Il prezzo del lavoro

La principale regola di ogni impresa è quella di spendere meno possibile sul costo del lavoro. Per arrivare a questo ci sono due strade: pagare il meno possibile l’operaio nel paese dove già ci sono gli stabilimenti, oppure investire nei paesi dove la mano d’opera costa meno e ci sono meno vincoli.

La prima soluzione è ampiamente utilizzata da tutte le aziende indipendentemente dalla dimensione o dal settore. Grazie alle leggi, gli accordi e ai contratti stipulati in questi anni, i salari e l’occupazione si sono drasticamente ridotti, il rapporto di lavoro precarizzato.

Ma per i padroni i profitti non sono mai abbastanza e così molte industrie hanno aperto nuovi stabilimenti o trasferito parte della produzione nei paesi a bassa industrializzazione dove, attraverso il ricatto della miseria e della repressione, possono abbassare ulteriormente i salari e sfruttare in maniera più intensiva i lavoratori.

Uno studio della Fism (la federazione internazionale dei sindacati metal meccanici) pubbl icato di recente dal Manifesto, ha calcolato l’ampiezza della forbice che divide i salari, e quindi il loro potere di acquisto sui mercati locali, nei diversi paesi del mondo. Preso a termine di paragone il tempo di lavoro per acquistare un Kg carne di pollo, dallo studio emerge che questa razione di pollo costa a un operaio tedesco 9 minuti di lavoro, a un operaio italiano 24 minuti, a un operaio giapponese 41 minuti, ad un operaio indonesiano 6 ore di lavoro, ad un argentino 1 ora e 40 minuti, ad un operaio tanzanese 75 ore e mezzo. Così, per comprare un’automobile di media cilindrata, per un operaio tedesco bastano sei mesi di lavoro, mentre per un Tanzanese ne servirebbero settanta.

Ma la forbice dei salari non è l’unico aspetto dello sfruttamento esercitato dalle industrie, ad esso si aggiungono puntualmente la segregazione, come avviene in Korea, in India, in Pakistan e i danni alla salute causate dalla nocività del lavoro.

Alcuni esempi concreti

Molte aziende elettroniche europee e statunitensi, da tempo hanno aperto nuovi impianti nei paesi dell’Est, in Asia, Centroamerica assumendo manodopera, generalmente femminile, a basso costo. La manodopera femminile è preferita a quella maschile per ragioni fisiche e culturali. Le donne sono di solito più docili e riescono a concentrarsi maggiormente in lavori di precisione. Le loro mani, più esili, riescono inoltre a manipolare più facilmente i piccoli componenti delle schede elettroniche. Il contratto di lavoro dura al massimo due anni perché il lavoro richiede un grande sforzo fisico e mentale, inoltre i composti chimici utilizzati danneggiano irreparabilmente la vista in poco tempo.

Essendo una produzione ad alto contenuto di lavoro, le aziende cercano con ogni mezzo di aumentare la produttività, allungando gli orari di lavoro, le turnazioni, aumentando i ritmi, utilizzando il cottimo ecc. e quando cominciano a manifestarsi i primi sintomi delle tipiche malattie malattia professionale connesse al tipo di lavoro svolto (mal di schiena, dolori agli occhi, nausea, isteria ecc) arriva puntuale la lettera di licenziamento e la sostituzione con nuova manodopera pronta ad essere spremuta.

Un’altro settore ad alto tenore di sfruttamento è quello tessile. La Benetton è una delle aziende leader dell’abbigliamento “made in Italy”. Negli ultimi anni la Benetton ha stipulato innumerevoli accordi con aziende in Turchia, sudamerica, India Tailandia ecc decentrando la produzione in piccole fabbriche formalmente autonome.

In molte di queste aziende lavorano illegalmente bambini, in tutte lo sfruttamento è bestiale e la paga irrisoria, ma così l’azienda riesce a produrre a costi più bassi. La Benetton però, non ha abbandonato completamente la produzione nazionale, ha invece creato una nuova divisione chiamata Benlog (Benetton logistica) e ristrutturato le linee di produzione con macch inari sofisticatissimi tan-to che nello stabilimento di Castrette, i dipendenti da 420 sono passati a 19. Si realizza così un doppio meccanismo di sfruttamento: dove la manodopera costa poco si realizza la produzione ad alto contenuto di lavoro manuale, in Italia invece si automatizzano gli impianti per ridurre gli organici e sfruttare più razionalmente i lavoratori rimasti.

Ma l’esempio più evidente di decentramento della produzione è rappresentato dalla componentistica del settore automobilistico dove ogni fabbrica è trasformata vero e proprio laboratoirio di sfruttamento raffinato.Il nuovo modello produttivo adottato da tutte le industrie si chiama esternalizzazione ed è già iniziato da diversi anni, la fiat per esempio, nel ’94 aveva ceduto l’organizzazione dell’approvvigionamento dei pezzi di ricambio per tutti i suoi stabilimenti mondiali alla Tnt Automotive Logistics. Quest’anno, l’intera logistica è stata ceduta alla Tnt Production Logistics, i lavoratori hanno così cambiato padrone, passando da una multinazionale italiana a una olandese, leader mondiale nella distribuzione espressa, nella posta e nella logistica. Negli impianti, lavorano così fianco a fianco dipendenti della Fiat, addetti alla produzione e dipendenti della Tnt PL addetti all’approvvigionamento del-le linee. Tutti con un diverso contratto di lavoro e con un diverso trattamento salariale. Ma il punto più avanzato di questo processo è in India dove la Fiat sta costruendo un nuovo stabilimento per la produzione dei vari modelli della world car, che sfornerà la sua prima vettura entro il prossimo anno. È qui che l’esternalizzazione sarà più spinta tanto che si prevede che meno del-la metà dei lavoratori dello stabilimento sarà dipendente della Fiat Auto indiana.

Questo nuovo modello produttivo sta rapidamente prendendo piede. La Volkswagen ha avviato in Brasile una fabbrica di camion in cui l’esternalizzazione raggiunge livelli impressionanti: dei circa 1.000 dipendenti solo un centinaio sono dipendenti diretti della Volkswagen, gli altri sono tutti alle dipendenze di aziende terze. I risultati di questo processo sono facilmente immaginabili, una produzione flessibile, turni di lavoro distribuiti su 24 ore giornaliere e su sette giorni, bassi salari, ritmi e carichi di lavoro infernali.

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