Alcune considerazioni sul terzo settore

Nella pubblicistica e nelle aspettative sia della conservazione borghese che del neo riformismo il "terzo settore" sembra assurgere a ruoli di importanza vitale. Alle imprese no-profit, che di questo settore rappresentano la struttura portante, il neo riformismo, sia nella versione tradizionale che in quella radicale, si attribuiscono obiettivi sociali determinanti quali la lotta alla disoccupazione, e quello ancora più importante, di creare le condizioni per un diverso modo di produrre, non più o non solo per il mercato e per il profitto, bensì per le necessità sociali, fuori e contro le leggi del mercato stesso. Una sorta di produzione "socialista" che abbia come terreno di partenza la produzione di servizi e di beni che la società capitalistica non è più in grado di produrre o che ritiene economicamente non conveniente, per poi dilatarsi a settore economico produttivo alternativo al capitalismo stesso.

Il nostro scopo è di mostrare come in entrambi i casi l'impostazione metodologica del neo riformismo sia profondamente errata e come queste velleitarie propensioni di politica economica e sociale siano destinate al fallimento. Non solo, ma va fatta chiarezza su quanto siano nocive agli interessi del mondo del lavoro in una fase storica in cui gli spazi riformistici, contingenti o di struttura, sono pressoché vicini allo zero, e per quale motivo in tutti i paesi capitalistici ad alta industrializzazione non solo le riforme latitano, ma si stia abbattendo una devastante aggressione nei confronti della forza lavoro da parte del capitale.

Ma partiamo dalle definizioni di Terzo settore e di impresa no-profit sui quali la stessa sociologia economica borghese fa confusione, in parte per incertezze di prospettiva, in parte per una carenza legislativa che disciplini la materia con chiarezza, soprattutto per quel intricato nesso che lega il pubblico al privato, la produzione di merci a quella dei servizi sociali, quando lo scenario generale all'interno del quale si muovono i vari settori e le imprese no-profit è caratterizzato dalla legge del valore e dalle necessità di realizzare profitti.

In una prima, grossolana, definizione di primo e secondo settore si avrebbe che, là dove la produzione di merci e servizi è nelle mani del pubblico, saremmo in presenza del secondo settore, dove invece la produzione di merci e servizi fosse nelle mani del privato, saremmo in presenza del primo settore. All'interno di questa definizione saremmo in presenza di imprese for profit indipendentemente dal settore di appartenenza, senza che esista la minima possibilità di presenza e di azione per le imprese no-profit.

Secondo un'altra definizione, ancora più grossolana, mentre il primo settore resterebbe quello della produzione di merci con il relativo obiettivo del profitto, il secondo, quello pubblico o statale, sarebbe dedito quasi esclusivamente alla produzione e alla gestione dei servizi sociali con una propensione al profitto meno marcata o addirittura inesistente come nel Welfare state per ciò che riguarda l'assistenza e la previdenza. In questo secondo caso saremmo in presenza sia di imprese for profit che di una sorta di "gestione" no-profit amministrata dallo Stato o da organismi ad esso direttamente riconducibili. Indipendentemente dalla verosimiglianza delle definizioni, con la caduta dello Stato sociale e le conseguenti privatizzazioni, in parte realizzate e in parte in via di realizzazione, anche queste attività sociali finiscono per ricadere all'interno del primo settore aprendo un varco gestionale, il terzo settore appunto, che dovrebbe essere caratterizzato dalla produzione di servizi sociali per mezzo di imprese che non abbiano come scopo il profitto ma il soddisfacimento di tutte quelle necessità sociali che lo Stato non è più in grado di assolvere e che il privato assolve in parte ma sulla base del tornaconto economico, ovvero del profitto. In questo caso l'impresa che domina il cosiddetto terzo settore è l'impresa no-profit.

In altri termini il terzo settore si presenta non tanto come antitesi o alternativa al primo e al secondo settore, al privato o al statale, ma come ambito occupabile dalla iniziativa privata, rigorosamente non a scopo di lucro, al di fuori dello Stato. Non per niente, da dieci anni a questa parte, sia in Italia che soprattutto all'estero, il relativamente enorme sviluppo del terzo settore è strettamente legato al progressivo disimpegno dello Stato nei settori relativi all'assistenza, quali la cura degli anziani, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati terminali ecc.

Ne consegue che l'impresa no-profit deve necessariamente possedere delle peculiarità statutarie e organizzative uniche e in qualche modo atipiche rispetto a tutte le altre imprese che operano sul mercato. Il criterio giuridico normativo che le disciplina impone che abbiano una natura privata e autonomia gestionale, che gli eventuali profitti, o avanzi di gestione, non vengano ridistribuiti ai soci, ai membri della impresa ne tantomemo ai dipendenti, ma vengano ridistribuiti all'interno della medesima attività o possono servire alla installazione di attività analoghe non a scopo di lucro. Come ultima condizione le imprese in questione devono giovarsi di prestazioni lavorative volontarie, ovvero di lavoro non retribuito.

Il terzo settore le imprese no-profit e il rapporto con la forza-lavoro

In prospettiva, gli stessi osservatori borghesi, ritengono che il destino delle imprese no-profit, e quindi di tutto il terzo settore, non debba rimanere ancorato all'ambito dei servizi e della assistenza, ma che gradualmente possa inserirsi anche nel settore della produzione di merci, mantenendo le stesse prerogative sulle quali e per le quali è nato ma con una notevole trasformazione nei confronti del lavoro dipendente che non solo può, ma deve essere retribuito. A nessuno verrebbe in mente di predire un futuro di sviluppo a questo settore impedendogli di usufruire di una prestazione d'opera che non vada al di là del volontariato, sia perché le disponibilità umane hanno un limite, sia perché le motivazioni possono venire meno e sia perché, dilatando l'area di intervento economico, il reclutamento della forza lavoro, necessariamente, deve assumere i caratteri di un vero e proprio rapporto di lavoro. Ed è su questo aspetto che il neo riformismo cerca di costruire la sua impossibile impalcatura propositiva per risolvere il problema della disoccupazione. Il "teorema" nella sua essenzialità è molto semplice. Se il sistema economico è costretto ad espellere forza lavoro per questioni di concorrenza e di profitto creando disoccupazione, quest'ultima può essere eliminata, o quantomeno contenuta, riciclando la forza lavoro in esubero nel settore che opera al di fuori del profitto. Ma immediatamente vengono i nodo al pettine. Stando alla legislazione attuale, sia in Italia che a livello internazionale, se il terzo settore si basa sul volontariato, ovvero su di una prestazione d'opera non retribuita se non per la voce "rimborso spese", appartiene alla sfera della impossibilità che si possa risolvere o contenere il fenomeno sociale della disoccupazione. Da un punto di vista sociale, il disoccupato o l'inoccupato, non è soltanto colui che non entra a nessun titolo nei meccanismi della produzione o della distribuzione, ma che non percepisce nessun salario né diretto né differito, se non per quella quota parte del tutto residuale, di una assistenza sociale in via di estinzione. Per ciò che concerne il rapporto tra capitale e forza lavoro, l'unico che in regime capitalistico rappresenta la condizione di vita e il livello di sfruttamento della seconda nei confronti del primo, L'essere occupato senza una qualsivoglia corresponsione economica non solo non risolve il problema, ma ne creerebbe uno peggiore, il super sfruttamento. Si configurerebbe infatti una situazione limite nella quale la forza lavoro pur inserita in un processo di produzione, anche se di servizi, non percepirebbe nessuna forma di retribuzione, non avendo alle spalle un minimo di "sicurezza" economica come coloro che si dedicano al volontariato dopo la loro professione o impiego, ma soprattutto dopo aver ottenuto un corrispettivo economico dalla loro attività lavorativa primaria.

È banalmente evidente che, stando in questi termini le cose, le imprese no-profit e il terzo settore non possano minimamente rappresentare nemmeno un inizio di soluzione alla disoccupazione, e il tutto viene rimandato a data da destinarsi quando l'apparato legislativo e il rapporto con la forza lavoro siano indirizzati alla remunerazione, ma anche in questo caso le cose non possono essere portatrici di buone notizie.

L'illusione riformistica, in modo particolare quella che si paluda di estremismo, si basa sull'assunto in base al quale con lo sviluppo delle imprese del terzo settore non solo si aprirebbero spazi per una nuova occupazione, ovviamente retribuita, ma che con il supporto della lotta di classe ben organizzata e mirata, la produzione no-profit, potrebbe diventare l'anticamera del socialismo nella misura in cui riuscisse a limitare prima, superare poi l'area del for profit.

Il ritornello del vecchio e del nuovo riformismo è sempre lo stesso. La lotta di classe, ed è già tanto che si richiamino a questo concetto, altrimenti si parla genericamente di necessarie soluzioni sociali a cui la cittadinanza politicamente più cosciente deve tendere, non deve più prepararsi allo scontro frontale ( leggi rivoluzione), non ha più bisogno di proporsi come alternativa al capitale e alle sue leggi ma, sfruttando gli spazi di democrazia può, e strategicamente deve, crearsi degli ambiti economici alternativi. Ambiti non più legati alla logica del profitto ma a quella degli interessi sociali, in un progressivo crescere in termini economici e giuridico istituzionali, contro il capitalismo ma accettando le leggi del capitale, contro il profitto ma accettando la logica della valorizzazione del capitale, contro la borghesia ma senza servirsi della lotta di classe in senso rivoluzionario. Occupazione oggi, nuova e migliore organizzazione e distribuzione della ricchezza sociale domani. A tanto mira il riformismo basandosi sullo sviluppo del terzo settore.

Tale infantile prospettiva è destinata a cozzare contro il muro delle leggi del capitale. Muro tanto più duro e invalicabile quanto maggiore è la difficoltà di valorizzazione dei suoi settori trainanti che mai, come in questa fase storica, sono schiacciati da un lato da saggi del profitto progressivamente decrescenti e dall'altro dall'esplodere di una serie di contraddizioni economiche e sociali di difficile contenimento che impongono alla società capitalistica margini di tollerabilità a tutto ciò che non le è confacente, sempre più ristretti.

La borghesia, che di questo stato dei rapporti di produzione è perfettamente cosciente, ha concepito la nascita e lo sviluppo del terzo settore in termini molto pragmatici, indicando obiettivi e limiti che sono quelli compatibili con lo stato attuale del capitale, delle sue necessità di valorizzazione e del basso livello dei saggi del profitto. In un recente convegno tenutosi il 26-27 ottobre 1995 a Stresa su "le organizzazioni senza fini di lucro", tra gli altri interventi quello di Umberto Agnelli, ha tracciato le linee entro le quali il terzo settore dovrà incamminarsi e a quale rapporto tra capitale e forza lavoro ci si dovrà necessariamente rifare.

La sua crescita, secondo Agnelli, ha come scenario lo sfaldamento dello Stato sociale, la carenza di assistenza pubblica nei confronti dei settori deboli della società, il cui vuoto può essere parzialmente coperto dalle imprese no-profit grazie a queste tre condizioni.

  1. Il disinteresse da parte del capitale privato verso qualsiasi attività economica e sociale che non rappresenti un business. Nella logica dei rapporti di produzione vigenti, mai il capitale, per la verità non soltanto privato, si impegna in attività che non abbiano scopo di lucro, ovvero che non prevedano un profitto.
  2. Il progressivo abbandono da parte dello Stato di tutte quelle attività sociali che non è più in gradi di sostenere finanziariamente.
  3. Il volontariato come forme di partecipazione attiva nelle prime fasi, un salario contenuto ben al di sotto dei normali parametri retributivi quale condizione per lo sviluppo di un welfare society o di attività connesse.

Ovviamente l'intervento dell'illustre rappresentante della borghesia italiana si è ben guardato dallo spigare i motivi che hanno caratterizzato il fenomeno del primo punto, così come quelli che dovrebbero accompagnare lo sviluppo del terzo. Rimane il fatto che, piaccia o no, al di là di questo nella società capitalistica altri spazi per le imprese non prfit non se ne vedono.

Le prospettive di sviluppo del terzo settore nel quadro delle leggi del capitale

Che le imprese for profit non abbiano nessun interesse per le attività no-profit è di per sé un argomento ozioso. Due considerazioni in più le meritano i motivi che hanno imposto agli Stati moderni, da una ventina di anni a questa parte, ma con precipitosa urgenza negli ultimi cinque o sei anni, ad abbandonare pressoché totalmente il loro ruolo di assistenza ai lavorativi e alle categorie più disagiate, con non pochi rischi sulla rottura della pace sociale, cioè della amministrazione di quella lotta di classe che tutti, da destra a sinistra si sono affrettati a dichiarare finita, al pari della presunta scomparsa del proletariato quale soggetto primo di questa lotta. Il motivo è molto semplice ed è l'unità di misura dello stato in cui versano i rapporti di produzione capitalistici su scala mondiale.

L'indebitamento degli Stati, la loro bancarotta finanziaria, i conti in rosso dei fondi pensionistici hanno un solo responsabile: il basso saggio del profitto. Sull'argomento siamo intervenuti più volte e non intendiamo analizzare il fenomeno ma ci limitiamo a riproporlo nell'aspetto empirico. Saggi del profitto inferiore del 30-40% rispetto a quelli che si ottenevano nell'immediato secondo dopoguerra hanno come conseguenza un ciclo economico più corto, le crisi si susseguono più velocemente, le riprese sono più corte, la concorrenza internazionale si esaspera: da qui la necessità di occupare, anche con la forza i mercati finanziari, commerciali, delle materie prime, petrolio fra tutte, del lavoro attraverso il decentramento produttivo. In un simile scenario, certamente non nuovo ma ferocemente accelerato dalla sempre crescenti difficoltà del capitale a valorizzarsi, si è inserito il ruolo dello Stato. Il debito pubblico, fenomeno sociale e finanziario pressoché sconosciuto nei decenni precedenti, oggi accompagna tutti i paesi capitalistici ad alta industrializzazione. Dagli Stati uniti alla Russia, dall'Italia che ne detiene il primato, alla Germania si va da un debito pari al 60% del Pil sino ad un massimo del 130%. È la cosiddetta finanziarizzazione della crisi, cioè lo Stato è costretto ad indebitarsi per poter raccogliere sufficienti masse di capitale finanziario da riversare, sotto forma di crediti agevolati, finanziamenti a perdere e aiuti di ogni tipo nei confronti delle maggiori imprese nazionali affinché abbiano gli strumenti finanziari, e quindi tecnologici, per affrontare la concorrenza internazionale. Gli spaventosi disavanzi nella gestione degli istituti per la previdenza sociale si sono aperti perché i versamenti che ogni mese venivano trattenuti direttamente dalla busta paga dei lavoratori dipendenti sono andati a sovvenzionare la Cassa integrazione, con l'evidente scopo di creare degli ammortizzatori sociali e di non far gravare l'onere finanziario dell'operazione al capitale for profit pesantemente impegnato sul fronte della concorrenza interna e internazionale.

Ciò ha imposto allo Stato, non la scelta strategica né tantomeno la ricerca tattica di breve periodo, ma la imprescindibile necessità di tagliare le spese per tutto ciò che non è produttivo. Per cui, a fronte di tagli alla scuola, alla sanità, alle pensioni previa riforma di tutto il sistema pensionistico e in prospettiva della sua parziale o totale privatizzazione, di assalti furiosi al costo del lavoro con la cancellazione della scala mobile e l'imposizione di contratti che riducono i salari sino al 60%, lo Stato capitalistico moderno produce disoccupati e finanziarie senza soluzione di continuità.

Va da sé che i deficit dello Stato sono lo specchio dell'andamento della economia e che quest'ultimo è la rappresentazione fedele delle difficoltà nelle quali navigano le imprese capitalistiche, il for profit. Dire quindi, che il terzo settore nasce là dove il capitale privato, in difficoltà pressoché permanete, non vuole inserirsi, e quello statale, in affannosa rincorsa dei profitti perduti nel primo settore, non può più continuare ad intervenire, è come battezzare un defunto. Si illude chi pensa che il terzo settore, nato dalla crisi degli altri due, possa, se potentemente sorretto dalle forze sociali interessate, sostituirli in parte o in toto. Il terzo settore, nato dalla costola putrescente del secondo, non può che legare le sue sorti di sviluppo o di involuzione all'andamento del primo, di quel settore cioè nel quale si produce e si realizza plus valore, ovvero profitti. Altrimenti è destinato a rimanere in un ambito ristretto, a parziale tamponamento delle falle prodotte dalla ritirata dello Stato sociale, in perenne dipendenza dal volontariato con gli inevitabili rischi che la situazione comporta.

La precisazione si rende necessaria nel momento in cui si mette in relazione l'impresa no-profit, le sue possibilità di sviluppo, lo scenario capitalistico complessivo e la inevitabile dipendenza, sia in fase di non concorrenza che, a maggior ragione, di concorrenza con le imprese for profit.

Finanziamenti e profitti delle imprese no-profit

Un aspetto che immediatamente deve essere chiarito, e per non ingenerare confusioni e per avere chiari i termini dell'ipotetico sviluppo delle imprese no-profit, è che queste imprese possono, e in futuro dovranno, basarsi sul profitto, entrare in concorrenza sul mercato con le imprese for profit. In altri termini lo scenario capitalistico che le ha viste nascere per le ragioni che abbiamo analizzato, non potrà che condizionarle sino al punto di favorirne la crescita fintanto che occupano lo spazio lasciato vacante dallo stato per quanto riguarda i servizi sociali e l'assistenza. Di mantenerle in vita fino a quando il loro esistere giustifica una serie di sgravi fiscali e facilitazioni per quelle imprese for profit che le finanziano o che le aiutano. Di combatterle nel momento in cui la loro invadenza sul mercato diventasse un ostacolo, anche se piccolo, alle realizzazioni di profitto del primo settore.

Già oggi, per definizione le imprese no-profit, in qualunque settore operino, possono ottenere dei profitti, l'unica condizione è che questi profitti, a nessun titolo, vengano distribuiti ai soci o ai dipendenti, ma reinvestiti nella attività che li ha prodotti o in attività analoghe. Come per tutte le imprese che operano nel quadro dei rapporti di produzione capitalistici, le imprese no-profit sono e saranno messe nella necessità di dover reperire del capitale da investire, di produrre merci o servizi ad un sufficiente livello qualitativo, di vendere l'oggetto della loro produzione ad un prezzo che sia al contempo remunerativo per il capitale investito e concorrenziale rispetto a prodotti analoghi provenienti da imprese for profit, e non ultimo, di gestire al meglio i costi di produzione, tra cui quello della forza lavoro. In regime capitalistico non ci possono essere altre possibilità. O il terzo settore si rinchiude nell'angusto ambito del soddisfacimento di alcuni servizi sociali, facendo della carità più o meno pilotata dagli ambienti politici ed amministrativi dai quali dipende, basandosi solo ed esclusivamente sul volontariato. Oppure può tentare il balzo in avanti, invadendo il primo settore, ma a quel punto le leggi del mercato, fatalmente, dovendo valere per tutti faranno sentire il loro peso come per qualsiasi altro concorrente capitalista. Chi pensa di attribuire alle imprese no-profit percorsi che le conducono a forme di produzione sociale, non competitiva, se non addirittura sulla strada del socialismo senza prima mettere mano al rapporto tra capitale e forza lavoro e senza rompere il quadro di riferimento istituzionale, giuridico amministrativo, non solo prende lucciole per fanali, ma compie un salto nel vuoto tanto più pericoloso quanto maggiori sono le aspettative riposte in un simile progetto.

Nella realtà odierna e a venire, già al primo passo, quello del capitale d'investimento, i condizionamenti delle categorie economiche capitalistiche sono pressanti. Distinguiamo i due casi. Il primo, quello in cui l'impresa interviene in quegli spazi lasciati vacanti dallo Stato di interesse sociale come la sanità, l'assistenza alle categorie più deboli, la tutela dell'ambiente, la tutela dei diritti civili, losport e la ricreazione e dove si avvale esclusivamente di prestazioni lavorative volontarie. Il secondo nel quale l'impresa produce non solo servizi ma anche merci e si colloca concorrenzialmente sia nei confronti del secondo, ma anche del terzo settore e occupa anche forza lavoro salariata.

Nella prima situazione, non conflittuale e non competitiva con gli altri settori, l'impresa non profit si giova di una lunga serie di facilitazioni che provengono dal Governo, dalle autorità amministrative locali e persino dalle banche e dalle imprese operanti nel primo settore. Si va dagli sgravi fiscali alle donazioni, dai lasciti ai contributi degli istituti finanziari e ai piccoli finanziamenti delle imprese. Ad esempio, in Italia, già con il vecchio ministro delle Finanze Fantozzi, si proponeva un pacchetto di agevolazioni fiscali alle ONLUS ( org. non lucrative di utilità sociale) in termini di esenzioni o riduzione delle imposte sui redditi commerciali, di Iva sulle vendite e sulle imposte sugli spettacoli, sempre di Iva sugli acquisti di immobili e veicoli, di imposte su atti e registri e tributi locali. Imprese e Banche possono avere il loro vantaggio a sovvenzionare le imprese no-profit, innanzitutto perché non appartengono, o non appartengono ancora, alla concorrenza, poi perché le donazioni a loro favore sono fiscalmente deducibili. Carità "pelosa" come da copione capitalistico. Ne consegue che, nella situazione descritta la nascita, la vita e lo sviluppo di queste imprese è strettamente legato agli altri due settori. Al primo per quanto riguarda gli aiuti economici, al secondo per quanto riguarda le facilitazioni in termini normativi e fiscali. Il che significa che il terzo settore, proprio perché non agisce in una situazione di conflittualità e competizione, pur giovandosi di una serie di facilitazioni che gli permettono di operare, vede limitare il suo campo di azione da almeno due fattori altamente condizionanti: il capitale d'investimento, la cui provenienza deriva da un'area aleatoria come quella delle donazioni private, e la forza lavoro che è rigorosamente volontaria, cioè disponibile sino ad un certo punto, esauribile per mancanza di motivazioni, non sempre sostituibile. Ma le cose cambiano quando l'impresa no-profit tenta di uscire dalla marginalità della economia assistenziale e sociale per entrare in quella di mercato caratterizzata dalla concorrenza, dove i costi di produzione e il profitto dettano dittatorialmente le loro inderogabili leggi, e il passaggio non può essere indolore.

Mentre gli illusionisti del radical riformismo sostengono la tesi che sia possibile organizzare una produzione che non si limiti alla sfera assistenziale, ma produrre "altro", in termini di soddisfacimento delle esigenze sociali, di sviluppo compatibile con l'ambiente, di porre come obiettivo della produzione il benessere della collettività e non più il profitto, ricavando nicchie di produzione e di distribuzione dei servizi e dei beni simili a una impostazione di tipo socialista, la lettura dei meccanismi che dominano la società capitalistica, all'interno della quale, il processo dovrebbe svilupparsi, delinea ben altri percorsi.

Perché le imprese no-profit, e quindi tutto il terzo settore, possa in teoria effettuare il salto che le collochi dentro il primo settore, occorre che si verifichino almeno due condizioni. La prima è rappresentata da un rafforzamento della sua specificità operativa che va dalla maggiore inter azione con imprese analoghe, al potenziamento della base finanziaria e tecnico produttiva. La seconda risiede inevitabilmente, se si vuole produrre "altro" rispetto alle imprese capitalistiche, ma all'interno del capitalismo, che le imprese no-profit assumano progressivamente forme di organizzazione e modalità di produzione simili alle imprese di tipo tradizionale. Ovvero, più le imprese "alternative" abbandonano la specificità di essere il residuale palliativo sociale alla progressiva latitanza dello Stato in termini di assistenza e previdenza, per entrare a tutti gli effetti nel contesto competitivo del mercato, più sono costrette, pena lo loro totale esclusione, ad adeguarsi alle leggi della competitività, subendo, volenti o nolenti, le leggi del capitale, della sua profittabilità.

C'è chi è pronto a giurare, invece, e sono i soliti riformisti radicali, che pur correndo questi rischi, le imprese no-profit possano vantaggiosamente esprimere le loro "performance" economiche anche nel primo settore, e che la loro competitività sia assolutamente sostenibile. Al riguardo, si citano tre ordini di fattori: 1)la più facile reperibilità di capitale finanziario dovuta in parte alle donazioni e alle regalie da parte di imprese e Banche che porrebbero le imprese in questione in più facili condizioni rispetto alle imprese tradizionali costrette a reperire il capitale necessario solo ed esclusivamente sul mercato finanziario. 2) Il rapporto con la forza lavoro. Le imprese del terzo settore, pur pagando meno i dipendenti, sarebbero in grado di stabilire un rapporto privilegiato nei confronti dei dipendenti, in quanto proporrebbero loro un pacchetto retributivo "particolare" composto cioè, da un salario sì più basso ma relativo a una attività economica caratterizzata da un alto valore sociale. In altri termini, la forza lavoro di queste imprese sposerebbe prima la "causa" sociale, l'obiettivo economico alternativo e soltanto dopo, in via subordinata, sceglierebbe l'ammontare della retribuzione. Il che sarebbe del tutto "fattibile", si sostiene, se la "causa" sociale fosse alta e il salario corrisposto non particolarmente basso. In più, un altro elemento che faciliterebbe l'operatività delle imprese no-profit all'interno del mercato e della concorrenza, sarebbe fornito dalle motivazioni dei lavoratori. Motivazioni che porrebbero l'impresa al riparo da agitazioni sindacali contrattuali e rivendicative, se non in assoluto, quantomeno in termini molto più accettabili rispetto all'altro settore. 3) Il comportamento della domanda. Sempre secondo questa tesi, la domanda di beni e servizi si orienterebbe più favorevolmente ( a parità di prezzi) verso le imprese del terzo settore perché più meritorie e maggiormente visibili in termini di specificità produttiva e distributiva. La maggiore visibilità diverrebbe un veicolo di pubblicità e, quindi, creerebbe maggiore attenzione presso i consumatori assicurando un comportamento costante da parte della domanda con tutti i vantaggi concorrenziali ed economici del caso.

La ciliegina su questa torta di panna montata è fornita da un elemento aggiuntivo. Essendo l'impresa no-profit impegnata a sopravvivere e a riprodursi, la massimizzazione del profitto, pur rimanendo un problema centrale, può non essere sempre perseguita qualora sia sufficiente rispettare i vincoli di bilancio per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo nel breve e medio periodo.

Se per un attimo riapriamo gli occhi e mettiamo in relazione le tre condizioni più la sua appendice con la realtà del divenire capitalistico, vediamo che nessuna di queste è in grado di operare e di sopravvivere per più di un attimo né come struttura economica operante in grado di sostenere l'impatto concorrenziale con il primo settore, a meno di diventare a tutti gli effetti come una impresa for profit, né tantomeno, come prefigurazione di una società alternativa per produzione e distribuzione della ricchezza sociale.

Già al primo punto, quello riguardante i finanziamenti, gli ostacoli che si frappongono al decollo e all'autonomia delle imprese del terzo settore si presentano in termini di difficoltà prima, e di insuperabilità poi. In primo luogo la loro vita economica sarebbe indissolubilmente legata alle imprese for profit, alle banche e a tutte quelle attività imprenditoriali del primo settore dalle quali dipendono in buona misura per le fonti di finanziamento. Il che vuol dire che il rischio di sopravvivenza legato al ciclo economico è doppio. Da un lato si troverebbero in difficoltà economiche come, se non peggio, di qualsiasi unità produttiva nel momento in cui il mercato entrasse in crisi, dall'altro vedrebbero drasticamente diminuita la disponibilità del primo settore a fornire loro finanziamenti nel momento in cui la crisi ponesse problemi di liquidità e di finanziamento alle stesse imprese e banche che precedentemente, in condizioni economiche più favorevoli, si erano comportate in modo opposto. Nessuna impresa, banca, unità produttiva o speculativa, che nei momenti di facilità economica si è resa disponibile a finanziare le imprese no-profit, in parte come pubblicità indiretta, in parte per usufruire di facilitazioni fiscali, toglierebbe dal suo portafoglio finanziario la benché minima somma se pressata da grandi difficoltà economiche. Sono le leggi del mercato che impongono simili comportamenti. Ogni richiamo agli impegni precedentemente presi, al senso di responsabilità, alla valenza sociale dei loro aiuti, risulterebbero assolutamente inefficaci e privi di qualsiasi risposta positiva. Al capitale, qualunque esso sia, in qualunque settore intervenga, non si possono chiedere comportamenti che vadano al di fuori della sua natura, quella del raggiungimento del massimo profitto; mai, tantomeno nei periodi di crisi. Né si può aggirare l'ostacolo, come qualche economista "liberal" americano di particolare talento e fantasia ha ipotizzato, agganciando i finanziamenti a tasse sui prodotti tecnologici come i computer e telefonini. Proposta risibile, e perché le imprese suddette non accetterebbero mai di pagare, uniche e sole, un simile pedaggio a tutto vantaggio della concorrenza, e perché anche questi settori non vengono risparmiati dalle crisi, anzi mai come oggi, proprio nel settore della computeristica e della telefonia, crisi, ristrutturazioni e concorrenza si esprimono con particolare violenza. Velleità impositive a parte, tanto risibili quanto impraticabili o penalizzanti la forza lavoro, come quella di prelevare uno 0'5% dai salari per finanziare le no-profit, resta il fatto che la dipendenza dal primo settore e dalla ciclicità delle crisi le rende particolarmente vulnerabili. Al contrario delle altre imprese, le crisi, portatrici sempre e comunque di dissesti economici e di riduzione dei profitti, di cessazione di una quota dei finanziamenti da parte dell'altro settore, per loro rappresenterebbero una difficoltà aggiuntiva, quella di riaprite in condizioni di azzeramento produttivo e finanziario con l'aggravante di dover aspettare che il primo settore si riprenda per poter usufruire di nuovi aiuti e agevolazioni. Tempi che non sempre sono brevi e finanziamenti che non necessariamente si riproporrebbero nei medesimi termini e che a volte potrebbero non riproporsi.

Al punto due, quello riguardante il rapporto con la forza lavoro, i presunti punti di forza ( volontariato e salari a basso livello) potrebbero trasformarsi in momenti di debolezza nel momento in cui, crisi economiche a parte, le imprese tentassero di entrare competitivamente all'interno del primo settore. Le motivazioni che possono spingere i dipendenti a fornire un lavoro gratuito fintanto che l'impresa opera nel settore dei servizi sociali e dell'assistenza verso le categorie più deboli, non è detto che reggano quando le imprese, pur continuando a presentarsi come no-profit e quindi mantenendo inalterato il loro statuto e le loro peculiarità, invadono il primo settore, quello della produzione di beni. La stessa osservazione vale per i prestatori d'opera a bassi salari. La presunta affezione che spingerebbe dei lavoratori a percepire salari inferiori alla media solo perché l'impresa da cui dipendono appartiene al terzo settore, in realtà non esiste. Mentre per il volontario la decisione di "collaborare" all'interno di una impresa no-profit rappresenta una scelta "affettiva" resa possibile dall'avere un reddito alle spalle che ne garantisce l'esistenza, per il dipendente salariato le cose non stanno assolutamente in questi termini. Molto spesso chi accetta di essere assunto a bassi livelli salariali, indipendentemente dalla natura dell'impresa, non sceglie ne in termini di preferenza né tantomeno in termini di affezione, ma è costretto a farlo in mancanza di altre alternative. Per cui il vantaggio su cui le imprese no-profit dovrebbero contare per sostenere la loro competitività non solo non esiste, ma potrebbe risolversi nel suo contrario. Nell'attimo in cui dovessero aprirsi spiragli occupazionali nelle imprese degli altri settori, la forza lavoro si sposterebbe immediatamente con tanti saluti ai servizi sociali, all'assistenza e alla presunta affezione nei confronti dell'impresa. Inoltre va rilevato come, verosimilmente, più l'impresa si diversifica con attività produttive inerenti il primo settore, più perderebbe in immagine e più le rivendicazioni salariali sarebbero possibili e meno gestibile diventerebbe la disponibilità di quella parte di lavoratori volontari che tenderebbero ad assumere un comportamento economico simile a quello dei salariati, con conseguenze immaginabili per la pace aziendale. Peggio ancora vanno le cose quando l'inflazione, le finanziarie e il progressivo, anche se ormai residuo, smantellamento dello Stato sociale spingono non solo alla disaffezione del lavoro ma anche all'esasperazione della lotta rivendicativa.

La stessa cosa, anche se a termini rovesciati, vale per il comportamento della domanda di beni prodotti dalle imprese no-profit. Certamente una parte della domanda, peraltro minima, per il soddisfacimento delle sue esigenze in termini di merci e servizi, può orientarsi verso le imprese del terzo settore ignorando l'operatività economica degli altri due. Altrettanto certamente ciò che spinge questo piccolo segmento della domanda al suo orientamento nei consumi a favore del primo settore risiede nella visibilità e nell'opera "meritoria" delle imprese no-profit. Ma se il problema è quello di individuare nel comportamento della domanda una della condizioni della sostenibilità della concorrenza da parte delle imprese del terzo settore, allora va presa in considerazione tutta la domanda e non soltanto un suo segmento. In questo caso, vedremmo che il comportamento della domanda, la sua elasticità o rigidità, la costanza o la variabilità, dipendono in ultima analisi dal prezzo a cui vengono proposti sul mercato i beni, le merci e i servizi a parità, ovviamente, di qualità ed efficacia. La questione è tutta qui, o i prezzi sono concorrenziali, ed allora lo è anche l'impresa, oppure inevitabile è l'uscita dal mercato con il relativo fallimento dell'impresa e del suo progetto "politico". 0 tutti i fattori della produzione sono orientati verso l'obiettivo "prezzo" con tutto ciò che comporta sul terreno dall'amministrazione tra il capitale investito, i costi di produzione e non ultima la forza lavoro, oppure l'impresa non soltanto non potrà reggere il peso della concorrenza degli altri settori, ma avrà come unico sbocco la rinuncia a qualsiasi attività economica che esuli dall'ambito volontaristico assistenziale, ovvero i "balzi" in avanti le sono obbligatoriamente preclusi.

Ne consegue che l'ottimizzazione dei prezzi rispetto al capitale investito, così come la massimizzazione del profitto, non sono obiettivi che l'impresa può anche non raggiungere, ma rappresentano le condizioni necessarie per garantirsi uno spazio all'interno della concorrenza capitalistica. In questo caso, però, saremmo in presenza della situazione opposta a quella dichiarata, ovvero che le imprese no-profit possono crescere all'interno dei rapporti di produzione capitalistici perseguendo il loro obiettivo sociale non legato al profitto e a tutte le altre categorie economiche di mercato. In realtà avviene il contrario: è il capitalismo che costringe queste imprese ad adeguarsi alle sue leggi, pena la loro estinzione.

Gli stessi fautori del terzo settore, gli "illuminati" riformisti più o meno radicali, o addirittura coloro che lo prefigurano quale struttura portante della società comunista, ritengono che il suo sviluppo sia legato alle sempre crescenti difficoltà del capitalismo di comporre le sue contraddizioni, di perseguire con facilità la valorizzazione del capitale, aprendo voragini incolmabili nel tessuto sociale sia in termini di smantellamento dello Stato sociale che sotto forma di pauperizzazione crescente, disoccupazione e di compressione delle condizioni di vita della stragrande maggioranza dei lavoratori.

Nei loro saggi, Da Rifkin a Bihr, da Revelli a Zamagni, i bassi saggi del profitto, accompagnati da un ciclo economico sempre più corto in cui, a crisi economiche lunghe e profonde corrispondono riprese deboli e corte caratterizzate da incrementi del Pil progressivamente più bassi, dove l'espulsione di forza lavoro dai meccanismi produttivi, la dilatazione della povertà e l'aggressione al costo del lavoro sono le condizioni di sopravvivenza del capitale, appaiono per essere il terreno favorevole alla nascita e al potenziamento delle imprese del terzo settore. In altri termini, più il capitalismo mostra la sua crisi strisciante più si aprirebbero gli spazi per quelle imprese che producono "altro" in modo "diverso", antitetico rispetto al alla società capitalistica. Nei fatti, partendo da queste premesse, peraltro corrette sotto l'aspetto meramente descrittivo, si dimostrerebbe il contrario, e cioè l'enorme e sempre crescente difficoltà nella quale si troverebbero le imprese no-profit nel momento in cui si apprestassero ad invadere gli altri due settori lottando sul terreno della competizione economica e avendo alle spalle uno scenario capitalistico come quello descritto.

Crisi più profonde e ricorrenti, infatti, non avrebbero altra conseguenza se non quella di rendere più acuta la competizione tra i vari settori del capitale ai quali non resterebbe altro che intensificare le strategie di aggressione e di difesa nei confronti degli avversari partendo proprio dall'eliminazione di tutte quelle condizioni di favore di cui, eventualmente, le imprese concorrenti che operano sullo stesso mercato, o su mercati contigui, usufruiscono. Ammesso e non concesso che le imprese del terzo settore abbiano potuto e possano usufruire di una serie di vantaggi economici e fiscali, nel momento in cui dilatano la loro attività agli altri due settori, nell'attuale e futuro scenario dei rapporti di produzione capitalistici tali vantaggi verrebbero completamente azzerati.

Le facilitazioni fiscali, ad esempio, che appaiono essere una gentile concessione da parte dello Stato per chi si occupa di opere sociali e caritatevoli, possono venire meno nel momento in cui le necessità di bilancio dello Stato (leggi le finanziarie che imperversano in tutti i paesi a capitalismo sviluppato) e il salto produttivo operato dalle imprese del terzo settore ( non più e non solo servizi sociali e assistenza, ma anche merci in diretta concorrenza con le altre imprese) lo impongano. Nei momenti di crisi, se non ci pensasse lo Stato a ridurre o a togliere del tutto le facilitazioni ci penserebbero le imprese tradizionali a ricordarglielo con il solito lavoro di "lobbing" o tramite misure ricattatorie di topo elettoralistico. Il discorso giustificatorio suonerebbe all'incirca così: "una cosa è concedere facilitazioni fiscali a delle imprese che si occupano di questioni sociali, altra cosa è avvantaggiare un settore produttivo che a tutti gli effetti rientra nella competizione degli altri settori, anche se mantiene delle prerogative tipiche del terzo, magari solo ed esclusivamente per ricavarne dei vantaggi. Poi, perché mai le imprese for profit dovrebbero veder agevolate da parte dello Stato delle concorrenti che si occupano di ciò di cui lo Stato dovrebbe occuparsi, mentre per il resto della loro attività, destinata peraltro a essere quella dominante, poco o nulla le distinguerebbe dal resto del mondo produttivo. In altri termini sarebbe lo stesso mondo produttivo ad insorgere imponendo allo Stato che le imprese del terzo settore o rimangono all'interno dell'assistenzialismo, al di fuori di qualsiasi forma di concorrenza diretta o indiretta, palese o non dichiarata, e allora le agevolazioni, finanziarie permettendo, possono continuare, altrimenti ognuno per sé e dio per tutti.

I finanziamenti agevolati seguirebbero il medesimo percorso. Le banche e soprattutto le imprese tradizionali che normalmente devolvono una quota, seppur minima, delle proprie liquidità al finanziamento delle no-profit, nei periodi di crisi si vedrebbero costrette ad annullare le loro "regalie". Non solo, ma nel momento in cui il terzo settore entrasse stabilmente nell'ambito della concorrenza con gli altri due, immediata sarebbe la reazione. I finanziamenti cesserebbero dall'oggi al domani. Nessuna impresa accetterebbe di veder agevolata una concorrente, a maggior ragione se le agevolazioni dipendessero dallo stornamento dal proprio bilancio di risorse finanziarie. Anzi, lo scenario facilmente immaginabile sarebbe quello di un boicottaggio più o meno esplicito del mondo imprenditoriale tradizionale nei confronti di un avversario ambiguo, sfuggente, ma non per questo poco degno di sospettosa attenzione e da tenere comunque sotto controllo. Pensare che il mondo produttivo continui a foraggiare le imprese no-profit anche quando esse si collocano sul loro terreno non è solo una utopia, è una banale stupidaggine, come è stupido pensare che nel quadro dei rapporti di produzione capitalistici ci sia spazio per lo sviluppo di un settore, che partendo dal volontariato su e per questioni di assistenza sociale, finanziato dalla buona volontà e dal senso "umanitario" degli altri due settori, arrivi a produrre al di fuori della logica del profitto ma facendo del profitto e della concorrenza la sua ragione di vita. Se tutto ciò è stupido, è addirittura demenziale individuare nel terzo settore il presupposto socialista del produrre altro, del produrre contro la logica del sistema e delle sue categorie economiche, quando, invece, sono queste che regolano non solo la produzione normale ma gli stessi rapporti tra di essa e le velleitarie ambizioni di diversità o di antagonismo, peraltro impossibile. I limiti del riformismo e del radical riformismo, da sempre, ma nella fase attuale della vita del capitalismo ancora di più, risiedono nel tentativo di dare delle risposte alle contraddizioni della società capitalistica rimanendo all'interno della logica che le determinano, senza prevedere nessun avvenimento socialmente traumatico che imponga al capitale alle sue leggi ed ai suoi operatori sociali di non muoversi e di non produrre i suoi inevitabili, devastanti effetti.

Altrimenti saranno le categorie economiche del capitale a piegare qualsiasi velleitaria iniziativa sia sociale che economica alle sue inderogabili leggi. Così è e sarà per le presunte situazioni di vantaggio che le imprese non profit, e più in generale tutto il terzo settore, goderebbero sul contenimento del costo del lavoro su cui si fonda una delle maggiori speranze sul futuro sviluppo di tutto il settore. A parte le considerazioni precedentemente espresse, l'evolversi del rapporto tra capitale e forza lavoro nelle società capitalistiche moderne, testimonia esattamente il contrario. La scansione delle crisi, l'esasperazione della concorrenza che i bassi saggi del profitto impongono ai meccanismi di valorizzazione del capitale, sono tali da scatenare il più grande attacco alla forza lavoro, attacco che non ha precedenti nella storia del moderno capitalismo. Accanto allo smantellamento dello Stato sociale, che da solo ha creato problemi alla vivibilità del mondo del lavoro con la riforma pensionistica e quella sanitaria, si stanno abbattendo sul tutto il proletariato una serie impressionante di misure che hanno come obiettivo quello di contenere al massimo il costo del lavoro. La flessibilità e la precarietà, che oggi vengono aggressivamente imposte dal capitale come unica condizione alla sua sopravvivenza sotto forma di lavoro interinale, contratti d'area, d'ingresso, di formazione e di tutte le "soluzioni" che la borghesia riesce a mettere in atto, altro non sono che la drastica contrazione del salario a livelli di vero e proprio affamamento. L'esorbitante numero di disoccupati e di inoccupati, di diseredati e di gente che sopravvive ai margini della società, consente alla borghesia di imporre ai "fortunati" che un posto di lavoro ancora ce l'hanno di accettare salari inferiori anche del 60%. L'attuale fase dal capitalismo e i suoi scenari futuri sono pesantemente segnati dalla anti storica necessità di creare voragini sempre più profonde nell'assistenza sociale, di produrre finanziarie a colpi di tasse e di tagli alla spesa pubblica, di aumentare il numero dei diseredati e dei disoccupati e di estorcere quote sempre crescenti di plus valore al proletariato comprimendo al massimo i salari. Se queste non sono "scelte" ma necessarie vie che sole portano alla conservazione del capitalismo, allora il differenziale tra il costo della forza lavoro impiegato nelle imprese no-profit e quelle for profit è destinato diminuire. Nei paesi ad alta industrializzazione la ricerca del contenimento del costo della forza lavoro passa attraverso tre momenti principali. Il primo riguarda l'assottigliamento prima, l'azzeramento poi, del salario differito ( pensioni, sanità ecc.). Il secondo riguarda il fenomeno in crescita esponenziale del decentramento produttivo nelle zone in cui più facile sia il reperimento della forza lavoro a basso costo, sino a dieci volte meno rispetto ai salari interni ( Asia, Sud Est asiatico, America latina ed Est europeo). Il terzo consiste in una serie di leggi e di prassi imprenditoriali che comprimano i salari ben al di sotto dei vecchi contratti. In un simile contesto il vantaggio da parte delle imprese appartenenti al terzo settore ( vantaggio peraltro presunto e praticabile soltanto in determinati frangenti e per periodi di breve, media durata) verrebbe meno nel momento in cui gli altri due settori, spinti da una concorrenza sempre più esasperata, la cui esasperazione è direttamente proporzionale alla diminuzione dei saggi di profitto, si vedrebbero costretti ad operare drastiche riduzioni dei salari reali e nominali sino a portarne il potere d'acquisto al livello di quelli appartenenti al terzo settore.

Ne consegue che, mettendo un fila tutti gli elementi che dovrebbero consentire al terzo settore di decollare all'interno dei meccanismi economici del capitalismo, di crescere sino a creare le condizione del suo superamento, come forma economica di produzione e di distribuzione della ricchezza sociale, avvalendosi delle crisi e del maturare convulso delle contraddizioni del processo di valorizzazione del capitale, il risultato che ne deriva è il suo opposto. Senza che una frattura rivoluzionaria intervenga ad interrompere il circolo vizioso attorno al quale si avvitano contraddittoriamente le categorie economiche capitalistiche, in assenza di una lotta di classe che imponga con la forza un perentorio freno alle logiche del capitale, del profitto e del mercato, senza cioè, un evento traumatico che impedisca al capitale di continuare ad essere tale, saranno le sue irriformabili leggi a condizionare qualsiasi esperienza economica che nasca dal suo seno e non il contrario.

Le necessità di valorizzazione del capitale, i sempre meno tollerabili bassi del saggio del profitto, l'esasperazione della concorrenza sia sul mercato interno che internazionale, la battaglia dei prezzi, le lotte senza quartiere e senza esclusione di colpi per l'accaparramento di segmenti dei mercati finanziari, commerciali, delle materie prime e della forza lavoro, la prospettiva di crisi economiche sempre più frequenti e lunghe a fronte di riprese sempre più brevi e deboli, rendono le società capitalistiche avanzate ossessivamente proiettate a contenere i costi di produzione e a non concedere alcuno spazio alla concorrenza sia che si presenti con il volto tradizionale che con quello meno identificabile del no-profit. Tanto meno sarebbero disposte a tollerare iniziative che pur presentandosi simili ed operanti all'interno del medesimo ambiente economico, mostrino l'intenzione di produrre "altro", di produrre "contro" per dare vita ad una organizzazione sociale che sia, anche se soltanto nel regno delle intenzioni, l'antitesi di quella vigente. Il velleitarismo riformista che pretende di combattere il capitalismo dall'interno "nel capitale contro il capitale" creando oasi di socialismo nel tessuto connettivo del capitale, di cui le imprese no-profit sarebbero in "nuce" la premessa, è destinato a fallire al primo impatto con la realtà. Al riguardo non deve sorprendere il relativo sviluppo che in questi ultimi anni hanno avuto le imprese del terzo settore un po' in tutti i paesi capitalistici avanzati. Per il terzo settore, infatti, l'unica possibilità di esistenza consiste nel rimanere nell'ambito di una attività assistenziale, caritatevole, basandosi sul volontariato e ricorrendo solo eccezionalmente al lavoro salariato, senza invadere territori che non devono essere di sua competenza. Nel momento in cui lo facesse, entrando nella competizione con gli altri due settori della produzione, si configurerebbero immediatamente due condizioni di assoluta gravità. La prima nella quale lo sfruttamento della forza lavoro diventerebbe la condizione dominante del loro essere economico. La seconda che lo stesso sistema le respingerebbe come dei corpi estranei prima ancora del loro decollo agendo sulla eliminazione di tutte le condizioni di favore di cui godevano in precedenza, per poi batterle sul terreno della concorrenza capitalistica dopo averle piegate alle leggi del capitale, qualora se ne fosse presentata la necessità.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.