismo propone disoccupazione? Basta contrapporgli la piena occupazione per mezzo dello slogan "lavorare tutti, lavorare meno". Il basso saggio dei profitti impone salari ridotti all'osso? È sufficiente imporre al capitale e ai suoi manutengoli una sorta di salario sociale che soddisfi appieno i bisogni sociali della forza lavoro. L'economia capitalistica è contraddittoria e portatrice di crisi economiche perché basata sulle necessità di valorizzazione del capitale? Ebbene, compito della lotta di classe è quello di superare la contraddizione organizzando forme di produzione alternative, come se fosse soltanto una questione di coscienza, di volontà politica e di organizzazione delle istanze che provengono dal basso e non di scontro totale e definitivo tra la due classi su ognuno di questi obbiettivi.

L'utopia e la pericolosità del neo riformismo sta proprio in questo: far credere alla masse lavoratrici che sia possibile imporre al capitale, "democraticamente", o al massimo con qualche scrollone, il suo annientamento economico e politico lasciandogli contemporaneamente intatte la sua armi di condizionamento e di repressione. Guai a quel proletariato che subisse le suggestioni di simili percorsi della lotta di classe; non farebbe altro che preparare il terreno alla sua prossima sconfitta, ancora più grave e dolorosa di quella patita dal primo riformismo e dalla controrivoluzione stalinista, le cui ferite sono ancora sanguinanti e ben evidenti. La futura ripresa della lotta di classe, non solo dovrà ripercorre il solco della tradizione rivoluzionaria, ma dovrà fare i conti con tutte quelle tendenze che, in nome di "nuovi" approcci alla questione sociale, ripropongono il vecchio riformismo come l'unica e l'ultima soluzione alla storica sconfitta del mondo del lavoro, ricacciando indietro di un secolo il livello di scontro della lotta di classe e fungendo da argine contro rivoluzionario ad ogni anelito proletario di superamento del capitalismo decadente.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.