La riforma-smantellamento dello stato sociale

I tagli al cosidetto Stato sociale, sempre più profondi ed estesi, sono diventati una necessità vitale per l’economia capitalistica. I criteri di Maastricht c’entrano solo formalmente; la prova è quello che avviene negli Stati Uniti, il faro del capitalismo mondiale, dove si riduce ogni assistenza e si eliminano le ultime "garanzie sociali" gettando nella disperazione milioni di cittadini di serie B. La spesa sociale complessiva è fra le più basse dei maggiori Paesi industrializzati e non arriva al 30 per cento del pur colossale Prodotto interno lordo. Più ricchezza ai borghesi e più miseria ai proletari.

La competitività sui mercati internazionali è una questione di vita o di morte per le varie economie nazionali. Alla caccia di quelle che vengono definite come "certe opportunità del mercato globale", la classe borghese deve necessariamente imporre un basso costo del lavoro e minori spese sociali. Deve strigliare una classe operaia che, soprattutto in Italia, viene accusata di aver fin qui goduto di "troppi e generosi benefici".

Più sviluppo uguale miseria crescente

L’ex socialista Giuliano Amato, ancora presente sulla scena politica e che come autore di stangate se ne intende, così sintetizza la situazione:

Adattare il nostro territorio ai flussi di capitali e merci dell’economia globale, che si fermano dove più gli conviene.

Per offrire ai capitali questa convenienza, l’attuale modo di produzione non consente alcuna variante indipendente dalle sue storiche leggi di movimento. Questo sistema, giunto al suo massimo sviluppo, non è più in condizione di finanziare spese improduttive, che non consentono alcuna valorizzazione del capitale, per soddisfare i bisogni sociali dei cittadini. Quelli, s’intende, privi di adeguati conti in banca e previdenti polizze assicurative.

Sia pure a denti stretti la classe dominante si vede costretta ad ammettere che le risorse finanziarie dello Stato (quando ci sono) devono essere destinate a ben altro uso che quello delle spese sociali e assistenziali. Tali spese - oltretutto strapagate dagli stessi lavoratori con parte del loro salario diretto e indiretto - sono diventate un fardello insopportabile per il capitale e il suo Stato.

Nella società capitalistica il rapporto tra benessere sociale e sviluppo economico è inversamente proporzionale: se cresce il primo, diminuisce l’altro. E lo sviluppo del capitalismo, quando non intensifica senza soste lo sfruttamento del lavoro umano (concedendogli parti sempre minori della ricchezza prodotta) e quando non allarga la produzione di merci e la loro vendita, entra in una crisi devastante.

Non potrebbe essere altrimenti poiché le contraddizioni operanti all’interno del capitalismo sono evidenti. Diminuendo salari e pensioni, anche attraverso il pagamento di prestazioni fino a ieri in parte e apparentemente gratuite (sanità, scuola, eccetera) e riducendo la disponibilità di posti di lavoro a seguito del progresso tecnologico, si riduce l’acquisto di prodotti-merci, anche riferito a generi di prima necessità. Il capitalismo non produce per soddisfare i bisogni reali degli uomini: produce merci da vendere per ricavare un profitto (giusto ed equo!) senza il quale nella società borghese non si muove foglia.

Crolla così una equazione fino a ieri ritenuta fondamentale dall’economia politica dei professori universitari: sviluppo capitalistico uguale ad occupazione di salariati e benessere. Questi risultati non più conseguenti ma addirittura contrapposti - denunciati dalla critica marxista 140 anni fà - sono diventati ufficiali proprio dopo il cosidetto trionfo mondiale del capitalismo. Un trionfo accompagnato dai sinistri scricchiolii dei rapporti economici, dall’aumento della massa della miseria e dall’imbarbarimento delle relazioni sociali. Le classi presenti nella società capitalista, proletariato e borghesia, vedono i propri interessi contrapporsi violentemente, e i propri obiettivi di sopravvivenza farsi inconciliabili.

La borghesia grida allarmata: se la spesa per le prestazioni sociali cresce alla stessa velocità del reddito, come si potranno risanare i conti pubblici, cioè disporre di risorse per sovvenzionare gli industriali e rendere competitiva l’economia? E chiamano "innovazione finanziaria" lo snellimento dello Stato sociale per recuperare mezzi finanziari da impiegare in modo "più redditizio in un mercato con ampi spazi".

Il vero deficit dello Stato (oltre gli sprechi e le spese parassitarie legate al dominio di classe, alla sua gestione e difesa) è oggi rappresentato dagli interessi, oltre 190 mila mld di lire, pagati annualmente ai possessori di Bot e Cct; cioè alla grande, media e piccola borghesia, alle imprese e banche. E sul debito pubblico tutti speculano per il proprio arricchimento privato.

La minaccia della bancarotta statale, sempre a un passo dal concretizzarsi, viene usata come un ricatto sul proletariato. In realtà si tenta di mascherare l’impossibilità di mantenere dignitosamente e di assistere efficacemente sia i giovani che gli anziani, i deboli, gli inabili e gli invalidi. Questa impossibilità dipende esclusivamente dalla attuale organizzazione economica e sociale instaurata dalla classe borghese. È uno dei risultati del modo di produzione e distribuzione capitalistico che tutto mercifica con l’adorazione del Dio Profitto, della proprietà e dell’interesse privato.

Le spese sociali, pur insufficienti e inadeguate, sono diventate incompatibili con il bilancio statale dopo che quello stesso bilancio, amministrato per la sopravvivenza della società divisa in classi, è diventato incompatibile con ogni tipo di assistenza e di servizio ai bisogni sociali. Il capitale finanziario, sia esso pubblico che privato, non nutre alcuna simpatia per le spese sociali; se quello privato si dà alla speculazione legale e illegale, quello pubblico deve assicurare il più ampio sostegno alle imprese produttive, alle loro ristrutturazioni tecnologiche, alle loro lotte competitive sui mercati.

Stato sociale, la riforma delle riforme

Man mano che la crisi del capitalismo avanza, in un alternarsi di stagnazioni, depressioni e recessioni, assieme agli attacchi al salario diretto si intensificano quelli al salario indiretto. È infatti col salario indiretto o differito che la borghesia ha finanziato quel fantomatico Welfare State dalle cui casse ha attinto a piene mani per i propri privati interessi di classe dominante e privilegiata.

La spesa sociale fondamentale (pensioni, sanità, servizi assistenziali) è oggi in Italia pari al 25,8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Dunque, solo un quarto della ricchezza prodotta viene destinato a pensioni e servizi sociali di cui godono gli stessi borghesi; tuttavia, per l’economia capitalistica questa sarebbe una situazione insostenibile. Lo scandalo dovrebbe invece consistere nel fatto che la media europea della spesa sociale è superiore alla nostra, essendo pari al 28,5 per cento del Pil dei vari Paesi. Siamo cioè, in Italia dove non si perde occasione per piangere sull’elevato costo del lavoro, al di sotto di quasi tre punti: non di tagli si dovrebbe quindi parlare alla vigilia dello strombazzato ingresso nell’Europa capitalistica, ma di un aumento delle spese sociali quantificabile in almeno 60.000 miliardi annui. Ma naturalmente anche in tutti gli altri Paesi si sta procedendo a tagli consistenti.

Governo, partiti, sindacati, stampa e Tv hanno un solo obiettivo: per salvare il Paese bisogna riformare, cioè "rimodellare, ridimensionare, snellire" pensioni e sanità. Chi finge di non voler smantellare il tutto, parla di riequilibrare le spese: la ricetta sarebbe quella di togliere ai meno poveri per poter continuare a dare qualche elemosina ai più poveri. Il metro della povertà non ha inizio nè fine...

Ipocritamente, si sostiene che - a parte un pò’ di assistenza per i cittadini privi di garanzie (cioè quelli ridotti alla disperazione) - tutti gli altri dovranno trovare da sé "la capacità di far fronte, normalmente, ai propri bisogni". Insomma, secondo i lautamente stipendiati esperti borghesi, è finita la pacchia dei "benefici diffusi in tutta la cerchia degli strati sociali". Ciascuno se li deve creare da sé: alla classe borghese e ai suoi reggicoda spettano per diritto storico; gli altri si rimbocchino le maniche e si sacrifichino per tenere in piedi la baracca nazionale.

Anche la Chiesa offre la propria disponibilità per una "riforma" dello Stato sociale. Il presidente della Commissione Cei per i problemi sociali, il vescovo F. Charrier, si è dichiarato pronto a sollecitare in nome della "democrazia economica" gli interventi correttivi della pura assistenza e la creazione delle pensioni integrative private.

Inganni e falsi sotto la voce pensioni

Soffermiamoci sul sistema previdenziale. Sarebbe, fra le spese sociali, quella più alta in Europa, grazie al trucco di comprendervi non solo le pensioni ma anche tutte le assistenze, le spese di sostegno alla politica industriale e gli ammortizzatori sociali (prepensionamenti, cassa integrazione, ecc.).

Sempre in rapporto al Pil, in Italia si spenderebbero in pensioni il 15,4 per cento rispetto a una media europea dell’11,9. (La nostra spesa sociale complessiva va poi al di sotto della media europea, per quasi tre punti, grazie alle inferiori spese per malattia, invalidità, sostegno ai disoccupati e alla famiglia, contributi casa, collocamento lavoratori.)

I dati, forniti dall’Eurostat, sono girati per mesi sui vai quotidiani, ma sono relativi al 1993. Per il 1995 altri enti di ricerca italiani, pubblici e privati, hanno segnalato invece un rapporto fra spesa pensionistica e Pil già disceso al 13,5 per cento (due punti in meno in soli due anni). In verità, la somma destinata veramente ai circa 11 milioni di pensionati rappresenta meno del 10 per cento del Pil.

Ma visto che tutte le dinamiche del capitalismo sono in ribasso, la borghesia si scatena contro le apparenti "dinamiche in crescita" delle pensioni e delle altre spese sociali. In tutti i casi, l’ammissione è evidente: questo sistema economico e questo ordine sociale non sono più in grado di mantenere condizioni di vita in qualche modo accettabili per i proletari di tutte le generazioni. La classe dominante è costretta a far girare all’indietro la ruota della storia.

Dentro i bilanci dell’Inps

Sull’ultimo bilancio dell’Inps figura un carico di oneri impropri per 16.795 miliardi di lire così suddivisi: 932 mld in prepensionamenti; 6.249 mld in esoneri e riduzioni contributive che lo Stato non restituisce; 3.872 mld per mobilità, cassa integrazione, disoccupazione; 5.737 oneri non coperti del fondo coltivatori diretti, coloni e mezzadri (ante 1989). Queste spese vengono rimborsate dallo Stato il quale negli anni trascorsi (1989-96) ha però accumulato una cifra di 128.570 miliardi che hanno gravato sui conti dell’Inps. Una vera e propria rapina dai contributi versati dai lavoratori.

È più che evidente come il deficit 1996 di 21.619 mld sia in realtà un falso, dal quale viene poi fatto derivare il presunto dissesto finanziario dell’Inps. La stessa valutazione va fatta per il conto patrimoniale dell’Istituto, sul quale pesa - oltre ai crediti nei confronti dello Stato - anche una evasione contributiva stimata in 40.000 mld (che restano nelle tasche dei capitalusti e sono del tutto irrecuperabili) e crediti già definiti in 37.000 mld.

Completiamo il quadro con altri dati sulle pensioni cosidette "privilegiate" di cui godrebbe la maggioranza degli anziani.

Sono 648.500 le persone oltre i 65 anni che, totalmente prive di reddito, ricevono una pensione sociale di 498.250 lire. 7 milioni 145.752 titolari di pensioni Inps - sul totale di 10 milioni 350.000 - ricevono mensilmente un assegno inferiore al milione di lire; di questi, 4 milioni sono addirittura al minimo, cioè 685.400 lire. Fra i 6 milioni 500.000 poveri ufficiali presenti nel nostro Bel Paese, 2 milioni 200.000 sono anziani e in gran parte donne.

Con una valanga di prepensionamenti si sono aiutate le grandi aziende a liberarsi di migliaia di esuberi a seguito dei processi di ristrutturazione. Dal 1980 al 1996 oltre 391 mila lavoratori sono stati mandati anticipatamente in pensione con un costo complessivo per il solo Inps di 22.700 miliardi di lire su un totale di 53.300 mld.

I costi degli ammortizzatori sociali messi in campo dallo Stato borghese per fornire un concreto aiuto alle esigenze anticrisi del capitalismo sono stati in buona parte scaricati sull’Inps. Nel solo 1996 dal bilancio dell’ente previdenziale sono stati sottratti oltre 1.500 mld per coprire parte della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e sussidi di disoccupazione.

Questa rapina continuata di contributi dei lavoratori per le loro pensioni di vecchiaia, dirottati invece per spese "improprie" è la causa principale del dissesto dell’Inps. L’assistenza dei deboli e bisognosi dovrebbe essere oggi all’ordine del giorno, ma anche l’elemosina che lo Stato concede ai più disgraziati proletari viene fatta pagare unicamente alla classe operaia, sfruttata, e non alla classe borghese, sfruttatrice. L’inganno, l’ipocrisia politica consiste nel fingere che a sacrificarsi sia tutta la cosiddetta "comunità nazionale dei cittadini", mentre non è affatto lo Stato, cioè l’astratta comunità politica, che si fa carico della spesa sociale. In questo caso la fa pagare all’Inps con i contributi pensionistici dei lavoratori, per poi sostenere che l’Istituto è in deficit e quindi bisogna tagliare le pensioni!

La separazione delle spese assistenziali da quelle previdenziali avrebbe da anni risolto tutti i problemi e portato l’Inps a un forte attivo. Ma avrebbe però un costo: circa 60.000 miliardi annui che lo Stato e la classe dominante non sono disposti a sborsare dalle loro tasche e che quindi, in un modo o nell’altro, devono essere strappati ai lavoratori.

Infatti, nel 1996, l’Inps ha speso oltre 62.000 mld (su un fabbisogno complessivo di 74.000 mld) per l’assistenzialismo e "spese improprie" in generale.

Lo spostamento delle spese esclusivamente assistenziali e non previdenziali-pensionistiche dal bilancio Inps al bilancio dello Stato (fisco), non è, ai fini contabili, che una partita di giro. I deficit dell’Inps passano allo Stato, e chi paga realmente sono sempre i lavoratori.

Con lo spostamento, a carico del debito pubblico, di almeno 120 mila mld di lire pari al "rosso" complessivo attuale dell’Inps, il conto patrimomiale dell’Istituto andrebbe in attivo. Infatti ad oltre 140 mila mld assomma il debito accumulato dall’Inps verso lo Stato: si tratta cioè di anticipazioni di Tesoreria concesse per far fronte a prestazioni "aggiuntive" non riguardanti la previdenza vera e propria. Con una partita virtuale, ovvero con il trasferimento "definitivo" di circa 120 mila mld di lire, è evidente che se l’Inps riderebbe, lo Stato piangerebbe. Tuttavia questa sistemazione contabile delle partite pregresse consentirebbe, accanto al negativo indebitamento statale, un positivo alleggerimento dei conti pubblici 1997 in vista del raggiungimento dei parametri di Maastricht. Il nuovo attivo patrimoniale ottenuto dall’Inps compenserebbe i disavanzi di esercizio dell’anno in corso, e quindi ridurrebbe il fabbisogno finanziario dello Stato di oltre 11 mila mld di lire (secondo gli studi riservati dell’Inps). Una "partita" giocata comunque e sempre sulla pelle di lavoratori e pensionati.

È bene precisare ulteriormente che quegli oltre 120 mila mld di debiti accumulati dall’Inps riguardano i disavanzi patrimoniali della Gias (Gestione interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali); le spese sostenute per assegni familiari dal 1988 in poi; gli sgravi contributivi sui rapporti di apprendistato; altre varie provvidenze e le liquidazioni delle pensioni agricole, antecedenti il 1989.

I ragionieri statali, i giovani disoccupati e gli anziani pensionati

I ragionieri del Tesoro avrebbero calcolato che di questo passo la spesa pensionistica (289 mld nel 1997) salira a 337 mld nel Duemila. Tanto basta perché la borghesia denunci l’attuale sistema pensionistico come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Si spara quindi ad alzo zero sugli anziani che coi loro "eccessivi privilegi" e col fatto che oggi campano più a lungo condannerebbero i giovani alla disoccupazione e alla miseria. Come se ciò non bastasse, sia la crisi economica (che scompare alla sera per ritornare più grave di prima al mattino) quanto il calo occupazionale (ecco ciò che falcia veramente le gambe ai giovani!) abbassano le entrate contributive.

I giovani - così ragiona l’intellighenzia borghese dopo aver ritirato i compensi privatamente pattuiti - lavorano anche per mantenere gli anziani. Poiché i giovani faticano a trovare un lavoro, gli anziani necessariamente devono fare maggiori sacrifici. Anzi, meglio sarebbe se abbandonassero questa...valle di lacrime. Se non lo fanno, diventano una palla al piede per il futuro dei loro stessi figli!

Le teste d’uovo della borghesia, seguendo le logiche del capitalismo, si inventano che - in presenza di uno sviluppo scientifico e tecnologico da capogiro e con enormi potenzialità produttive - le "generazioni che lavorano" non sarebbero più in grado di mantenere quelle anziane. I lavoratori attivi producono ricchezze colossali e montagne di beni superflui per le classi dominanti e parassitarie, ma non ciò che è necessario e utile per i proletari anziani, ammalati, e per tutti quelli costretti alla inattività.

La produzione di merci è destinata solo a chi ha soldi per comperarle. I proletari hanno condizioni di vita tanto più precarie quanto più bassi sono i loro salari e pensioni; quando il capitale non trova conveniente lo sfruttamento della loro forza-lavoro, cadono in povertà e vengono emarginati.

Non sono gli anziani che "si accaparrano i soldi per il futuro dei nostri figli", come ipocritamente la borghesia va dicendo. È il modo di produzione e distribuzione capitalistico che va verso il baratro della crisi economica e sociale, negando un effettivo miglioramento delle condizioni di vita per tutti.

Il capitalismo non può vedere né ammettere altra soluzione, anche quando in realtà oggi esiste la concreta possibilità di produrre beni in sovrabbondanza per tutti. È una conquista storica la sempre minore necessità di tempo di lavoro, e quindi la possibilità di avere sempre più tempo libero a disposizione. Tempo libero - per giovani e anziani - da trascorrere non in miseria ma soddisfacendo a tutti i bisogni e i sani piaceri della vita umana.

Ma fino a quando durerà il capitalismo, non si può avere una eguale distribuzione sia del lavoro che dei suoi prodotti fra tutti i membri della società. Ciò che avviene - per forza di cose - è esattamente il contrario, poiché il sistema non ammette alcuna "ripartizione" ma unicamente "capitalizzazione".

Si prevede che nel 1999 per ogni 100 lavoratori attivi vi saranno 92 pensionati. Lavoratori - nota bene - "potenzialmente" attivi, ma di cui il capitale ne potrà impiegare precariamente forse appena una settantina. Di fronte alle categorie economiche del capitalismo (denaro, merci, salari, profitti) il futuro diventa perciò un buco nero. Tanto per i giovani quanto per gli anziani.

Ultima previsione: nel 2050 per ogni cento persone in età lavorativa (15-64 anni) ci saranno in Italia 60 persone con più di 65 anni (oggi ve ne sono 23). Il capitale suda freddo e pensa di elevare a 75 anni l’età lavorativa. Ma così raddoppierebbe l’esercito dei senza lavoro, dagli attuali tre ad almeno sei milioni. Ed è ancora la Ragioneria dello Stato che ci fornisce la sua rosea previsione sul futuro occupazionale: dagli attuali 20 milioni di occupati si scenderà a 15 milioni 500 mila nel 2040.

Saranno proletari "fortunati", costretti a lavorare "flessibilmente" per un misero salario, e che pur essendo in grado di produrre almeno il doppio delle attuali ricchezze, vedranno sopravvivere miseramente i loro genitori pieni di malanni e i loro figli disoccupati.

Una cura per uccidere il paziente

Ed ecco le lungimiranti misure studiate - da destra e da sinistra a suon di tagli e riduzioni - per salvare il Paese, per riequilibrare la spesa sociale, per "ristabilire l’equità intergenerazionale". Con tagli annualmente quantificabili in decine di migliaia di miliardi.

Nei prossimi 10 anni (grazie alle precedenti riforma) 110.000 miliardi verranno sottratti ai vecchi e nuovi pensionati attraverso la fine del metodo di calcolo retributivo, cioè quel metodo che avvicinava le pensioni a circa l’80 per cento del salario medio degli ultimi dieci anni. Il nuovo metodo contributivo assegnerà solo pensioni calcolate in base ai versamenti effettuati in tutta la vita lavorativa. Si risolverà così definitivamente la questione delle pensioni di anzianità (concesse prima del limite di vecchiaia ufficiale): a parte l’età (per tutti 65 o 67), il minimo di 35 anni di contributi versati diventerà per la maggioranza dei proletari una chimera. La cosidetta "quota minima di 90" (cioè la somma dell’età più gli anni di contributi) sarà una cinquina al lotto. Inoltre, non tutti i periodi di contribuzione figurativa (malattia, maternità, servizio militare, disoccupazione) saranno conteggiati come prima.

Naturalmente, chi oggi gode ancora del primo trattamento (calcolo retributivo) sarà additato come "un privilegiato dal punto di vista dell’equità intergenerazionale" (così recita un documento a uso interno della Ragioneria dello Stato) e dovrà aspettarsi particolari stangate.

L’affare dei fondi pensione

A questo punto, la borghesia estrae dal cilindro il coniglietto di pelouche: ridotta a una elemosina la previdenza pubblica, ecco che i proletari alle prese con i lavori flessibili, saltuari, part-time e con i relativi salari da fame, potranno ricorrere alle pensioni integrative. Potranno cioé risparmiare, coi loro magri salari e la rinuncia alle liquidazioni di fine rapporto di lavoro, e versare altri contributi per il finanziamento dei fondi privati di pensioni alternative.

Nel linguaggio ufficiale dei capitalisti e dei banchieri, il "portafoglio pensionistico" dei lavoratori risulterà diversificato, con un progressivo riequilibrio fra previdenza obbligatoria e previdenza complementare.

Su un portafoglio stimato già in 35.000 miliardi, la Borsa ha fiutato un suo possibile nuovo carburante, agitando il mercato di azioni e Titoli di Stato. Almeno fino a quando il motore non si ingolferà completamente, l’affare sarà amministrato da sindacalisti e imprenditori, e gestito da Banche e assicurazioni. Tutti già si azzuffano per conquistare le fette più grosse della torta, dalla Sai alla Mediolanum Vita (Fininvest) e alle Assicurazioni Generali. E si guarda al Paradiso americano, con 40 milioni di poveri ufficiali, dove si rastrellano ogni anno 700.000 miliardi di lire in "risparmio fresco" per i fondi pensione che in parte alimentano il sistema industriale capitalistico e in parte si gettano in avventure speculative sui mercati finanziari internazionali.

Il mercato borsistico italiano si lamenta da tempo per la mancanza di "merce" da comperare. Piazza Affari a Milano è troppo inadeguata per le possibilità d’investimento dei risparmiatori; i fondi pensione, con le loro opportune agevolazioni fiscali, fanno quindi gola agli operatori del settore, compagnie di assicurazione, banche, Sim, società di fondi comuni e sindacati. Questi ultimi si aggrappano al nuovo ruolo di cogestori e arbitri e sollecitano l’inserimento dei fondi pensione in tutti i contratti di categoria, iniziando da chimici e metalmeccanici. Le adesioni fra i chimici sono quasi 50.000, con un obiettivo futuro di 80.000 (quasi la metà dei lavoratori del settore chimico-farmaceutico). Lo stesso Inps ha già concluso una intesa con Bnl e Imi mettendo a disposizione le proprie strutture informatiche per gestire la nuova operazione che consentirà ai banchieri di controllare i flussi monetari e di amministrare l’investimento delle risorse raccolte dai fondi integrativi collettivi.

Già si valuta, per il primo anno, un patrimonio di 60 miliardi, con una successiva crescita annuale di 180-200 miliardi, verso i mille miliardi in cinque anni. Per i lavoratori il costo contributivo diretto e indiretto si aggirerebbe mediamente attorno alle 900.000 lire annue, a cui si aggiungono quote dal TFR (liquidazione).

Il capitalismo detta così le sue leggi: chi ha la fortuna di lavorare si paghi da sé i contributi previdenziali senza gravare in alcun modo sui conti pubblici e sul costo stesso del lavoro; avrà pensioni commisurate a ciò che riuscirà a pagare, cioè lo stretto indispensabile per raggiungere al più presto l’eterno riposo. A tutti gli altri il buon cuore del capitale riserverà il conforto delle Dame di carità.

La borghesia ha fiutato nuove possibilità speculative e lo dichiara apertamente. "Lo Stato (l’Inps) si faccia da parte liberando risorse utili allo sviluppo dei mercati finanziari e del capitalismo in genere". Avremo allora - spiega l’economista berlusconiano A. Martino - "una reale democratizzazione dell’economia, poiché i risparmi dei lavoratori, attraverso i fondi pensione, potrebbero entrare nell’azionariato dei gruppi capitalistici più importanti". E magari prendere il volo, a un certo punto, lasciando i lavoratori interessati a tasche vuote (vedi il caso Maxwell in Gran Bretagna e i fallimenti delle Casse di Risparmio americane).

L’alternativa della sinistra borghese

Tutte le forze politiche in campo, che si riconoscono nel cosidetto arco costituzionale sotto le etichette di destra, centro e sinistra, difendono e gestiscono sia gli interessi generali della economia capitalistica e sia quelli particolari dei diversi gruppi borghesi. Per queste ragioni fondamentali si trovano tutte d’accordo sulla necessità di riformare lo Stato sociale, modello liberal o statalizzato.

Mentre la destra conservatrice marcia con rinnovata arroganza sulle piazze, e mentre la piccola e media borghesia del Nord medita rivincite secessioniste, la sinistra neo-socialdemocratica promette le "pari opportunità" per ricchi e poveri. E si incarica di dosare le cure dimagranti spacciandole per cure ricostituenti. A distribuire tisane addormentatrici provvedono i sindacati, già promossi a pieni voti dal capitale dopo gli accordi sul costo del lavoro e sulla politica dei redditi (luglio ’93).

Ultimo bastione della traballante pace sociale, "Rifondazione comunista" protesta sostenendo il ...governo, sempre più smarrita dentro il vuoto del famoso binomio: resistenza e progetto. Si cammina in ordine sparso sognando una trasformazione democratica del capitalismo, con la vana ricerca di mediazioni nella contrapposizione fra profitto e lavoro. Con ciò, Rifondazione assolve pienamente al ruolo di contenimento della lotta di classe, di disarmo del proletariato e di sostegno al potere della borghesia. Fino a concludere: se la globalizzazione capitalistica frantuma lo Stato sociale, non rimarrebbe altro che "confrontarsi" con i vari fronti sociali (cioè con la classe borghese) nel tentativo di "coniugare" i diversi interessi e le differenti progettualità!

Quindi la riforma (la reinvenzione) dello Stato sociale è scontata anche per un Bertinotti, preoccupato del "recupero degli esclusi prima che la situazione esploda". Da qui l’appello a un "universalismo dei diritti", che si dimentica per strada la realtà della società divisa in classi, sfruttatrici e sfruttate. E lancia la risibile proposta di una "legge mondiale sulla produzione delle merci attraverso l’impiego di lavoro garantito". (Roma, 27 febbraio, Convegno di Rc sullo Stato sociale)

Bertinotti è in questo caso perfettamente d’accordo col Papa di Santa Romana Chiesa, che dal Vaticano annuncia: "È fondamentale che il mercato, per essere tale, abbia delle regole precise", garantendo al capitale un "giusto ed equo profitto" grazie allo sfruttamento della forza-lavoro dei proletari.

Rifondazione non fà che riciclare le vecchie imbecillità politiche tratte dall’arsenale delle vie nazionali e parlamentari al socialismo, già partorite dallo stalinismo e dai suoi seguaci. E le spaccia per opposizione neo-comunista al neo-liberismo, ripetendo i soliti pii desideri: l’intervento "democraticamente correttivo" dei profitti e delle rendite, la trasparenza della legislazione fiscale, la lotta all’evasione, eccetera.

Poi. di fronte agli industriali e ai finanzieri della City londinese, anche il "bolscevico" Bertinotti confessa: "Diamo tutti la testa contro il muro"!

I lavoratori hanno pagato per tutti

I lavoratori hanno versato per decenni migliaia di miliardi di contributi previdenziali, sottratti dai propri salari, per ricevere in cambio pensioni nella maggior parte a livello di fame. Hanno pagato inoltre, e continuano a pagare di tasca propria, le pensioni di strati della piccola borghesia (commercianti, artigiani, coltivatori diretti, autonomi) e di altri ceti sociali parassitari.

Non solo lo Stato capitalista ha rapinato i fondi previdenziali dei lavoratori, accumulatisi negli anni, per poter soddisfare le esigenze del capitalismo stesso (col fascismo, durante il massacro della seconda guerra mondiale, e con la democrazia, durante la ricostruzione industriale e poi la ristrutturazione imposta dalla crisi). Esso ha aumentato il numero dei beneficiari che, con oneri irrisori rispetto ai lavoratori dipendenti, hanno ricevuto sussidi annuali superiori fino a 10 volte il contributo versato. I passivi provenienti dalle gestioni deficitarie degli altri strati sociali sono stati così addossati ai lavoratori dell’industria.

Questa situazione, complici tutti i partiti, le forze borghesi di destra e di finta sinistra e gli stessi sindacati, si trascina da decenni. Oggi, ipocritamente, si finge di scoprire quello che gli stessi "esperti" borghesi osservavano negli anni Sessanta.

Così infatti la Confindustria notava, in un suo Rapporto su "Mondo Economico" del febbraio 1967:

La previdenza è annullata di fatto dall’assistenza, e solamente l’illusione di previdenza dei lavoratori dipendenti industriali consente alle gestioni di ottenere quei gettiti contributivi che servono assai più per l’assistenza che non per la previdenza.

Truffati, dunque, per i superiori interessi del Paese, ovvero del portafoglio della classe borghese; presi in giro per sostenere il consenso sociale dei ceti non proletari e in definitiva per meglio spremere la forza-lavoro degli operai.

Ma anche davanti al mito della sicurezza sociale la verità si sta facendo strada fra il proletariato in generale, tra i lavoratori salariati e le masse sfruttate, oppresse e costantemente derubate. Le loro condizioni di lavoro e di vita, finché durano questi rapporti economici e sociali, peggioreranno sempre più. È una discesa inevitabile di fronte alla crisi capitalistica, ai suoi effetti incontrollabili e alle illusioni di possibili contenimenti riformistici.

Ogni riforma - al contrario - non è altro che il tentativo, da parte della classe che stringe nelle sue mani il potere economico, di rispondere alle urgenti necessità del capitale; necessità di sopravvivenza del sistema dominante che impongono un lento strangolamento dei lavoratori. Giorno dopo giorno, riforma dopo riforma, i proletari saranno ricacciati al fondo della società: quello che sta già accadendo per centinaia di milioni di esseri umani, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, in tutto il mondo.

Questo infernale stato di cose continuerà fino a quando il proletariato, oltre ogni divisione di Stati e razze, si renderà conto della sua vera forza e rialzerà la testa, stringendo nelle proprie mani il futuro che gli appartiene: il superamento del modo di produzione e distribuzione capitalistico, verso la realizzazione del programma del comunismo internazionalista.

Sarà allora finalmente possibile lasciare alle nostre spalle anche il falso problema dei conflitti generazionali e della emarginazione dei più deboli e degli anziani. La sopravvivenza di questi non sarà più affidata a forme di caritatevole quanto ipocrita assistenza. Né si parlerà più di Casse di previdenza e di assegni pensionistici. (Fermo restando che, sotto il dominio del capitalismo, noi dobbiamo organizzarci e lottare per difendere salari e pensioni dagli attacchi della borghesia.)

Il programma del socialismo

Con il socialismo, tutto il prodotto sociale del lavoro apparterrà alla nuova società di uomini liberi ed eguali che sorgerà sulle rovine del capitalismo.

Una parte di quel prodotto complessivo sarà destinata alla soddisfazione collettiva di bisogni: scuole, università, centri sociali, istituzioni sanitarie, eccetera. Sarà una parte sin dall’inizio in notevole aumento e costante sviluppo, al pari dell’altra parte: quella destinata agli invalidi al lavoro e agli anziani, cioè agli uomini e alle donne non più in grado di contribuire al ridotto tempo di lavoro collettivo che sarà suddiviso fra tutti i membri della società.

Questa è la rivoluzionaria risposta proletaria al collasso dello Stato sociale borghese e all’esproprio capitalista delle pensioni. Tutto il resto appartiene agli inganni ideologici dei neo-socialdemocratici e alle loro illusionistiche "pari opportunità" costruite a suon di tagli e sacrifici, secondo le compatibilità presenti e future del capitalismo. E sullo stesso piano ritroviamo le mistificazioni degli ex-stalinisti: tante chiacchiere solo per rimandare di qualche anno, come dice Bertinotti, "le necessarie modifiche per un nuovo modello pensionistico flessibile, quando il sistema entrerà in sofferenza"...

Davide Casartelli

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.