Messico, Chiapas e zapatismo

Prima di inoltrarci nella disamina delle posizioni zapatiste è opportuno vedere, quantomeno in grandi linee, le caratteristiche economico sociali del Chiapas, la struttura di classe del Messico e con riferimenti al Chiapas, e la storia dell'esercito zapatista.

È operazione questa che ogni forza o corrente politica dovrebbe fare prima di lanciarsi in entusiastici sostegni o in accidiose critiche, ma che ben poche delle forze politiche impegnate sull'uno o sull'altro fronte fanno.

Da una parte troviamo il "frente amplio" - che va dall'Autonomia ai soliti organismi cattolici di sinistra, passando per una grande fetta degli anarchici e da Rifondazione - incondizionatamente schierato al fianco dell'EZLN, come ieri era al fianco dei Sandinisti nicaraguesi o ai Vietcong di Ho Chi Min.

Dall'altra alcuni raggruppamenti, anche appartenenti al campo politico proletario, che pur sostenendo posizioni critiche in gran parte condivisibili, si guardano bene dal fornirle di un supporto d'analisi, a filo di marxismo, del fenomeno oggetto dei loro anatemi, che ovviamente come tali rimangono impotenti.

Il Chiapas grande sconosciuto

Il censimento del 1910 rivela che il 96,9 per cento dei contadini messicani erano senza terra e che l'1 per cento della popolazione possedeva il 96% delle terre. (1)

L'indipendenza del Messico dalla madrepatria spagnola nel 1821 aveva rafforzato la proprietà latifondistica e le forme di lavoro forzato e di servitù per debiti che per secoli erano stati motivo di altalenanti decisioni della corona spagnola. Le condizioni degli Indiani sino ad allora protetti - si fa per dire - dai cattolici re, erano ovunque peggiorate.

In seguito,

La progressiva divisione delle terre delle comunità indigene (con le leggi di alienazione dei beni di manomorta del 1856 e con quelle di colonizzazione e sui terreni incolti) incrementò lo sviluppo della grande proprietà e ridusse gli Indiani a contadini senza terra (peones). (2)

Datano da allora le prime rivolte degli Indiani. Nel Chiapas ci fu la ribellione chamula che pochi, non a caso, ricordano. Era la rivolta immediata delle comunità indiane alle leggi del '56, contro l' esproprio delle terre comunitarie, dunque.

È in questa situazione che termina il "porfiriato", ovvero il periodo di potere del presidente Porfirio Diaz. La sollevazione di Chihuahua comandata da Pancho Villa porta alla elezione di Francisco Madero in un clima di profonda agitazione operaia e contadina, nel quale il leader contadino Emiliano Zapata proclama il Piano di Ayala del 1911, che prevedeva non solo il ritorno ai contadini delle terre che erano state tolte loro ma anche il prendere un terzo delle terre rimaste alle grandi haciendas.

Intermezzo zapatista

Ma quale ritorno ai contadini? In realtà il Piano era il tentativo di restaurazione delle tradizionali strutture economico e sociali delle comunità indie. Nulla a che vedere con nessuna forma di progressismo, dunque, tanto meno di socialismo. L'idea che la "originale proposta" zapatista sia un possibile veicolo di emancipazione può essere instillata solo in menti a digiuno di qualunque metodologia e nozione storica, tanto quanto distanti da un sano punto di vista di classe. Giudicare così il zapatismo è come sostenere che il socialismo e il superamento del capitalismo consistono nella riproposizione debitamente aggiornata nelle forme, dei modi di produzione e delle formazioni sociali idrauliche pre-classiche (Egizia, Cinese, Maya...). Le collettività raccolte attorno a un loro rappresentante totemico (Faraone o Imperatore che sia, pur sempre sacro), quale condizione di sopravvivenza nelle date condizioni geo-economiche, lavoravano in "volontaria" schiavitù sotto le caste teocratiche e burocratiche (nobiliari) al mantenimento delle quali andava tutto il surplus della produzione rispetto ai miserrimi consumi dei contadini che prestavano loro anche tutta la forza lavoro necessaria ai servizi comunitari (dighe, arginamenti, strade) e ai servizi del nobilato (dalla costruzione delle piramidi e palazzi al servizio alle persone). Cosa ha a che vedere tutto questo con il socialismo che deve seguire il capitalismo, giunto a questa decadente fase di sviluppo?

Ma procediamo sulle linee storiche.

I disordini politici e civili continuano dopo la caduta di Porfirio Diaz, sino all'assassinio di Zapata nel 1919 e all'ultima sollevazione sotto il comando del generale Obregon che diviene Presidente nel 1920. Nel ripercorrere - cosa che qui non facciamo per ovvi motivi - le vicende politiche del decennio 1910-1920 quel che risulta evidente è il profondo coinvolgimento delle masse contadine e operaie, sotto la direzione di questo o quel politico o generale, da una parte, e la regolarità delle sconfitte che gli uni e gli altri subiscono nelle loro aspirazioni.

Abbiamo detto della natura dello zapatismo originario: non c'era evidentemente spazio perché si potesse affermare. La storia raramente torna indietro e tuttalpiù si tratta di un ritorno ad alcune forme che furono all'origine del modo di produzione e della formazione sociale in essere, mai a modi di produzione e formazioni sociali precedenti. La marcia è ritmata dallo sviluppo dei mezzi di produzione e dal loro rapporto di determinazione con la formazione sociale.

Per quanto riguarda invece il movimento operaio, siamo alle sue prime manifestazioni in Messico, lontano ed estraneo alla già maturata esperienza della classe operaia europea e ancora a digiuno degli ideali socialisti che in questa, per quanto conculcati e traditi, si presentavano. Fu operazione relativamente facile per Obregon e Carranza realizzare il patto con i sindacati che nel 1915 portò alla formazione di battaglioni operai anche mediante i quali i due sconfissero Villa.

Bastò "accentuare gli aspetti sociali della lotta", promettendo la cogestione dello stato da parte dei sindacati operai, da una parte, e annullando formalmente gli espropri degli ejido (le terre comunitarie degli Indiani) posteriori alle leggi del 1856.

La nuova costituzione messicana del 1917 dichiarò inalienabili le terre degli ejidos. (3)

È del 1994 la modifica dell'articolo 21 della Costituzione che sanciva quel principio.

Ed è anche da questa modifica che parte la reazione neo-zapatista.

Il Chiapas moderno

Ma la realtà chiapaneca vuole che le terre comunitarie siano, e ovviamente, quelle più disgraziate. L'esproprio delle migliori era avvenuto ben prima delle famigerate leggi post-indipendenza del 1856. D'altra parte la grande proprietà fondiaria, sfruttatrice del lavoro in affittanza e del bracciantato, ha sempre caratterizzato la regione del Chiapas e rallentato i processi di modernizzazione capitalista.

A partire dagli anni '40 le montagne aride degli Altos de Chiapas, divise dall'ipocrita riforma agraria di Cardenas si convertono in perfetti bacini di riserva di mano d'opera per i latifondi del Centro, della regione di Fraylesca e del Soconusco, che di colpo non hanno più bisogno di trattenere e nutrire tutte le bocche fuori stagione di raccolta perché queste bene o male sopravvivono sulle terre comunitarie. (4)

D'altra parte continua il fenomeno della espulsione degli Indiani dalle terre: vuoi per debiti, vuoi per eccesso di manodopera "libera" sui latifondi. Gli "expulsados" si dirigono massivamente verso il Chiapas a partire dalla fine degli anni '50 e ben presto il governo li incita in questo senso. La foresta Lacandona costituiva una sorta di valvola di sicurezza, lontana come era dai centri del potere e dove le masse indigene e contadine potenzialmente esplosive potevano essere messe al lavoro.

In qualche anno più di 150 mila indiani senza terra si installarono nella foresta e nelle montagne. Come in ogni distribuzione capitalista della terra anche questa fu fatta in maniera inegalitaria. I nuovi arrivati si ritrovarono sulle terre più povere e non avrebbero mai avuto accesso alle valli fertili. Poco tempo dopo, queste terre o furono abbandonate perché troppo povere, o di nuovo espropriate (con la forza o legalmente). Il fatto che questi contadini poveri fossero in maggioranza degli Indiani rese più facile l'accaparramento delle terre da parte dei ricchi proprietari legati all'agroindustria.
Si riunivano così le condizioni per l'apparizione di nuovi antagonismi sociali e la "valvola di sicurezza" si trasformava in una bomba a scoppio ritardato. La decomposizione delle antiche comunità indiane si accompagna alla creazione di un nuovo contadiname povero composto di una popolazione mista (Indiani, maya o no, e meticci). (5)

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Già all'inizio degli anni '70 le vecchie comunità, prima strutturate, lasciavano apparire gli effetti di un intenso processo di differenziazione sociale interna che erodeva i loro meccanismi di coesione e di difesa. I contadini senza terra e senza lavoro cominciarono a concentrarsi nelle miserabili periferie (delle città del Chiapas).
All'inizio degli anni Ottanta l'offerta di mano d'opera è raddoppiata mentre, nello stesso tempo, la politica di terra bruciata del governo di Rios Mont nel Guatemala rigettava sul Chiapas più di 80 mila rifugiati maya in fuga dal paese vicino e che sono venuti ad aggiungersi all'armata di riserva da questa parte della frontiera. (6)

Gli Indiani espropriati erano spesso marginalizzati: i proprietari preferivano rimpiazzarli con i lavoratori guatemaltechi che vivevano in modo ancor più precario e spesso nell'illegalità.

È qui evidente l'ulteriore modifica nella composizione del contadiname povero in Chiapas e gli anarchici più seri giustamente si chiedono:

Chi è indiano? Chi è messicano? chi è guatemalteco? I devoti della causa zapatista restano stranamente silenziosi sulla presenza di questa immigrazione. Che misure prevede l'EZLN per risolvere il problema? Ed esiste (per loro) un 'problema'? (7)

Agli anni Ottanta la situazione chiapaneca è a grandi linee la seguente:

sebbene un terzo delle terre figuri appartenente agli ejidos o alla piccola proprietà contadina, solo il 10% delle terre comunitarie sono coltivate collettivamente. L'80 per cento dei coltivatori degli ejidos sono obbligati a lavorare anche nelle aziende dei grandi proprietari per sopravvivere (s'è già detto che le terre comunitarie erano anche le più povere). E, come vedremo meglio in seguito, le terre comunitarie stesse si sono trasformate di fatto in terre della piccola proprietà.

Grazie a questo processo di impoverimento del contadiname, il Chiapas è oggi, con una popolazione pari a poco meno del 4 per cento di quella complessiva messicana, il maggiore esportatore di caffè, il terzo produttore nazionale di mais e fra i primi tre stati messicani produttori di banane, tabacco e cacao.

Struttura agraria

Per comprendere la contraddizione evidente fra una economia agraria fiorente e le condizioni di miseria della gran massa della popolazione, anche contadina, occorre evidentemente andare al di là della distribuzione quantitativa delle terre chiapaneche.

In Chiapas ci sono (dati del 1990/91) circa 179 mila produttori agricoli nel settore comunitario (degli ejidos) l'11 per cento dei quali (19 mila 722) sono considerati commercialmente "vitali", destinando al mercato il 90 per cento della loro produzione. Sono quei produttori, spesso nuclei familiari, che conducono in modo sostanzialmente privatistico porzioni di terre comunitarie (abbiamo visto sopra che solo il 10 per cento degli ejidos è realmente coltivato comunitariamente), e in modo evidentemente capitalisticamente efficiente.

Coltivano solo il 15 per cento delle terre comunitarie. La Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite (ECLAC) attribuisce la vitalità di questo strato a un più facile accesso al credito bancario e dunque all'impiego di trattori, fertilizzanti e pesticidi sulle loro terre. Molti di loro poi impiegano stagionalmente e in alcuni casi permanentemente, lavoro salariato. Va da sé che occupano le terre di miglior qualità e meglio irrigate. (8)

Poi si trovano, nel medesimo settore degli ejidos, i contadini "di sussistenza" che rappresentano il 31 per cento della forza lavoro sugli ejidos coltivando il 27 per cento delle terre comunitarie. Pur conducendo le terre formalmente comunitarie anche questi in maniera privatistica, essi consumano gran parte di ciò che producono e destinano al mercato mediamente solo un terzo della produzione; e ciò rende loro meno di quanto necessario per vivere.

Gli altri lavoratori (58 per cento) del settore ejido sono considerati produttori "diversificati", nel senso che commercializzano una parte significativa della loro produzione. Ma la loro stragrande maggioranza trae a mala pena i mezzi per sopravvivere dalla terra, in quanto ricavano dal loro cosiddetto surplus commercializzato (ovvero dalla parte di raccolto non direttamente consumata) un reddito annuo di 300 dollari (e vale la pena ricordare a questo proposito che le Nazioni Unite hanno stabilito a 3 dollari al giorno il minimo assoluto per la sopravvivenza in Messico). Perché questa miseria? Perché più della metà di questi contadini produce granturco e fagioli, cioè il cibo di base destinato al consumo domestico o al mercato locale, che rende ben poco in termine di cassa.

Se i coltivatori del settore ejido producono quel che capitalisticamente si definisce un surplus economico (cioè più di quanto consumano, facendo loro la fame o giù di lì), la economia agricola chiapaneca è dominata dai produttori agricoli privati. Il governo messicano e il suo ufficio statistico rifiutano di fornire i dati relativi a questo settore e risultanti dal censimento del 1990. Tuttavia sono stati recentemente compiuti studi sul Soconosco che è la regione del Chiapas con il settore privato più sviluppato.

Il Soconosco occupa solo il 7 per cento della superficie "agraria" del Chiapas, ma comprende il 18 per cento della sua popolazione.

L'autore dello studio (9) osserva che:

da una parte c'è un sistema di agricoltura capitalistica fatto fondamentalmente di grandi piantagioni per le colture rivolte al mercato internazionale, dall'altra c'è una agricoltura contadini di minifundia che producono mais e alcuni pochi prodotti commerciali venduti sul mercato capitalista per la semplice sussistenza.

Le terre migliori sono naturalmente impegnate dalle piantagioni: di banane, canna da zucchero, caffè cotone e cacao per il mercato internazionale. Nelle stesse grandi aziende vengono anche allevati su grande scala bovini per il mercato interno e internazionale.

Nel Soconusco le terre sono approssimativamente divise a metà fra settore privato e settore "sociale" e si verifica che sul primo troviamo solo 3 mila e 81 fattorie e piantagioni mentre sull'altro faticano e stentano a campare 19 mila produttori. Ne risulta che mediamente le "aziende" del settore sociale coltivano 11 ettari ciascuna mentre nel settore privato la media è di 81 ettari. Ma al di là delle medie, sempre fuorvianti nelle realtà eterogenee, al vertice del settore privato ci sono 144 proprietà di superfici variabili fra i 500 e i mille ettari, mentre 109 superano i mille ettari.

Pensando di aver fornito un quadro sufficientemente chiaro della struttura agraria oggi, possiamo concludere che la struttura sociale del Chiapas risulta profondamente sconvolta, rispetto agli anni 1910 o 1940.

Proletarizzazione e sotto-proletarizzazione

Alla modifica del quadro rurale si accompagna una urbanizzazione caotica e selvaggia delle città. Terre comunitarie che non sono più tali e che, anche dove lo sono, non sfamano chi le coltiva hanno espulso di fatto masse crescenti.

Ciò si traduce in termini di composizione sociale e di classe in un declassamento a sottoproletariato di masse considerevoli di contadiname, indiano o no, con tutte le conseguenze del caso. Diverse stratificazioni contadine, anche fortemente intrecciate (coltivatori comunitari, contadini "a doppia economia" perché anche salariati delle aziende capitaliste, piccoli proprietari), da una parte, masse di sottoproletariato marginale precariamente inurbato dall'altro. Gli uni e gli altri classicamente senza speranza, senza programmi propri.

Ne risulta in qualche modo sconvolto anche il tradizionale quadro di riferimento ideologico. In Messico, l'attaccamento del contadiname povero alla terra era impregnato del rimpianto di un passato comunitario indiano, alimentato come si è visto dall'eredità zapatista della cosiddetta rivoluzione 1910-19. Ma questo rimpianto e le connesse aspirazioni svanivano parallelamente all'esproprio delle terre comunitarie e dell'introduzione del capitalismo nelle più sperdute campagne.

Il tessuto comunitario, anche per chi si ostinasse a considerarlo il motore di una possibile alleanza naturale col proletariato, è stato distrutto e macinato dall'affermarsi e raffinarsi del dominio totale del capitale che è passato dal controllo del processo di produzione nel quale sfrutta la forza lavoro al controllo della riproduzione della forza lavoro.

È nelle nostre tesi che il capitalismo si è affermato nelle più sperdute periferie sussumendo le formazioni sociali, senza omologarle nei loro meccanismi alle formazioni metropolitane. È così che si spiega, senza indulgere alle scorciatoie fuorvianti del terzomondismo, il fatto che il capitale domini anche laddove sopravvivono forme di remunerazione del lavoro in natura, o rapporti sociali di forma precapitalista. Ma potremmo aggiungere che il capitale domina direttamente i meccanismi della riproduzione della forza lavoro, anche quella remunerata in natura, attraverso la proposizione dei suoi modelli, della sua cultura, del suo consumo.

È un neo-riformista messicano a riconoscere che

Già negli anni '70 in Chiapas l'ideale di un Totzil era un cinturone con una grande fibbia e una radio. (10)

Da cui:

Attraverso i mezzi di comunicazione il capitalismo sta regolando lo sviluppo delle forme di consumo, sta sostenendo il controllo di tutto il processo di riproduzione della forza-lavoro. (11)

Nessun ritorno alla tradizione auspicano le masse povere chiapaneche.

Ma le condizioni della rivolta sono lì riunite: miseria estrema di fronte al rutilante spettacolo dei consumi capitalisti; apertura dei mercati con il Nafta e crescita della disperazione delle masse contadine e sottoproletarie.

Su questo materiale esplosivo, in assenza della iniziativa di classe operaia, prosperano in loco l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e il suo Fronte.

Le classi in Messico

Non disponendo di dati aggiornatissimi non ci addentreremo in valutazioni quantitative, peraltro sempre oggetto di controversie, ma fisseremo le caratteristiche qualitative, sufficienti a definire il quadro generale di riferimento.

Di più, sorvoleremo sulla composizione di classe borghese, nelle sue diverse stratificazioni/articolazioni: rentier della terra, imprenditori agricoli, imprenditori industriali, rentier della finanza e speculatori, borghesia di stato.

Più importante è certamente definire la composizione della base della piramide sociale.

Abbiamo dunque visto crescere negli ultimi decenni le masse in miseria, ai margini del mercato del lavoro e delle merci, ridotte alle condizioni di sottoproletariato.

Le masse marginalizzate

A caratterizzare questi strati e a valutarne l'importanza anche ai fini di una strategia rivoluzionaria, bastano questi recentissimi dati che traiamo dalla stampa quotidiana e periodica del Messico.

Malnutrizione: secondo il Segretariato per le relazioni esterne e altre agenzie governative, fra il 70 e l'80 per cento dei bambini indiani soffre di malnutrizione (da La Jornada del 2-11-96) e causa un tasso di nascite sotto-peso di nove bambini su cento (El eslabon mas debole" in El Norte - 18 ottobre 1997)

Povertà: il Segretariato per lo Sviluppo Sociale (già, esiste anche quello) comunica che circa 20 milioni di messicani vivono nelle zone aride del paese e che il 97,3 per cento di questi vivono al di sotto dei livelli di sussistenza, in condizioni di sovraffollamento, e guadagnando meno di un salario minimo (vale a dire meno di tre dollari a giorno) (La Jornada del 21/10/96).

15 milioni di bambini vivono in condizioni di povertà estrema; più in generale, comprendendo dunque le aree urbane il numero di persone che vivono in estrema povertà è cresciuto dal 16,2 per cento della popolazione nel 1989 al 50,7 per cento nel maggio del '96. Ciò significa che su 91 milioni di messicani, 50 milioni sono estremamente poveri. A fornire il dato è il centro di analisi multidisciplinare della Università Nazionale Autonoma (Reforma del 6/9/96).

Bande urbane: Il Capo della Pubblica sicurezza del distretto federale dichiara a La Jornada del 26/10/96 che Città del Messico ha circa 5 mila bande, cinquecento delle quali considera molto pericolose. Il 18 ottobre lo steso giornale dava notizia che nel corso di quest'anno 162 persone sono già state ammazzate a Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua, in relazione agli scontri fra bande concorrenti nel controllo del traffico di droga, di armi o di auto rubate.

Lavoro infantile: Il 36 per cento dei più di tre milioni di lavoratori agricoli censiti nel 1990 sono bambine e bambini fra i 7 e i 14 anni, prevalentemente di origine india.

Varie agenzie governative messicane rivelano che ogni anno gli Stati Uniti deportano 30 mila migranti in minore età. Il 70 per cento dei bimbi che passano sul territorio degli SU o che vivono nelle strade delle città di frontiera sono "autosufficienti" nel senso che non hanno nessuno che si prenda cura di loro.

I contadini

Se negli anni 1910 il contadiname sopravviveva, in condizioni di povertà estrema, ma forniva il cibo necessario al Messico, oggi secondo il già citato studio dell'ECLAC, il Messico importa fra un quinto e un terzo dei beni alimentari di base per il consumo domestico, mentre metà dei suoi contadini, che erano 24 milioni al 1989, "vivevano al di sotto della linea di povertà e 7 milioni erano disperatamente poveri". E da allora la situazione è andata peggiorando, per precipitare con l'entrata in vigore del Nafta (Accordo di libero commercio del Nord America).

Nei decenni che ci separano dall'entrata in vigore della Costituzione (1917) sotto il dettato dell'articolo 27 i governi, a partire specialmente da quello di Lazaro Cardenas negli anni '30, hanno realizzato più riforme agrarie con relativa re-distribuzione delle terre e attribuzioni di terra agli ejidos. Senza ripercorrerle tutte, basterà rilevarne le caratteristiche costanti:

  • il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) che governa il paese dalla fine della cosiddetta Rivoluzione ha sempre utilizzato quelle riforme per legare a sé consistenti strati contadini, anche, se non soprattutto, affidando ai cacicchi locali e ai suoi burocrati la gestione dei fondi eventualmente in distribuzione e la amministrazione locale della riforma, e alimentando così quel clientelismo e quella corruttela tanto caratteristici dell'establishment messicano;
  • anche quando ha stanziato fondi consistenti per lo "sviluppo agricolo", nominalmente in favore degli ejidos, il risultato è sempre stato quello di dare una spinta alla differenziazione interna alle comunità indiane, da una parte, e favorire di fatto le forme di privatizzazione e le grandi proprietà fondiarie.

Può essere sintomatico in questo senso il percorso dell'ultima riforma sotto gli auspici dell'articolo 27, fatta dal presidente Miguel de la Madrid nel 1983.

Fra il 1983 e il 1988 distribuì più terra di quanto non fosse stato fatto nei trent'anni precedenti. Ma... Delle 493 maggiori concessioni di terre, solo 27 andarono alle comunità contadine o agli ejidos legati alle organizzazioni militanti dei contadini opposte al PRI.

In molti casi la Confederacion Nacional Campesina (sindacato del PRI), sapendo quali terre il governo stava per espropriare armò i contadini allineati ad essa o usò la polizia per espellere con la violenza le organizzazioni contadine indipendenti che già occupavano quelle terre. (12)

Come nelle precedenti riforme, i grandi proprietari che in qualche modo venivano toccati dalla riforma agraria trattennero le terre migliori per sé. Molti altri non venivano affatto toccati oppure ottenevano speciali decreti di esenzione anche da qualunque futura espropriazione di terre. Nel 1988 circa il 70 per cento degli allevamenti bovini erano ufficialmente esenti dalla riforma.

Badando ai risultati macroeconomici, si ebbe, nel solo Chiapas una caduta della produzione di granturco e di fagioli (rispettivamente del 20 e del 18 per cento) e letteralmente un boom nella produzione di soya, arachidi, sorgo e tabacco, tutti per il mercato internazionale. Anche la quantità di bestiame commercializzato salì del 400 per cento, fra il 1982 e il 1987. Ma ad aumentare drammaticamente ci fu anche l'importazione di beni alimentari: sei miliardi di dollari all'anno di importazioni di mais!

Risultato complessivo: nessuno sviluppo dell'agricoltura comunitaria, anzi un suo ulteriore indebolimento, una crisi generale del bilancio agricolo.

La ricetta era pronta: il neo-liberismo e il Nafta.

Per i piccoli coltivatori e i contadini senza terra messicani il Nafta costituisce una mazzata da cui non si potranno mai riprendere. Pochi dati che diamo schematicamente lo dimostrano in modo indubbio.

Mais: la produttività di questa coltura è in Messico mediamente di 1,7 tonnellate per ettaro; negli Stati Uniti è di sette tonnellate. Per produrre una tonnellata di mais in Messico sono necessarie 17,8 giornate di lavoro, mentre negli Stati Uniti la stessa tonnellata è prodotta con un ora e mezza di lavoro vivo. È così escluso ogni possibile "vantaggio competitivo" dovuto al costo del lavoro, per quanto basso sia.

Fagioli: il Messico produce mezza tonnellata per ettaro, gli Stati Uniti 1,6 tonnellate.

Quanto al lavoro vivo richiesto in Messico si tratta di 50,6 giornate per tonnellata, negli USA basta poco più di mezza giornata. (13)

Granturco e fagioli nordamericani invaderanno il mercato messicano, mettendo in ginocchio l'agricoltura già povera, anche quella di sussistenza: chi rimane a coltivare un prodotto che gli costa sudore e sangue solo per mangiarlo quando lo stesso prodotto è immediatamente disponibile sul mercato per la metà di quello che costava prima?

È previsto che altri tre milioni di famiglie, ovvero circa 15 milioni di messicani saranno espulsi dai campi quando il Nafta sarà a regime (certe barriere di protezione salvate dal governo Messicano cadranno con il tempo), perché i piani e i sussidi alla conversione agricola stabiliti dal governo (sistema Procampo) sono dagli osservatori seri universalmente giudicati risibili. In realtà qui sussidi, e come al solito, andranno a vantaggio delle grandi aziende capitalistiche che convertiranno con i soldi dello stato le coltivazioni di mais in colture di fragole, e serviranno tuttalpiù a ritardare l'abbandono dei campi.

La composizione agraria dunque va rapidissimamente mutando nel senso della totale sparizione degli ejidos (l'abolizione della loro inalienabilità con la modifica dell'articolo 27 è il loro de-profundis); la sparizione o il sostanziale ridimensionamento della piccola proprietà contadina (dove sopravvivrà solo quella meno piccola, sufficientemente intrigata con il potere da usufruire dei fondi del Procampo, ufficialmente 100 dollari per ettaro all'anno); la proletarizzazione di una quota di piccolo contadiname e la marginalizzazione nei ghetti periferici del resto.

L'immiserimento ulteriore degli Indios, già in fondo alla scala dei poveri, crescerà e andrà ad alimentare il già vastissimo sottoproletariato.

Questa è la prospettiva "in avanti" che offre il capitalismo; quella proposta dagli zapatista va all'indietro ed è dunque molto più utopica della pur ancora lontana prospettiva rivoluzionaria comunista.

A vantaggio di questa sta scavando, come al solito, la vecchia talpa capitalista.

Abbiamo visto le lotte "fratricide" che hanno opposto contadini a contadini sulle linee dei diversi schieramenti clientar-politici. Il superamento di queste contrapposizioni non sarà certo un processo istantaneo, ma le loro materiali ragioni di esistenza vengono eliminate dallo sviluppo stesso del capitale, nella sua veste neo-liberista. Sulla terra rimangono i più forti in grado di convertire le produzioni e rimanere sul mercato, gli altri sono già stati ed ancor più verranno espulsi. Non c'è più guerra fra i poveri, ma opposizione dei pochi meno poveri a fianco degli strepitosamente ricchi (i grandi hacienderos) agli estremamente miseri.

Fra le tantissime parole che zapatisti e filo-zapatisti spendono per esaltare la loro lotta risulta peraltro impossibile trovare qualunque trattazione di questa realtà. L'unico riferimento è al fatto che la presenza dell'EZLN

è più localizzata fra la gioventù, le comunità indigene e le organizzazioni dei poveri urbani, che nel movimento sindacale, nelle organizzazioni contadine e nelle classi medie. (14)

Vedremo più avanti come ciò mal si concilia con le richiesta dell'EZLN in materia di riforma agraria.

Gli operai industriali

Abbiamo già accennato nella prima parte al fatto che i sindacati operai furono sin dall'inizio cooptati nella amministrazione politica del nuovo stato messicano uscito dalla rivoluzione del 1910-1919 e furono anzi fra i principali artefici della sconfitta di Pancho Villa. Essi entrano a far parte istituzionale del PRI fin dalla sua formazione.

Il Partito Rivoluzionario Istituzionale è una originale riuscitissima, finora, esperienza di corporativismo istituzionale. Il partito è infatti costituito di tre settori (contadino, operaio e popolare) con l'esclusione formale sin dagli anni Trenta, dei grandi capitalisti e grandi proprietari terrieri. Che di fatto poi fossero gli interessi di questi (gli interessi di conservazione del capitale) a dettare la linea politica e di governo del PRI rientra nella ovvietà, ideologicamente negata nelle forme costituzionali e organizzative, ma sempre riemergente.

Al PRI non si aderiva finora individualmente ma attraverso le organizzazioni di massa dei settori suddetti. Glioperai si ritrovano cioè iscritti al Pri in quanto iscritti a un sindacato ufficiale.

Ora alla settantesima Assemblea Nazionale del PRI, tenutasi nel settembre 96 si sono sentite anche proposte di creare un quarto settore che comprendesse il mondo degli affari. La proposta è stata formalmente rigettata, ma è evidente che la tendenza va nel senso di attenuare progressivamente l'enfasi sul lavoro e aumentare l'attenzione verso il mondo degli affari. Non foss'altro che per raccogliere direttamente quattrini, visto il processo di privatizzazioni in corso e la correlata pressione ideologica contro l'utilizzo di partito dei fondi statali...

Ma a questa tendenza vanno opponendosi fortemente i sindacati, e in particolare la più forte Confederazione dei Lavoratori Messicani (CTM), che alla suddetta assemblea nazionale hanno avanzato la pretesa che al "settore operaio" vale a dire a loro, venga riservato il 60 per cento delle candidature federali. Temono evidentemente che la ventata mondiale di neo-liberismo - che, sebbene non ostacolata nei suoi contenuti sostanziali e anti-operai dai sindacati, sta indebolendo ovunque il ruolo del sindacato, malvisto da tutte le parti - marginalizzi anche loro, erodendo le grandi quote di potere amministrativo che sono abituati a gestire.

Al di là delle polemiche interne al Pri fra sindacalisti e altri burocrati del partito, la presa dei sindacati ufficiali sui lavoratori sta sempre più somigliando a quella dei sindacati italiani sui lavoratori di qui: milioni di iscritti (qui sono fortemente in calo) che però non si sentono rappresentati.

È il riflesso delle mutazioni intervenute anche nella composizione operaia. Fino a tutti gli anni '80 la classe operaia era stratificata, in base ai livelli salariali, grosso modo in tre fasce.

  • I lavoratori presso le multinazionali statunitensi, da lungo tempo impiantate in Messico, come in altri paesi della America Latina. Qui a livelli salariali relativamente alti (o addirittura altissimi rispetto alla fascia inferiore) si accompagnava una serie di "benefit" in forma di accesso agli spacci aziendali e servizi quali quelli sanitari, di alloggiamento, di trasporto.
  • I lavoratori delle grandi imprese statali (dalla petrolifera Pemex, all'industria idroelettrica, ai diversi servizi). Qui i salari si attestavano poco al di sopra di quelli della piccola industria domestica e dell'artigianato, ma con la possibilità di fruire di tutti i vantaggi del corporativismo di cui sopra.
  • La restante parte dei lavoratori nella piccola e media industria domestica e nei servizi privati, senza alcun benefit e con salari pressoché da fame.

Se negli anni 80 il salario medio operaio si attestava a un settimo di quello medio statunitense, si può ben comprendere quanto fosse basso quello del gradino inferiore della scala messicana.

In queste condizioni l'unità della classe operaia sul terreno rivendicativo, e appena agli inizi della fase di crisi del ciclo a livello mondiale, era una chimera. Ed è questa la ragione di fondo per la quale la sinistra radicale (borghese) sudamericana si è sempre rifiutata di vedere nella classe operaia il motore della rivoluzione, che loro vedevano invece possibile attraverso l'incendio appiccabile dai fuochi di guerriglia contadina. (15)

A metà circa degli anni '80 la crisi globale comincia a farsi sentire molto pesantemente in Messico. Esistono specificità legate al settore petrolifero oltre che alla forte componente di capitalismo di stato propria del Messico, ma come in tutte le periferie, il complesso industriale locale inizia a risentire fortemente della ristrutturazione tecnologica avvenuta nelle metropoli. Nei paesi africani e in molti paesi del Sud America la ristrutturazione nelle metropoli ha significato la cancellazione o quasi degli apparati industriali nazionali. In Messico l'industria poteva reggere alla sola condizione che i salari si abbassassero, non importa se erano già miseri. Né va sottovalutata l'assenza di regole e controlli per la sicurezza del lavoro e la protezione ambientale. Le nubi più o meno tossiche sollevatesi il 20 febbraio '96 a Città del Messico, che è già coperta di quella enorme nube tossica che è la sua atmosfera, hanno sollevato (meglio dire appena scostato) il coperchio di un vero inferno dove solo a Città del Messico da 3 mila 500 a 5 mila industrie trattano sostanze tossiche senza alcun controllo e senza neppur essere censite. (16)

Anche le aziende delle multinazionali, più avanzate sul piano tecnologico ovvero a più elevata capitalizzazione fissa, sarebbero rimaste nel paese solo se i salari fossero stati raffreddati.

Ebbene - e secondo la stessa Confederazione dei Lavoratori Messicani - il potere di acquisto dei salari messicani è sceso di quasi il 50 per cento negli ultimi 9 anni e precisamente da quando si è aperta la serie di "pactos" (ovviamente per il lavoro, per l'economia nazionale, eccetera) fra governo padroni e sindacati ufficiali. Nel periodo piu breve, fra il Dicembre del 1994 e l'agosto 1997 il potere di acquisto dei salari è sceso del 24,66 per cento secondo l'INEGI (l'Istituto nazionale di statistica) (El Financero, 28 Ottobre 1997).

L'ultimo "patto per la crescita" è del 26 ottobre 1996. Il governo le maggiori associazioni industriali e i sindacati si sono accordati per un aumento del salario minimo del 17%. Contemporaneamente sono aumentate la benzina del 22,13 per cento e l'energia elettrica del 14,4 per cento.

Anche quest'ultimo patto, che è il diciassettesimo della serie iniziata dieci anni fa, è teso ad attrarre investimenti nel settore industriale sia dall'interno che, soprattutto dall'estero.

È in queste condizioni che si assiste dal 1992 a una robusta crescita di manifatture industriali di assemblaggio, famose in Messico come "maquiladoras", sulla o nei pressi della frontiera con gli Stati Uniti. Molte imprese e di molti settori industriali (dal tessile al meccanico) impiantano li le officine per l'assemblaggio di prodotti i cui componenti possono venire importati da fuori (gli Usa o addirittura la Malaysia) o prodotti lì.

L' INEGI parla di una crescita dell'occupazione nel settore manifatturiero nell'Agosto 1996 del 4,7 per cento rispetto all'agosto 95 e di un ulteriore 5,5 per cento all'agosto '97.

Conclusioni: La crisi di ciclo del capitale ha fatto pulizia delle ragioni materiali delle divisioni in seno al proletariato, che avevano dato modo ai vecchi radical riformisti guerriglieri di immaginare nel contadino il nuovo soggetto rivoluzionario. Se prima l'aristocrazia operaia messicana poteva ritenere di aver qualcosa da perdere nel solidarizzare con le masse del proletariato agricolo (e si badi bene, non era neppure al proletariato agricolo delle piantagioni che puntavano i guerriglieri, ma proprio ai contadini classici, quantunque poveri) - ora anche gli strati una volta "privilegiati" non son più tali, o perlomeno le distanze si son di molto ravvicinate.

La classe operaia messicana, tutta, sconta per intero il suo vendere forza lavoro in un paese periferico. Il suo salario da fame funge da strumento di ricatto verso il salario metropolitano, che segue la medesima tendenza al ribasso; ma è anzitutto il motore di un possibile ritrovamento dell'unità. Sul terreno della lotta di classe.

È questa cosa che non interessa minimamente agli zapatisti, né ai loro seguaci catto-riformisti nel mondo.

L'EZLN orfano spaesato del maoismo

Checché ne pensino gli entusiasti seguaci dell'esercito zapatista (siano essi i radical-chic, i più ruspanti autonomi o i delicati "cattolici di sinistra") la storia dei movimenti politici messicani indica chiaramente nell'EZLN l'organizzazione armata di una organizzazione politica clandestina di dirette ascendenze maoiste.

Come osservano gli autori di Au-delà des passe-montagnes du Sud-Est mexicain,

Oggi non è facile stabilire un legame chiaro e lineare fra il periodo di insediamento di questa organizzazione (Politica Popular) e la nascita dell'EZLN. Ciò che è sicuro è l'esistenza di questo legame.

Lo stesso sub-comandante Marcos avrebbe fatto parte di una delle ultime brigate maoiste, rifugiatesi nel Chiapas, fra la fine degli anni 1970 e i primi 1980. (17)

La miserevole fine dell'Urss e la ancor più miserevole fine della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese, hanno certamente pesato nel riassetto ideologico politico di quella e di altre organizzazioni maoiste. Proseguiva intanto selvaggia la repressione di esercito e truppe mercenarie al servizio dei grandi proprietari terrieri, sotto i colpi della quale sono spariti molti militanti. I sopravvissuti si sono evidentemente riorganizzati rivedendo alcune concezioni politiche e tattiche alla luce delle condizioni locali.

Prima l'integrazione nelle comunità indigene, utilizzando a tale scopo anche i loro legami con la "chiesa indigena"; poi la creazione di organizzazioni sindacali contadine. La trasformazione nel 1991 della Alleanza indipendente contadina "Emiliano Zapata" in organizzazione nazionale, segna il relativo successo di quella tattica.

È evidente che una organizzazione esiste ancora nelle articolate forme fra le quali si trova l'EZLN.

Al di là della retorica poetica del leader mascherato sulla democrazia - organica, verrebbe da dire - delle assemblee comunitarie del Chiapas, è evidente nella struttura e intestazione dei diversi comunicati e documenti l'esistenza di un Comité Clandestino Revolucionario Indígena, al cui interno c'è la Comandancia General del Ejército Zapatista de Liberación Nacional, vale a dire Marcos, con Tacho e compagni. Cosa è rimasto del vecchio maoismo? A giudicare dai documenti noti, solo un sentimentale riferimento all'accerchiamento della città dalla campagna, che qui prende la forma di pressione dalla comunità indigene come principale motore della riforma dello stato messicano.

Se in un primo tempo i vertici zapatisti hanno pensato alla scalata del potere nazionale a partire dal solido insediamento nel Chiapas, hanno presto e rapidamente cambiato idea: troppo distanti e isolati dal centro per puntare da lì a una sua conquista. Meglio accumulare le forze a scala nazionale e far cadere il potere sotto la spinta congiunta di tutte le comunità indie nelle diverse regioni del Messico.

Ma se il vecchio maoismo poteva prospettare il socialismo, ovvero il capitalismo di stato sotto la amministrazione di un "potente Partito comunista" nel quale sarebbero confluite le masse contadine e proletarie, oggi quella prospettiva non è più praticabile: ne riderebbero gli stessi ex-maoisti.

Cosa prospettare allora? Pace, libertà, dignità, giustizia e democrazia.

Valori sani, eterni (vale a dire anche un po' vecchiotti) che possono piacere a tutti: anime belle del cattolicesimo e frementi signore radical-chic, soggettività antagoniste e terzomondisti.

E su chi puntare? Le comunità indigene come base operativa e piazzeforti logistiche, la società civile come leva del cambiamento.

Davvero le affinità originali con i fratelli peruviani di Sendero Luminoso si sono perse.

La piattaforma politica dell'EZLN

Chi volesse cercare un qualunque documento che seppur vagamente somiglia a una piattaforma programmatica dell'ELZN o dei suoi mentori clandestini impiegherebbe tempo ed energie invano: un simile documento semplicemente non esiste.

Le posizioni e le prospettive strategiche degli zapatisti devono essere dedotte dai comunicati, proclami e lettere varie di Marcos e dei suoi attendenti.

Iniziamo con l'ultimo contributo diretto di Marcos - pubblicato sulla catena Internazionale di Le Monde Diplomatique e in Italia da Il Manifesto in opuscolo a sé - titolato: "La quarta guerra mondiale è già cominciata". Prescindiamo ovviamente, dalle ovvie sciocchezze neo-riformistiche dei presentatori (Gianfranco Bettin e Marco Revelli) sulle quali avremo modo di tornare, per seguire l'"autonomo" pensiero dello stesso subcomandante Marcos.

Le ultime uscite del Subcomandante

La prima tesi, che si traduce subito anche in chiave di interpretazione del testo e delle posizioni politiche, è la seguente. La Terza Guerra Mondiale si sarebbe combattuta fra i due campi, capitalista e socialista, con la vittoria del primo.

La originale tesi stalinista secondo cui l'URSS e la Cina erano paesi - quantunque ultimamente legati da fraterna inimicizia - in cui si era realizzato il socialismo, torna ovviamente in Marcos e nell'EZLN, come nei loro sostenitori in giro per il mondo.

È la forma e la sostanza dell'ideologia borghese applicata alla storia recente ed è ciò che sostengono tutti: dalla estrema destra alla estrema sinistra borghesi. Per tutti è punto di partenza di elaborazioni diverse quanto sono diversi i cosiddetti orientamenti politici ovvero gli specifici interessi di frazioni di classe borghese ai quali tali orientamenti obbediscono. Abbiamo così, a destra, la conclusione che il socialismo è, nella migliore delle ipotesi una utopia, e che il capitalismo è quanto di meglio la società abbia potuto partorire in tutta la sua storia (ancor meglio se è capitalismo "liberista"); a sinistra, invece, si conclude che la via seguita in passato per migliorare la società (quella della lotta di classe, dello scontro vinto il quale si apre la strada ad un nuovo modo di produrre e a una nuova formazione sociale, il comunismo) è sbagliata - visto che ha fallito - e che bisogna allora cercare nuove strade, nuovi soggetti e nuovi obiettivi, per fermare la marcia alla barbarie che, si riconosce, il capitalismo ha accelerato.

Abbiamo sempre definito lo stalinismo e la sua ideologia ala di estrema sinistra dello schieramento e dell'ideologia borghese, attestata sulla difesa del modello di capitalismo di stato rappresentato dalla Unione Sovietica e dalla Cina ed esportato nei paesi satelliti.

Al fallimento di quel modello, i suoi difensori, anche i più ostinati, si sono divisi: da una parte i pervicaci nostalgici, che ancora vedono in quello il modello da perseguire, dall'altra i più "raffinati" transfughi. A loro volta questi si presentano in modo affatto disomogeneo e sparso: c'è chi, presa la rincorsa è finito in braccio alla destra borghese (quella del "ciò che esiste ora è bello e meritevole di difesa") e sono i lacchè Deaglio, Rinaldi, o Liguori di tutto il mondo; e quelli che per rimanere a sinistra si inventano strade e obiettivi che, detti nuovi, sono riedizione di vecchie idiozie già demolite più di un secolo fa dal movimento marxista. Fra questi si collocano tanto gli ex-maoisti alla Marcos, quanto i vecchi "nuovi sinistri" alla Rossanda e alla Revelli. Va da sé che dichiarare finita la lotta di classe significa oggettivamente dichiarare eterno il capitale, nonostante soggettivamente qualcuno creda di no perché rivaluta idee e percorsi già dimostratisi fallimentari.

C'è una intima coerenza nel percorso dell'ex-maoista Marcos, e dei suoi simili: questo mondo così com'è non ci piace, fa schifo, e lo dobbiamo cambiare; si tratta di trovare i soggetti sociali capaci del cambiamento e gli obiettivi da perseguire.

La ricerca non è facile, evidentemente, se la seconda domanda non ha ancora trovato risposta presso Marcos, né presso i cosiddetti marxisti autonomi che lo sostengono.

Il citato volumetto di Marcos risponde alla prima domanda (quali i soggetti del cambiamento?) alla fine; alla fine di un percorso "analitico" che è condivisibile, quantomeno nella denuncia dei guasti del moderno capitalismo. Ma prima di inoltrarci è bene fare il punto su questa questione della Terza e Quarta guerra mondiale.

Guerra mondiale?

Qui Marcos gioca un po' con le parole e, come sempre succede in questi casi, confonde un poco le acque.

La globalizzazione moderna, il neoliberismo come sistema mondiale, deve essere intesa come una nuova guerra di conquista di territori La fine della III Guerra Mondiale o "Guerra Fredda", non significa che il mondo abbia superato il bipolarismo... (18)

Scambiare, anche se letterariamente, una fase della dinamica capitalista con la manifestazione massima del suo collasso che è appunto la guerra è operazione forse funzionale all'inquadramento, sempre sul terreno letterario, dei guasti che quella fase del capitale comporta, ma completamente errata sul terreno analitico poiché equivale a dire che il capitalismo è sempre guerra. E anche questo è "letterariamente" vero, ma non serve per nulla a criticare la dinamica capitalista in funzione di un suo superamento. Di più si rischia di cadere in gravissimi errori che andranno a confondere definitivamente le idee. E nel rischio Marcos incorre poche righe più in là quando scrive:

Nel mondo del Dopoguerra Freddo vasti territori, ricchezze e, soprattutto forza lavoro qualificata, aspettavano un nuovo padrone...
Ma uno solo è il posto di padrone del mondo, e diversi sono gli aspiranti a diventarlo. E per ottenerlo si dispiega altra guerra, che questa volta oppone coloro che si erano autonominati "impero del bene". (19)

Qui, è implicito il concetto che appunto la Guerra e cominciata e si concluderà con la conquista da parte di qualcuno del posto di padrone del mondo. Questo qualcuno, si legge subito dopo, sarà uno dei centri finanziari tra i quali si combatte la quarta guerra mondiale, "con scenari totali e con una intensità acuta e costante".

Torna qui di soppiatto la vecchia tesi, battuta da Lenin, del super-imperialismo e, peggio, si ipotizza che ci si arrivi senza lo scontro militare diretto fra le metropoli.

Le 149 guerre locali combattute in tutto il mondo dalla fine della II Guerra mondiale, i morti per fame che quotidianamente la dinamica capitalista lascia sul terreno, gli scombussolamenti degli assetti politico-statuali di intere nazioni e gli altri orrori che si presentano sul pianeta fanno identificare dal Subcomandante lo scenario presente con quello della guerra. E la guerra reale, che nelle guerre commerciali e finanziarie si prepara, sfuma.

Ma ciò che emerge nel quadro tracciato da Marcos (o meglio nelle tessere che l'autore descrive e che dovrebbero comporre il quadro) è l'assenza di ogni e qualunque riferimento di classe, evidentemente ritenuto decaduto e reso obsoleto dalla "fine del socialismo". Non sono più le classi i soggetti della storia ed il soggetto... sfuma.

Nella sesta "tessera", definita "La megapolitica e i nani", si tratta appunto della politica mondiale "che sa di poter esercitare meglio il suo potere e creare le condizioni migliori per la sua propria riproduzione, sulle rovine degli stati nazionali". (20)

Ma il soggetto della megapolitica evapora. L'insieme di interessi e di uomini che persegue le condannate politiche neoliberiste non è identificato e così la megapolitica appare una entità metafisica con tanto di proprio punto di vista.

Dal punto di vista della megapolitica le politiche nazionali sono cose per nani che devono piegarsi ai diktat del gigante finanziario. E così sarà fin che i nani non si ribelleranno. (21)

Nazionalismo

Obietterà il lettore che qui il soggetto è identificato nel gigante finanziario. Ma, insistiamo, chi rappresenta il gigante finanziario? visto che perché una politica si esprima occorre che qualche insieme di uomini con precisi interessi la esprima.

La domanda non è oziosa come qualche sciocco maligno potrebbe pensare. Una seria analisi del gigante finanziario e quindi anche degli uomini e interessi che lo conformano, porterebbe a scoprire che questi si trovano anche fra i presunti nani, quei nani che dovrebbero ribellarsi e riaffermare le politiche nazionali (e qui siamo al cuore del vero Marcos-pensiero, il nazionalismo).

Citando da Le Monde Diplomatique, che non fa mistero delle sue simpatie zapatiste,

... les capitaux d'origine mexicaine déposés aux Etats-Unis atteignaient, à la fin de 1995, 24,6 milliards de dollars, soit exactement deux fois plus qu'à la fin de 1994.
... i capitali d'origine messicana depositati negli stati uniti raggiungono alla fine del 1995 24,6 miliardi di dollari, vale a dire esattamente il doppio rispetto a fine 1994. (22)

Questi capitali d'origine messicana sono posseduti, gestiti e debitamente distribuiti sui mercati finanziari internazionali da quei signori messicani che confrormano la borghesia messicana, sorella di classe della borghesia internazionale e nemica acerrima del proletariato messicano come del proletariato internazionale. Ma tutto questo nei discorsi di Marcos e dei suoi seguaci. Sfuma, scompare, viene rifiutato. La ragione è sempre quella: nella lotta fra capitalismo e socialismo (quello russo o cinese) il capitalismo ha vinto, e dunque il modello della lotta di classe non vale più.

Si rientra dunque, di soppiatto o al suon di tamburi e trombe - non conta, nell'ideologia (in senso proprio, dunque borghese). E sul terreno dell'ideologia, la conclusione del "ragionamento" puo' benissimo essere quella del nazionalismo.

Stabilito che le attuali dinamiche economiche politiche cozzano con la sopravvivenza delle forme statual-nazionali delle fasi precedenti del capitale, o si punta al superamento di quelle stesse dinamiche, con i soggetti e gli obiettivi adeguati (proletariato internazionale, rivoluzione internazionale e comunismo) e si va avanti, oppure si è costretti a scegliere fra le due opzioni: parteggiare per la globalizzazione o difendere l'autonomia delle suddette forme statual-nazionali, e si va col capitale o addirittura all'indietro.

Marcos e l'Ezln finiscono con l'attestarsi proprio con il nazionalismo.

... gli zapatisti pensano che, in Messico - attenzione in Messico - (lo sottolinea lui, ndr) il recupero e la difesa della sovranità nazionale sia parte di una rivoluzione antineoliberista. Paradossalmente, l'Ezln viene accusato di volere la frammentazione della nazionale messicana. La realtà è che i soli che hanno parlato di separatismo sono gli imprenditori dello stato di Tabasco ricco di petrolio e i deputati federali chiapanechi che appartengono al PRI (...). Gli zapatisti pensano che sia necessaria la difesa dello Stato nazionale di fronte alla globalizzazione... (23)

Più chiaro di così...

Abbiamo dunque un gruppo guerrigliero nazionalista che si batte contro le dinamiche attuali del capitalismo difendendo... quel che c'era prima, o si pensa ci fosse prima. È certo che se c'è qualcosa di rivoluzionato è il concetto stesso di rivoluzione.

I soggetti

Alla conclusione del documento Marcos ci dice quali sono i soggetti del cambiamento, o quantomeno i soggetti sui quali si fondano le speranze di sopravvivenza dell'umanità:

Se l'umanità ha ancora speranza di sopravvivere, di diventare migliore, queste speranze sono nelle sacche formate dagli esclusi, da quelli in sovrannumero, da quelli che si possono gettare via.

Il resto è poesia. Non dice Marcos, in questo testo, come faranno gli esclusi a rendere migliore il mondo. Né emerge con chiarezza dagli altri documenti.

Quel che si può arguire (oltre che dai fatti della politica) è negli altri documenti più propriamente politici dell'Ezln.

Ci sono anche storie dello zapatismo, che raccontano delle tre fasi attraversate dal movimento e dalla politica dell'Ezln. (24)

In tutti i documenti ciò che emerge con prepotenza è il riferimento alla... società civile.

La società civile

Ora la storiella che la società civile possa rappresentare come tale il motore dei mutamenti negli assetti economico-sociali del mondo è vecchia quanto è vecchia la ideologa borghese, che dai suoi esordi ha mascherato dietro questa finzione (o concetto giustappunto ideologico) la realtà della divisione in classi della società e della sua propria dominazione sulla società medesima.

Che cosa è la società civile? È la cittadinanza indistinta, fatta di operai, impiegati e bottegai, liberi professionisti, artigiani e pony express, studenti, insegnanti e piccoli imprenditori. È l'insieme cioè dei cittadini che una volta ogni tanto (od ogni poco) sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti politici (nelle mtropoli ridotti anch'essi a contar poco più che nulla) e quotidianamente vivono (nella rispettiva posizione) la realtà dei rapporti di produzione e dell'assetto sociale dati. Nella vita quotidiana dei cittadini, le urgenze e i problemi della normalità, della sopravvivenza, dell'adattamento seguono dinamiche diverse, quanto sono diversi i "vissuti" e i "sentire" dei cittadini stessi. Spesso i modi d'essere e i sentimenti dei cittadini si scontrano con le norme (sia legislative che etiche) che la formazione sociale stessa sta in quel momento seguendo, o con i comportamenti degli "organi superiori" (governo, chiesa, organi vari dello stato). È così che nascono - quando comuni modi d'essere e di sentire i problemi della quotidianità e del quotidiano rapporto col Potere, si riconoscono e si uniscono, i grandi movimenti civili che hanno caratterizzato molti periodi delle formazioni sociali borghesi metropolitane, che tuttora si verificano e continueranno a verificarsi.

I movimenti per il divorzio, l'aborto, la pace, sono gli esempi più significativi, fra i molti possibili.

Talvolta, o addirittura spesso, i movimenti civili risultano alla fine vincenti sui loro obiettivi specifici. Quando si tratta di aggiornare il senso comune e, prima ancora, le norme giuridiche e i comportamenti repressivi dello Stato, alle nuove reali dinamiche. civili appunto determinatesi nella formazione sociale, la probabilità di vittoria del movimento civile che va in quel senso è direttamenmte proporzionale alla portata del movimento stesso. Ma quando il movimento civile punta come tale a obiettivi che in qualche modo interferiscono con le dinamiche più intime e determinate del capitalismo, ovvero quando cozzano con le fondamenta stesse della formazione sociale borghese, non possono che fallire: in genere estinguendosi nel momento stesso in cui emerge l'inconciliabilità fra la il capitale e l'ggetto del movimento, Le vicende del movimento pacifista, che ha furoreggiato per anni anche in Italia, con centinaia di migliaia di cittadini in piazza, si è letteralmente squagliato di fronte alla Guerra del Golfo e alla imprese imperialistiche della mini-potenza italiana in giro per il "suo mondo": Somalia, Libano, Albania. Chi ancora piange la dipartita del movimento insiste nell'errore di credere che una qualche funzione tale movimento la potesse avere.

Ma quale è l'ipotesi sulla quale gli zapatisti e i loro seguaci fondano il loro riferimento alla società civile?

Ebbene, letti tutti i documenti possibili, la conclusione è sempre una e ben sintetizzata ed esemplificata da quanto segue:

Il governo messicano, le forze politiche, e anche la società civile, hanno l'opportunità di fare del Chiapas un laboratorio per la transizione pacifica verso una democrazia plurale e rispettosa della realtà multietnica del paese (sottolineatura nostra, ndr), o di permettere che si converta nello scenario in cui si compirà un genocidio contro la sua popolazione indigena. (25)

E più recentemente:

Seguiremos luchando junto a todos por que todos los Méxicos de México tengan: Democracia! Libertad! Justicia!
Continueremo a lottare perché tutti i Messico del Messico ottengano: Democrazia, Libertà, Giustizia. (26)

In sostanza, un programma di riforma dello stato messicano, sul terreno di un più spinto nazionalismo svincolato dai tentacoli strangolanti (per proletari e contadini, non certo per la borghesia messicana) del NAFTA e nel senso di una sua democratizzazione, identificabile con la fine del monopolio del potere da parte del PRI.

E allora, in questo senso, il "soggetto" è adeguato: la società civile, se adeguatamente mobilitata, e anche le organizzazioni sociali e politiche, possono rendersi capaci di tanto cambiamento.

Los maestros de esta lección de historia son los trabajadores del campo y de la ciudad, los indígenas, las organizaciones sociales y políticas, los niños, las mujeres, los jóvenes, los ancianos, los homosexuales y lesbianas, todos los mexicanos y mexicanas. (27)

Qualche conclusione

  • L'Ezln chiapaneco è di fatto, e al di là dunque delle dichiarazioni retoriche in contrario, una forza politica che - indipendentemente dall'essere interessata a una futura gestione del potere - mira a riformare gli assetti e gli equilibri del potere borghese in Messico e che a questo obiettivo deve necessariamente piegare le tattiche contingenti. Le tre "virate" sinora verificatesi e da altri raccontate (28) ne stanno già preparando una quarta, con lo stabilimento di relazioni più strette col potere centrale per isolare e combattere gli estremismi (per esempio dell'ERP) e soprattutto i rischi di una virata classista del movimento proletario in Chiapas e in tutto il Messico. Il Comitato clandestino rivoluzionario, di cui apparentemente l'Ezln è uno strumento, tornerà alla luce o preferirà rimaner nell'ambra a celare i suoi connotati di vecchie scarpe maoiste?
  • È dunque prevedibile un progressivo "imborghesimento" degli zapatisti che, se lascerà di nuovo orfani i perenni cercatori di miti da rincorrere (prima erano i sandinisti nicaraguagni, ma prima ancora... i Vietcong), tenderà a rinnovare e rendere più dinamico il quadro politico messicano.
  • Si stringeranno i rapporti con la parte "militante" della chiesa cattolica (significativi in questo senso i messaggi di solidarietà nei confronti del personale vescovile di di San Cristóbal de Las Casas, Samuel Ruiz García e di Don Raúl Vera López, che il 4 novembre hanno subito un attentato). Nulla di strano: come abbiamo visto sopra è tradizionale di quella parte dell'ex movimento maoista il praticare la chiesa e i preti.
  • Il proletariato messicano resta ancora senza un referente politico sufficientemente radicato, sebbene stia già subendo un processo di ricomposizione sul basso, con la fine tendenziale delle vecchie stratificazioni e graduazioni di "privilegi" e la generalizzazione dello stato di "maquiladores". E quel che è più grave è che alcuni pretesi rivoluzionari là presenti manco si accorgono di quel che sta succedendo.
Mauro jr. Stefanini

(1) V. Gustavo Beyhaut America centrale e meridionale II vol. Storia Univerale Feltrinelli, Milano 1968 p. 256.

(2) Idem p. 152.

(3) V. ibidem, pag 257 e segg.

(4) V. Nicholas Arraitz, "le sang, le joug et la forêt", Tendre venin, Editions du Phéromone, Paris, 1995; citato in Sylvie Deneuve, Charles Reeve, Marc Geoffry, Au-delà des passe-montagnes du Sud-Est mexicain, in Tecknofuck n.0, sett-ott 1996.
Si tratta di uno scritto di anarchici classisti, in rotta di collisione con la gran parte del movimento anarchico caduto vittima della suggestiva fraseologia anti-neoliberista dell'EZLN, e che dimostra, se ancora ce n'era bisogno, come un saldo riferimento di classe, trattenga i pochi anarchici che ce l'hanno, al di qua della linea di demarcazione che separa il movimento proletario rivoluzionario, dal radicalismo piccolo borghese, nei momenti cruciali, sempre controrivoluzionario.

(5) Sylvie Deneuve, Charles Reeve, Marc Geoffry,op.cit.

(6) A. Garcia de Leon "Los motivos de Chiapas", Etcetera, Barcelona, 1995.

(7) ibidem.

(8) Traiamo questi e i dati che seguono da Chiapas and the crisis of mexican agriculture, uno studio (Policy Brief n.1) dell'Institute for food and development policy americano (398 60th Street, Oakland, CA, 94618 USA).

(9) Danile Villafuerte Solis, Desarrollo economico y Diferenciacion Productiva en el Soconusco, Cies, S. Cristobal de las Casas 1992; citato nel Policy Brief di cui alla nota precedente.

(10) Dalla "registrazione di parte di un incontro con un Economista della UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico), messo a disposizione dal Comitato Internazionalista 'Che Guevarà di Bologna" e diffuso dal Comitato stesso.

(11) ibidem.

(12) da Chiapas and the crisis of mexican agriculture, citato in nota 8.

(13) Dati tratti da Jos Luis Calva Probables efectos de un Tratado de Libre Comercio en el campo, Fontamara, Città del Messico 1992.

(14) Da Luis Hernandez Navarro EZLN: momento de definiciones. In Mexico news 591.

(15) È interessante a questo proposito il libretto di Carlos Romero Classi sociali in America Latina, Jaca Book 1974, dove ad una accurata analisi della composizione delle diverse classi "popolari e sfruttate" si accompagna il rigetto delle strategie della sinistra europea (vale a dire dei PC). È chiaro che la rivoluzione propugnata da Romero, come da Regis Debray allora, era quella che avrebbe portato altri paesi, oltre Cuba, nel "campo socialista"...

(16) V. "De 3 mil 500 a 5 mil industrias menejan aqui sustancias tòxicas cosi sin ningun control" La Jornada del 21 febbraio 1996.

(17) Per una storia dettagliata di Accion Popular e del suo percorso ideologico politico, v. Ross, John, Rebellion from the roots: Indian uprising in Chiapas Common Courage Press, c1995.
Si leggerà qui dell'uscita del movimento maoista Politica Popular dal grande movimento studentesco del '68 culminato in Messico con la strage di 300 studenti nella Piazza delle Tre Culture; della sua politica tesa alla costituzione di "basi rosse" impiantate nei quartieri popolari e nei ghetti urbani, delle sue intese "tattiche" con i preti progressisti che lavoravano sullo stesso terreno, talmente caratteristiche da originare un termine - torreonismo - dalla nome della città, Torreon, dove un simile lavoro di massa ebbe strepitosi successi; della successiva repressione feroce da parte dello stato cui segue la conversione di linea verso l'insediamento fra i contadini poveri; della contestuale crisi interna con tanto di scissioni, di rinunce e di regolamenti di conti, e di intrallazzi con settori del PRI (due alti dirigenti di PP di allora sono oggi quadri di rango del PRI, nell'organizzazione contadina). Si leggerà infine della ritirata strategica nel Chiapas, alla fine degli anni '70 con l'arrivo lì delle prime brigate. E John Ross è simpatizzante dell'EZLN, sebbene lo abbia recentemente criticato per il suo eccessivo "pacifismo", dopo la firma degli accordi di San Andres de los Pobres del 15 febbraio '96.

(18) Subcomandante Marcos - La quarta guerra mondiale è cominciata, Il Manifesto 1997, pag.11.

(19) Ibidem.

(20) Ibidem, pag. 38.

(21) Ibidem pag. 40.

(22) "Comment le barons du pouvoir s'enrichissent en pillant le pays" Le Monde Diplomatique Agosto 1996, pag. 4 e 5.

(23) La quarta guerra mondiale è cominciata, cit. pag. 43.

(24) Citiamo fra le altre, À la conquête de la société mexicaine - Le grand virage des zapatistes - Le Monde Diplomatique, Janvier 1997, Pagg. 11, 12 e 13.

(25) Pronunciamiento sobre la coyuntura de la zona norte de Chiapas - San Cristóbal de las Casas, 29 maggio 1997.

(26) Dal Comunicato dell'Ezln del 17/9/97 a seguito della Marcia su Città del Messico.

(27) Ezln - Secondo comunicato del 17/9/97 sulla marcia.

(28) Vedi nota 24.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.