La guerra nei Balcani

Forse qualcuno ricorda, all’atto della caduta dell’imperialismo sovietico, di quali fandonie si siano serviti gli imperialismi occidentali per celebrare la loro vittoria. Convinti che l’implosione dell’Urss avesse tolto di mezzo uno scomodo concorrente internazionale e che il conclamato fallimento del capitalismo di stato sovietico potesse eliminare le tensioni di classe all’interno delle rispettive economie, i loro megafoni cartacei e telematici hanno incessantemente recitato la farsa che per l’intera umanità ci sarebbe stato un futuro di pace e di sviluppo economico.

In dieci anni di post guerra fredda la realtà delle cose si è prodotta nel suo esatto contrario. Per centinaia di milioni di lavoratori, sparsi in tutti i continenti, lo scenario che si è aperto è quello della crescente pauperizzazione, della disoccupazione, della precarietà del posto di lavoro, di salari di fame e di contratti di lavoro umilianti. Le crisi economiche e finanziarie hanno percorso in lungo e in largo l’Asia e l’Europa. La recessione economica, che nessuno ammette che esista e che operi le sue devastanti conseguenze, eccezione fatta per gli Usa, ha messo in ginocchio l’economia giapponese e di buona parte del continente asiatico, del Brasile, del Messico e del resto del continente latino americano. L’Europa vede contemporaneamente aumentare il tasso dei disoccupati e diminuire quello della produzione industriale. In dieci anni tre guerre hanno squassato il medio oriente e il cuore meridionale dell’Europa. Altro che orizzonti di pace, di sviluppo e di prosperità. In questa fase storica il capitalismo non può elargire ai proletari che fame e miseria e all’umanità intera l’acre odore della sua barbarie economica e sociale.

Per chi si affanna a trovare una soluzione agli avvenimenti all’interno di quegli schemi economici e di rapporti sociali che li hanno prodotti, per chi ritiene le politiche dei sacrifici e le guerre mali evitabili solo che si abbiano gli strumenti politici adeguati, sorretti da un minimo di buona volontà e di senso umanitario, la risposta è che, mai come oggi, il capitalismo mondiale mostra la sua contraddittorietà, il suo essere astorico, la sua obsolescenza sociale, ovvero mostra il suo vero volto, quello di un sistema economico che per sopravvivere alle sue contraddizioni deve continuamente, e sempre più intensamente, distruggere per ricostruire, privare per avere, uccidere per vivere.

Con il venire meno di uno dei due poli imperialistici, non sono scomparse le caratteristiche del capitalismo, le sue crisi e la voracità con la quale persegue il suo unico scopo: il profitto. Anzi, in una fase in cui i bassi saggi del profitto caratterizzano l’andamento dell’economia mondiale, il crollo dell’Urss e la rottura del vecchio equilibrio imperialistico, hanno creato le condizioni perché il mono imperialismo rimasto prevenga e combatta le nuove aggregazioni. Si vanno tessendo gli scenari di nuove polarizzazioni economiche e finanziarie tra Europa e Stati Uniti, tra Stati Uniti e Giappone, tra Cina e Giappone, gli uni contro gli altri, ognuno contro tutti, a due a due, a seconda delle opportunità tattiche o dei flussi economici e finanziari. Finito il bipolarismo, è in atto un processo di riequilibrio internazionale e di spartizione dei vari mercati, da quello finanziario a quello del petrolio passando attraverso quelli della forza lavoro a basso costo, che non può prodursi che attraverso l’esercizio della forza militare. La guerra del Golfo, la dissoluzione della Yugoslavia, la guerra civile in Bosnia Erzegovina e la crisi del Kossovo ne sono una tragica dimostrazione.

La guerra umanitaria

Con un cinismo che non ha eguali, la guerra della Nato in Kossovo, più propriamente la guerra degli Usa contro la Serbia, viene presentata come una guerra umanitaria resasi necessaria per difendere la popolazione cosovara dalle persecuzioni serbe. Detto in altri termini, esperite le vie diplomatiche e di convincimento del governo di Belgrado ad addivenire a più miti consigli, l’azione militare si sarebbe resa necessaria per la salvaguardia delle popolazione di origine albanese, in una sorta di afflato umanitario fine a se stesso, senza secondi fini e indipendentemente dai costi che una simile operazione militare comporta. Tutto è possibile, ma proprio l’imperialismo americano ci ha insegnato ben altro. Nell’agosto del 45, a guerra praticamente finita, con un Giappone distrutto sia economicamente che militarmente, assolutamente non più in grado di nuocere, il governo Usa ha sganciato due bombe atomiche con l’unico scopo di verificare il potere distruttivo di una nuova arma le cui conseguenze si potevano immaginare ma di cui si voleva sperimentare l’effetto in corpore vili. Durante i lunghi anni della guerra del Vietnam, sia i governi democratici che quelli repubblicani hanno usato contro la popolazione civile vietnamita tutte le armi chimiche a disposizione, dai defoglianti alle micidiali bombe al napalm. Negli anni settanta e ottanta hanno finanziato, armato e coperto le più sanguinarie dittature latino - americane. Pinochet il massacratore di decine di migliaia di oppositori, trucidati nelle cantine dei servizi segreti, gettati ancora vivi nell’oceano dagli aerei dell’esercito cileno, è stato una creatura della Cia, allevato nel mito dell’allineamento atlantico, difeso e coperto in ogni momento dai governi americani di turno. Nel 1989, in occasione della operazione giusta causa a Panama, con la quale l’imperialismo americano ha inscenato una vera e propria guerra per non cedere il canale al governo panamense con la scusa di arrestare il narco trafficante Noriega, sono state usate tremende armi chimiche. Tra le migliaia di morti e feriti che l’operazione militare ha comportato tra la popolazione civile, si sono riscontrate strane sindromi degli organi interni delle vittime. Le testimonianze dei medici parlano di gonfiori abnormi, sino all’esplosione, di ghiandole e altri organi vitali. Secondo le accuse di Ramsey Clark , vice ministro della giustizia americana ai tempi di Kennedy, alto magistrato nei decenni successivi, durante la guerra del Golfo l’amministrazione Bush avrebbe fatto di peggio. Oltre alle solite armi chimiche, il governo americano avrebbe sperimentato la bomba all’uranio impoverito, arma micidiale che non lascia scampo a qualsiasi forma di vita, con effetti ancora più mirati e devastanti di qualsiasi arma a distruzione di massa. Sempre secondo le accuse di Clark, che ha tentato di incriminare Bush per crimini contro l’umanità, l’esercito americano avrebbe seppellito nelle trincee scavate in territorio kuvaitiano dalle truppe di Saddam Hussein, centinaia di soldati iracheni non distinguendo tra morti e feriti.

Sempre a proposito di umanitarismo, che credito dare a un governo che ha elevato centinaia di chilometri di cemento e di filo spinato sui confini con il Messico per evitare le immigrazioni clandestine dando l’ordine alle proprie guardie di confine di sparare a vista su chiunque tenti di superare gli sbarramenti. Che dire di un governo che negli ultimi venti anni ha creato 40 milioni di disoccupati, che ha smantellato ogni forma di assistenza sociale, reso precario il lavoro e abbassato i salari a un potere di acquisto pari a quello degli anni settanta, mentre spende duecento venti miliardi per un solo caccia invisibile. Anche lavorando di fantasia, fantasia malata, è inconcepibile accettare la tesi della guerra umanitaria. Ma su questo perfido terreno l’imperialismo occidentale sta giocando le sue carte per convincere l’opinione pubblica mondiale che ciò che sta perpetrando ai danni sia delle popolazioni serbe che cosovare non sia un massacro ma un atto di umanità nel tentativo di nascondere la barbarie dei suoi interessi economici e strategici. Una osservazione su tutte, mentre la Nato e gli Usa spendono decine di miliardi di dollari contro il governo di Belgrado con la ignobile menzogna di salvaguardare gli interessi civili e umani della popolazione cosovara di origine albanese, esponendola peraltro alle inevitabili rappresaglie serbe, dopo un mese di guerra non hanno organizzato nemmeno un invio di tende da campo e di supporti logistici per quei profughi che loro stessi hanno contribuito a creare e per i quali dichiarano di combattere. Tutto quello che è stato fatto per i profughi, poco e inadeguato per una simile emergenza, proviene da iniziative umanitarie private e non dalle ricche casse della Nato impegnata a produrre distruzione e morte. E per rimanere in tema, come mai dopo la fine della guerra civile in Yugoslavia non si è nemmeno preso in considerazione il problema di ben 700 mila profughi serbi provenienti dalla Croazia e dalla Bosnia, accampati come bestie in territorio serbo da quasi cinque anni.

L’unica cosa certa è che, in un mare di notizie unilaterali e preconfezionate, il dramma dei profughi che quotidianamente ci viene proposto per analisi giornalistiche e per immagini televisive, è cinicamente usato come lo strumento più efficace per giustificare il più inumano degli eventi, la guerra imperialista.

Anche se dovessimo bere il calice amaro della menzogna propagandistica i conti non quadrerebbero lo stesso. In cinquanta anni di vita politica e istituzionale lo stato di Israele ci ha abituati alle stragi programmate di palestinesi. Da Der el Yassin a Sabra e Shatila, sono state migliaia le vittime civili che il mondo palestinese ha dovuto immolare in nome della difesa del progetto sionista. Decine sono stati gli episodi di piccola e grande pulizia etnica praticata nei territori occupati e nella Galilea libanese. Lo stato di Israele è nato nel nome del terrorismo e della più feroce pulizia etnica, ma mai si è posto il problema di condannare l’alleato numero uno degli Usa in terra araba.

Recentemente il governo messicano ha praticato con ferocia numerosi massacri in Chiapas accusando, tra l’altro, gli Zapatisti di autonomismo e di attentare all’unità dello stato centrale, e anche in questo caso non si è mosso nulla, anzi le azioni repressive hanno suscitato il compiaciuto consenso di Clinton.

In Turchia sono decenni che il popolo curdo subisce repressioni di ogni genere. La pulizia etnica è all’ordine del giorno ogni qual volta viene messa in discussione la sovranità turca nelle zone petrolifere del nord est. Lo stesso caso Ocalan è la tragica rappresentazione di come l’indipendenza nazionale o la semplice rivendicazione autonomistica, se si scontrano con la rendita petrolifera o il passaggio di oleodotti nei territori contestati, diventi fonte di atroci rappresaglie contro la popolazione civile. Ma la Turchia è paese Nato e alleata degli Stati Uniti. Mai e poi mai simili massacri verrebbero considerati come crimini contro l’umanità bensì giuste reazioni verso chi attenta alla integrità dello stato.

Agli Zapatisti, ai Palestinesi e ai Curdi non si è mai applicata la norma della difesa umanitaria mentre alla minoranza albanese in Kosovo sì e con quale impiego di mezzi militari, di ferocia e determinazione. Il motivo c’è, è chiaro e risiede in una serie articolata di interessi americani nell’area che vanno dal controllo dei terminali occidentali del petrolio del mar Caspio alle tensioni post guerra fredda con la Russia e i timidi tentativi dell’Europa a percorrere strade autonome in materia economica, finanziaria e di approvvigionamento sui mercati delle materie prime.

Perché proprio il Kosovo

In Kosovo si sta giocando una partita la cui posta è altrove. Dopo il crollo dell’Urss il petrolio e il gas naturale del mar Caspio sono usciti dal controllo della Russia. Nell’area deputata alla produzione, alla commercializzazione e al trasporto del petrolio attraverso i necessari oleodotti si è aperta una lotta senza quartiere tra le regioni interessate. Da Baku in Azerbagian, zona di produzione caspica, alle raffinerie di Grozny in Cecenia, e a quelle di Supsa in Georgia, i progetti di costruzione di oleodotti e di consolidamento degli esistenti, hanno innescato processi autonomistici e secessionistici che solo gli allocchi sono riusciti ad attribuire al risorgere del nazionalismo caucasico dopo la scomparsa del totalizzante impero sovietico. Gli scontri armati tra Armeni e Azeri per il Nagornj Karabak, il contrasto tra Russia e Georgia per l’Abkazia, quello tra Russia e Cecenia e tra Cecenia e Georgia per l’Ossezia del sud hanno avuto come denominatore comune il passaggio del petrolio da Baku nel mar Caspio a Supsa nel mar Nero. In questo vuoto politico pieno di interessi e di contrasti, le mani ce le hanno messe tutti. Innanzitutto la Russia. Partendo da una disastrata situazione economica, così pesante e devastante da mettere in discussione l’assetto politico e sociale, l’oro nero del Caspio rappresenta una condizione irrinunciabile per l’immediato e per il futuro. Dopo gli accordi del settembre del 1997 con il governo ceceno, Mosca ha proposto il progetto di far passare l’oleodotto sul suo territorio, da Baku a Komsomolsk, unirlo a quello proveniente dal Kazachistan via Astrakan, per raggiungere il suo terminale a Novorossisk sul Mar Nero. Da lì il progetto prevede la prosecuzione via mare sino a Burgas in Bulgaria, per arrivare via Macedonia sulle coste dell’Adriatico a Valona in Albania, o meglio ancora, ma sarebbe pretendere troppo da parte di Mosca, in Montenegro via Kosovo. Uniche alternative Alexandropolis in Grecia, e sempre attraverso il Mar Nero, a Cehyan in Turchia.

Di ben altre prospettive è il progetto americano. Innanzitutto gli Usa si sono posti il problema di proporsi come gli unici interlocutori con i paesi ex sovietici produttori della zona caspica, eliminando la concorrenza della Russia, dell’Iran e della stessa Europa. In seconda battuta l’oleodotto finanziato dal Fmi, organizzazione che dipende dagli interessi americani, dovrebbe sì arrivare sulle coste dell’Adriatico ma tagliando fuori il territorio russo. Da Tengiz in Kazakistan, l’oleodotto dovrebbe arrivare a Turkmenbashi in Turkmenistan, poi oltre il Caspio a Baku in Azerbaijan, di lì, via Armenia e Georgia e attraverso il Mar Nero in Bulgaria, per concludere il suo viaggio a Valona nel cuore dei Balcani.

In questa prospettiva la tremenda operazione militare americana sui resti della Yugoslavia si configura come una vera e propria pulizia etnico petrolifera in grado di preparare il terreno agli investimenti energetici del Fmi. Lo opzioni finali possono essere tante: fare del Kosovo una sorta di protettorato miliare della Nato secondo progetti già stabilita a febbraio e a marzo del 1999. Scorporare il Kosovo dalla Federazione iugoslava puntando su Rugova o sull’Uck a seconda degli sviluppi bellico diplomatici. Smembrare la Yugoslavia agendo, oltre che sul Kosovo, sulla Voivodina e sul Monte Negro. Una cosa è certa, all’ordine del giorno c’è la necessità di predisporre ogni cosa perché non ci siano ostacoli di nessuna natura al progetto petrolifero, non ultimo, quello di indebolire, se non di annullare Milosevic, l’ultimo alleato russo nell’area.

L’importanza del terminale europeo del petrolio caspico va oltre la sua valenza energetica e non ha come vittima predestinata la sola Russia. Una volta assicuratasi il controllo del petrolio medio orientale attraverso la fitta rete di alleanze costruite durante la guerra del Golfo, messi fuori gioco attraverso l’istituto dell’embargo paesi come l’Iran, Iraq e Libia, l’America concede alle economie europee di usufruire del petrolio del mar Caspio a condizione del loro allineamento all’interno della Nato, e in termini più generali, alle sue esigenze bellico-economiche. Lo scopo dichiarato è quello di non consentire alla Russia una rapida ripresa economica, ma quello inconfessabile è di stabilire un ricatto politico energetico nei confronti dell’Europa nella prospettiva di impedirle la base economica di una possibile ricomposizione imperialistica dopo la fine della guerra fredda. Il petrolio è quindi una delle ragioni che hanno imposto la necessità dell’intervento armato degli Usa sotto le bandiere della Nato. Ma l’importanza strategica del petrolio non si esaurisce nel controllo dei suoi giacimenti e nella costruzione degli oleodotti che ne consentono il trasporto, con la relativa amministrazione politica degli stati - territorio attraverso i quali l’oro nero passa. Significa anche gestire la rendita petrolifera, ovvero quell’enorme flusso di capitale finanziario che deriva dalla commercializzazione e dalla determinazione del suo prezzo di vendita. Un dollaro in più o in meno al barile fa spostare giornalmente decine di miliardi di dollari da un continente all’altro. Mette in ginocchio quelle economie che dipendono, per il loro fabbisogno energetico, da chi controlla e gestisce le quantità e il prezzo di vendita del greggio. Ed essendo il dollaro l’unità di misura internazionale del suo valore commerciale, ogni variazione verso l’alto determina un ulteriore afflusso di petro dollari verso l’economia americana sotto forma di rendita parassitaria che gli Usa hanno l’intenzione di mantenere, aumentare, e soprattutto di non dividere con nessuno.

Il governo Clinton ha letto come una terribile minaccia ai propri interessi la possibilità che alcuni paesi petroliferi hanno ventilato, tra i quali la Libia e l’Iran, di commercializzare il loro petrolio in euro e non più in dollari. E non ultimo, il controllo del petrolio medio orientale e di quello caspico consente all’imperialismo dominante di stabilire, nei momenti più delicati di crisi economiche e politiche, di guerre commerciali e militari, a chi dare e a chi togliere la più importante delle materie prime sia per uso industriale che militare.

Non solo petrolio

Il portare la guerra nei Balcani, nel cuore meridionale dell’Europa, ha avuto il significato di avvertire il vecchio continente che la fine della guerra fredda non significava la fine della subordinazione politica al grande fratello americano. Che qualunque iniziativa, che come obiettivo avesse quello di praticare strade autonome o contrarie agli interessi americani, avrebbe dovuto fare i conti con il più potente apparato bellico mondiale.

La guerra alla Yugoslavia, voluta e imposta dal governo americano, condotta con la massima determinazione militare, fuori e contro l’Onu, è suonata come l’arrogante avvertimento che non solo le soluzioni politiche alle crisi internazionali devono prevedere un unico perno attorno al quale tutto il resto del mondo ruota, Europa compresa, ma che non c’è soluzione bellica che non preveda il suo intervento, in qualsiasi momento, sotto qualunque latitudine, anche nel cuore dell’Europa stessa, nel momento in cui sono in gioco i suoi interessi contingenti o strategici.

Dopo il crollo del falso comunismo in Urss, l’imbelle analisi delle borghesie occidentali recitava che la sconfitta dell’imperialismo sovietico avrebbe aperto all’umanità un periodo storico di sviluppo economico e di pace. Gli anni novanta avrebbero dovuto essere l’inizio di questa fase tanto promettente nelle aspettative quanto duratura nel tempo. Al contrario, lo scenario che le contraddizioni imperialistiche hanno tratteggiato è stato esattamente l’opposto. In meno di dieci anni si sono prodotte almeno tre crisi finanziarie nei paesi asiatici, in Messico e in Brasile. La crisi economica ha investito mezzo mondo industrializzato, tra cui il Giappone e l’Europa e tre guerre si sono succedute a ritmo vertiginoso, quella del Golfo, quella in Bosnia e oggi quella del Kosovo.

Il punto di partenza è che il capitalismo internazionale non ha rimosso le sue contraddizioni dall’implosione dell’imperialismo sovietico. La diminuzione dei saggi di profitto, la evidente difficoltà nei processi di accumulazione del capitale, la diminuzione dei tassi di incremento della produzione della ricchezza, la globalizzazione dell’economia, intesa come necessità da parte dei grandi capitali finanziari ad investimento e speculativi di avere a disposizione i mercati internazionali per meglio contenere il ribasso del saggio del profitto, sono la caratteristica degli anni novanta. Il processo ha origini lontane, è databile agli inizi degli anni settanta, ma solo in questo ultimo periodo è esploso in tutta la sua potenza devastante. Nei vari segmenti del mercato mondiale il capitalismo ha dovuto subito una impressionante accelerazione della concorrenza pari soltanto all’ingigantirsi delle sue contraddizioni. Ecco perché la corsa all’accaparramento dei mercati commerciali, finanziari, al controllo delle materie prime, petrolio su tutte, alla gestione dei mercati della forza lavoro a basso costo è diventata una lotta senza esclusione di colpi.

La stessa lotta il capitale l’ha usata contro la sua forza lavoro. Le ristrutturazioni ad alto contenuto tecnologico, frutto dei bassi saggi di profitto e della conseguente esasperazione della concorrenza, hanno prodotto e stanno tuttora producendo eserciti di disoccupati. Lo sfruttamento è aumentato in tutti i settori della produzione e della distribuzione. Il rapporto tra capitale e forza lavoro ha iniziato ad impostarsi su basi che prevedono l’utilizzo temporaneo dei lavoratori a seconda dell’andamento ciclico dell’economia. Flessibilità in entrata, ovvero accesso al lavoro secondo contratti a termine e a bassi salari. Flessibilità in uscita, cioè la possibilità da parte del capitale di licenziare i lavoratori senza particolari vincoli normativi e sindacali. Precarietà dunque del posto di lavoro, aumento della disoccupazione e della pauperizzazione, smantellamento dello stato assistenziale nelle voci più socialmente penalizzanti per i lavoratori, quali quelle delle pensioni , della sanità e della scuola.

Questo è lo scenario che il capitalismo è andato costruendo negli ultimi tempi, guerre comprese. Ricchezza concentrata in pochissime mani, pauperizzazione e miseria per milioni di cittadini, insicurezza sociale per i giovani e guerre, una dietro l’altra, come se fossero il normale divenire della società.

In un simile scenario, caratterizzato dal tentativo di riempire il vuoto imperialistico lasciato dall’Urss, le fibrillazioni molecolari dei vari capitali mondiali inscenano gli aggressivi tentativi di accorpamento e di ricomposizione delle nuove aggregazioni imperialistiche attorno e/o contro il polo americano. La moneta unica europea e i tentativi militari degli assi tedesco francese e tedesco britannico ne sono un esplicito esempio. Ma gli Usa non stanno di certo a guardare.

La guerra nel Kosovo, oltre a creare la premessa geo politica al transito, all’amministrazione della materia prima strategica per eccellenza e alla sua rendita in termini finanziari e di valuta, è un monito all’Europa perché non si illuda che il cordone ombelicale che l’ha tenuta legata agli Usa possa spezzarsi dopo il crollo dell’Urss e che i meccanismi di allineamento politico possano modificarsi o venire meno. Nei progetti americani c’è l’intenzione di rallentare, se non di boicottare, la crescita economica dell’Europa. Tutti i paesi del vecchio continente sono dei nani politici e militari e nani devono restare.

Al riguardo ci sono alcuni retroscena che precedono l’inizio della guerra nel Kosovo che meritano di essere portati alla ribalta di una cronaca politica che li ha sottaciuti se non volutamente nascosti. Poco prima di Rambouillet, in un vertice a tre a St. Malò tra Germania, Inghilterra e Francia si è cercato di gettare le basi per un coordinamento militare, premessa di una futuribile armata europea. Poco dopo, ma sempre prima di Rambouillet, in termini informali con il lavoro delle diplomazie non ufficiali, i maggiori paesi dell’Ue hanno cercato di convincere Milosevic ad accettare il diktat americano. Lo scopo era quello di non presentare su di un piatto d’argento l’occasione agli Usa di intervenire militarmente in Europa. Il mezzo era rappresentato dalla promessa di adoperarsi per togliere l’embargo alla Yugoslavia, di proporre in un futuro più o meno immediato la candidatura per un seggio all’Onu e di stanziare congrui finanziamenti all’ asfittica finanza di Belgrado. Poche settimane dopo il governo americano ha accelerato i tempi, è scattata la trappola a tenaglia dell’impossibile firma di Milosevic a Rambouillet e dell’attacco dell’Uck, armato e finanziato dalla Cia, ed è stata la guerra. A cose fatte i singoli paesi europei hanno dovuto piegare la testa e tentare di ricavarne il massimo dei vantaggi possibili. La Germania ha colto l’occasione storica, dalla chiusura delle seconda guerra mondiale, di poter partecipare a pieno titolo ad una operazione militare con il proprio esercito, una sorta di piccolo imprimatur che i governi tedeschi inseguivano da anni. L’Italia è certamente il paese europeo che ha la speranza di ricavarne il massimo vantaggio. Se il progetto dell’oleodotto dovesse andare in porto, dopo essere state soddisfatte tutte le condizioni di cui sopra, il petrolio caspico potrebbe risalire da Valona, via Adriatico, verso il centro dell’Europa attraverso la bretella Italia con grande soddisfazione per una parte della borghesia nazionale che si prepara all’evento partecipando fattivamente al massacro balcanico. La stessa ambizione la nutre la Grecia ma con minori possibilità di successo.

L’Inghilterra merita un discorso a parte. Mentre la borghesia finanziaria e quella legata alla rendita petrolifera del Brent nel Mare del Nord hanno tutto l’interesse a seguire il progetto americano di elevare il prezzo del greggio e hanno sposato sin dall’inizio l’opzione bellica in Kosovo, quella legata alla produzione industriale si dichiara pronta ad entrare nell’area dell’Euro e sulla sin troppo entusiastica partecipazione del governo inglese alle operazioni di guerra ha espresso molte riserve. Blair sta cavalcando le due tigri, con una mano sorregge le ragioni di allineamento atlantistiche della prima componente borghese, con l’altra non inibisce le ambizioni europeiste della seconda.

Tra le grandi europee chi ha dovuto allinearsi alle decisioni americane senza ricavarne il benché minimo vantaggio, se non quello di non essere completamente esclusa dai progetti di spartizione Nato del Kosovo e di erogazione del petrolio caspico una volta realizzato l’oleodotto, è la Francia.

Questo è il ritratto dell’Europa alle soglie del ventesimo secolo nel bel mezzo dei processi di ricomposizione imperialistici, apertisi in occidente dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La contrapposizione Europa - Usa, che è una delle ragioni della guerra del Kosovo, anche se le apparenze sembrano mostrare il contrario, si gioca su più terreni. Un primo terreno, come abbiamo visto, è quello petrolifero. In palio non c’è solo l’opportunità di accedere al consumo della più importante delle materie prime, ma la stessa libertà di accesso. Se il disegno macro imperialistico americano è quello di fondere sotto la sua gestione le risorse petrolifere del mar Caspio a quelle già controllate del medio Oriente, quello residuale europeo consiste nel non sottoporsi al ricatto, petrolio in cambio dell’allineamento, puntando ai mercati potenziali di Libia, Iran e Iraq, che non a caso sono stati messi al bando, fuori dalla portata dei paesi europei. Da anni l’Europa spinge all’interno dell’Onu perché gli embarghi, voluti e mantenuti dagli Usa, vengano tolti o quantomeno allentati. Mezza Europa ha già dei contratti firmati con i governi iracheni e iraniani per lo sfruttamento del loro petrolio e per una ristrutturazione delle tecniche estrattive ma che non possono entrare in vigore se gli Stati Uniti non concedono il loro nulla osta. Un secondo terreno è quello finanziario. Con l’Euro l’Europa sta tentando di sottrarsi all’egemonia finanziaria del dollaro. In gioco c’è il riciclaggio di enormi quantità di capitali speculativi che giornalmente si muovono da un continente all’altro, da una borsa all’altra creando le condizioni di favore per una economia o il collasso per un’altra. Il terzo terreno è quello classico del mercato commerciale con la sola aggiunta di mettere in evidenza una delle tante contraddizioni del capitalismo internazionale in questa fase finale del suo processo di accumulazione. Mentre i grandi capitali alla ricerca di saggi del profitto più remunerativi impongono l’internazionalizzazione della produzione come condizione del sviluppo e della propria sopravvivenza, configurando nuovi scenari economici di estorsione di plus valore, quindi di sfruttamento e di pauperizzazione, creano argini protezionistici sui rispettivi mercati commerciali e di forza lavoro a basso costo. Le guerre del latte, dei prodotti alimentari, della carne e delle banane. Gli accorpamenti e le fusioni nella telefonia e nella telematica, nelle banche, le mega concentrazioni nel terziario avanzato come nella produzione di beni di consumo tradizionali ne sono un chiaro esempio.

Niente di nuovo certo, se non l’accelerazione che a tutti questi fattori dà la crisi dei saggi del profitto, e a cascata, alle crisi economiche, alle crisi finanziarie, all’esasperazione della concorrenza in tutti i settori e in tutti mercati, all’attacco alle condizioni salariali e normative della forza lavoro e allo smantellamento dello stato sociale. Se la tensione tra Europa e Stati Uniti, espressa dallo stato di difficoltà del capitalismo internazionale, non è sfociato in un aperto contrasto è per l’enorme divario politico e militare. Siamo in presenza di una Europa che balbetta, che muove i suoi primi passi imperialistici, che tende verso l’unità politica e militare ma che è ancora ben lontana dal raggiungerle. Per questa ragione è costretta a subire tutto il peso dell’antagonista d’oltre oceano, che in chiave preventiva, non perde occasione per ricacciarla indietro, imponendosi anche sul terreno delle decisioni belliche e lavorando sulle competizioni interne, il Kosovo insegna.

La NATO quale strumento dell’imperialismo dominante

Nell’esultanza della vittoria del capitalismo occidentale nei confronti del capitalismo di stato sovietico, non pochi osservatori borghesi, alcuni di alto livello, hanno sostenuto la tesi che, finita la guerra fredda, smantellato l’apparato militare sovietico, disciolto il patto di Varsavia, ritiratesi le truppe dell’Armata rossa dal continente europeo e asiatico, anche una struttura militare difensiva come la Nato avrebbe dovuto progressivamente estinguersi al pari delle cause che nel lontano 1949 l’avevano posta in essere.

L’errore, se di errore si può parlare, è sempre lo stesso e fa il pari con la tesi secondo la quale dalla fine della guerra fredda in avanti per l’umanità si sarebbero aperti scenari di progresso, prosperità sociale e soprattutto di pace. Non solo le cose non sono andate così, ma l’Onu, che nella concezione del falso diritto internazionale borghese avrebbe dovuto assumere un ruolo più rilevante nel prevenire o dirimere le crisi sociali e tra stati, è stata progressivamente messa in un angolo e la Nato, invece di scomparire, è assurta a gendarme militare di tutte le controversie mondiali, con qualsiasi pretesto e sotto qualsiasi latitudine. Le ragioni dominanti che stanno alla base di questa apparente contraddizione sono quelle dell’imperialismo dominante, e cioè degli Stati Uniti. Nella recente fase di scomposizione e ricomposizione imperialistica caratterizzata dal tramonto dell’Urss e dai timidi balbettamenti dell’Europa, per gli Usa l’Onu è diventata uno strumento troppo complesso da gestire, con la presenza di paesi ostili o non allineati. Al contrario la Nato, organismo militare, con solo 19 presenze, senza Russia e Cina, il che consente al governo americano di meglio contenere le spinte centrifughe di alcuni paesi europei, si presta molto meglio alla gestione del potere politico e militare a livello mondiale.

All’origine dell’abbandono dell’Onu quale strumento di dominio internazionale da parte degli Stati Uniti, e dell’utilizzo della Nato quale mano militare di questo dominio, c’è la guerra del Golfo e i contrasti che ne sono nati con l’Europa. Con il primo, grande episodio di guerra dopo la rinuncia dell’Urss a proseguire sul terreno della guerra fredda, il governo americano è riuscito nel doppio intento di far credere ai paesi arabi del Golfo che la loro sicurezza economica e nazionale sarebbe passata attraverso la presenza militare americana in loco, e ai paesi europei che il loro futuro di approvvigionamento energetico non poteva fare a meno del controllo americano sul petrolio del Golfo.

Nelle intenzioni e nei fatti la guerra del Golfo doveva garantire agli Usa, per mezzo di una serie di ferree alleanze con i paesi produttori, basate sulla presenza militare americana che solo l’episodio bellico avrebbe potuto consentire, la gestione del petrolio e della rendita petrolifera al di fuori di ogni ingerenza europea. In questo caso la vittima sacrificale è stato Saddam Hussein con il suo tentativo di ergersi a maggiore produttore di petrolio della zona e a indipendente partner della rendita petrolifera con l’invasione del Kuwait. A cose fatte, sconfitto ed emarginato Saddam Hussein, stabiliti rapporti preferenziali con i maggiori paesi Opec, instaurato un presidio militare permanente in Arabia Saudita, in Kuwait, negli Emirati Arabi Uniti e in Giordania, create tutte la premesse perché le quantità di petrolio da estrarre, il conseguente prezzo di vendita e la discrezionalità di vendere o di non vendere e a chi vendere prevedesse il parere di un delegato americano, per l’Europa non ci sono state nemmeno le briciole se non la più vincolante delle sudditanze.

L’unico paese europeo che ha tratto vantaggio da una guerra voluta e combattuta dagli Usa per i suoi interessi economici e strategici, con i soldi e l’avallo dell’Onu, è stata l’Inghilterra. Poco, molto poco. Londra è riuscita ad accedere ad alcuni appalti per la ricostruzione post bellica dell’area e per lo spegnimento e la rimessa in esercizio dei pozzi kuvaitiani. Per gli altri nulla o quasi, con la beffa di aver finanziato e politicamente coperto una operazione i cui vantaggi sono stati appannaggio dei soli Stati Uniti. Oltretutto in quella occasione l’Europa non ha potuto giovarsi dell’appoggio di Urss e della Cina le quali, loro malgrado, sono state ridotte all’impotenza, o convinte a non usare il diritto di veto all’interno dell’Onu, sia dalle precarie situazioni interne che da uno scambio di opportunità proposto dal governo americano. Lo scambio prevedeva che gli Usa non avrebbero interferito sull’uso della forza da parte di Mosca per rintuzzare la decisione delle Repubbliche baltiche di abbandonare l’Urss, né sulla repressione che Pechino aveva scatenato nel giugno dell’89 in piazza Tien Ammen, in compenso Cina e Unione sovietica non avrebbero ostacolato, all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il progetto americano contro Saddam Hussein.

Questo l’Europa dei capitali e dell’imprenditoria non l’ha dimenticato. Con la guerra in Bosnia le cose sono radicalmente cambiate e i fronti si sono chiaramente espressi. Nella prima fase, quando l’Onu andava ratificando tutte le secessioni dalla Yugoslavia e tentava di imporre a raffica delle improbabili soluzioni alla crisi bosniaca, gli Usa hanno agito in proprio scegliendo immediatamente il fronte anti serbo favorendo con armi e politicamente la componente musulmana costringendola ad una forzata alleanza con i Croati in chiave anti Belgrado. Su questo terreno hanno avuto l’appoggio interessato e incondizionato di Austria e Germania. Il disegno era chiaro: gli Usa dovevano soddisfare le pressioni degli alleati musulmani del Golfo, Arabia Saudita in testa, e contemporaneamente perseguivano l’obiettivo di indebolire l’ultimo baluardo del cosiddetto socialismo reale nell’Europa occidentale togliendo alla Russia ogni residua speranza di poter contare su di un alleato nel cuore dei Balcani. La Germania si sarebbe ritagliata un’ampia area di intervento del marco che dal Baltico arriva al Mediterraneo passando per Polonia, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Croazia sino in Bosnia, appropriandosi di un mercato della forza lavoro a bassissimo costo.

La Russia e la Francia non hanno accettato le regole del gioco sino ad inscenare un atto di moderata insubordinazione all’interno dell’Onu. L’Inghilterra è rimasta a guardare mentre l’Italia ha assunto, come al solito, una posizione ambigua, oscillante tra il perseguire una sua politica nell’Adriatico e il suo tradizionale filo atlantismo. Nei fatti, con la crisi bosniaca, l’Onu ha cessato di essere l’involucro delle ambizioni imperialistiche americane, è diventato terreno di scontro di interessi, certamente più ingovernabile rispetto alla guerra del Golfo, uno strumento di cui l’amministrazione americana pativa l’utilizzo contrariamente alla fase precedente. Non a caso, con un colpo di mano, rozzo quanto efficace, gli Usa hanno ritenuto di chiudere la partita in Bosnia lasciando l’Onu al suo destino, mettendo alleati e avversari di fronte al fatto compiuto di servirsi della Nato quale ancora di ormeggio al proprio navigare imperialistico. I bombardamenti sulle postazioni serbe del monte Igman attorno a Sarayevo avevano il marchio Nato, fuori e contro l’atteggiamento conflittuale dell’Onu, premessa alla soluzione politica della guerra secondo i piani studiati a Washington. Nella Nato, con un numero esiguo dei paesi aderenti, senza la presenza cinese e russa, con una partecipazione limitata della Francia, le possibilità di condizionamento e di coercizione sono più alte e le opzioni militari americane hanno maggiori possibilità di diventare operative nei tempi e nei modi più opportuni.

L’attuale episodio bellico del Kosovo non ha fatto altro che confermare la linea di rottura tra l’arroganza degli Usa e i contraddittori e balbettanti imperialismi dell’Europa, tra Nato e Onu, quest’ultimo relegato in un angolo alla stregua di un vecchio arnese. Non solo ma l’atto di aggressione nei confronti della Yugoslavia, con la penosa scusa della guerra umanitaria, palesa una serie di interessi economico - strategici, oltre al già citato petrolio, dei quali la Nato sembra essere lo strumento più idoneo al loro perseguimento.

La strategia americana si muove su di un spettro geo - politico e geo economico vasto. Secondo le dichiarazioni dell’alleato generale inglese Mike Jackson, comandante delle forze di terra Nato in Macedonia, l’importanza strategica della Yugoslavia è nella posizione che occupa come più importante via di comunicazione terrestre tra l’Europa, il Medio Oriente e le rotte che conducono al Caucaso e in Asia. Con la fine della guerra fredda e il crollo dell’Urss si è liberato uno spazio immenso con la sue risorse economiche, commerciali ed energetiche, la cosiddetta Eurasia , ovvero quell’area che è compresa tra l’oceano Artico, il Mar Caspio, il Caucaso e il lago d’Aral. Washington non gradisce che Mosca possa rimettere le mani su queste vie di comunicazione e tiene sotto controllo il progetto europeo del Transport Corridor Europe - Caucasus - Asia, in termini tecnici Traceca. Nei suoi programmi c’è la completa esclusione della Russia, mentre punta sulla Turchia quale stato cerniera tra Europa e Asia per controllare le ambizioni europee. Ambizioni già chiaramente espresse in una serie di programmi comuni elaborati a Bruxelles che prevedono, per i prossimi 15 anni, investimenti nel progetto Eurasia per 90 miliardi di Ecu. Inoltre c’è il progetto di gestione del corridoio 10 che interessa la Germania e l’Austria e il porto di Salonicco in Grecia, ma che dovrebbe passare proprio attraverso la linea Zagabria - Belgrado - Skopje. Per questa doppia prospettiva, emarginare la Russia dalle grandi vie di comunicazioni commerciali ed energetiche e controllare le aspirazioni europee, la Nato sembra essere l’involucro più idoneo, non solo per risolvere la questione balcanica, ma anche per esercitare una supremazia politico militare su tutta l’area interessata. Nei piani di Washington la Nato dovrebbe estendersi dal Portogallo sino alla Bielorussia, alla Ucraina e alla Moldavia per consentire, manu militari, quella programmata emarginazione della Russia e l’auspicato controllo delle fonti commerciali ed energetiche a cui aspirano i maggiori paesi europei. Non per niente l’Europa e la Russia hanno tentato di rientrare nei giochi proponendo al G8 una soluzione negoziale che potesse essere accettata da Milosevic, dopo 72 giorni di bombardamenti, e non rifiutata dagli americani, in modo da riacquistare quel ruolo politico che, a fine guerra, consenta loro quegli spazi e quelle iniziative che, perdurando il conflitto sotto il comando militare americano, non sarebbero consentiti.

Una piccola vittoria per la Russia e l'Europa

Le operazioni diplomatiche in atto, a condizione che vadano in porto e che portino alla definitiva cessazione dei bombardamenti sulla Yugoslavia, danno il senso del contrasto esistente tra Europa e Usa giocato sulla pelle dei Cosovari e dei Serbi. I termini della pace saranno quelli che hanno imposto lo scoppio della guerra. Per l’Europa, schiacciata dallo strapotere americano sino al punto di aver dovuto accettare l’opzione bellica della Nato nel suo territorio, l’inizio delle trattative di pace sotto il patrocinio della resuscitata Onu, è una sorta di piccola rivincita. In primo luogo perché la proposta negoziale uscita dal G8 riammette nel gioco delle parti quella componente che con lo scoppio della guerra sembrava essere stata accantonata. Il che le consente, se non altro, di dar sfogo ai suoi pur ridimensionati appetiti imperialistici, partecipando a miglior titolo alla ricostruzione economica dell’area. All’asse Parigi - Roma - Berlino, contrapposto a quello di Washington - Londra, non è parso secondario il tentativo di riproporsi ad alto livello al tavolo delle trattative quale condizione per risollevare le sorti dell’Euro nei confronti del dollaro. La guerra ha sancito il processo contrario registrando il minimo storico della divisa europea nei confronti di quella americana, la pace dovrebbe interrompere il trend negativo per riproporre l’Euro quale affidabile strumento di investimento speculativo, e a più lungo termine, di mediazione nelle transazioni petrolifere, come era nei progetti iniziali quando è sorto nel gennaio 99. In secondo luogo la piccola rivincita europea si concretizzerebbe nel bloccare l’intervento americano al suo primo livello, la colonizzazione del Kosovo con relative interferenze in Macedonia e Albania, senza consentirgli di andare oltre nell’area balcanica. Infine l’imperialismo europeo esce da questa drammatica esperienza bellica, combattuta suo malgrado sul suo territorio, con la chiara consapevolezza che o si arriverà a una Europa nazione, con tanto di unità politica e militare, oppure per le mire economiche e speculative dei vari capitali del vecchio continente, gli spazi di intervento e di rapina sullo scenario internazionale saranno ancora per molto tempo appannaggio del solo imperialismo americano.

Per la Russia la posta in palio è ancora più importante se non vitale. Umiliata dall’arroganza dell’imperialismo americano, esautorata con l’Onu da qualsiasi possibilità di interferire nella questione prima dello scoppio della guerra, messa in un angolo per tutto ciò che concerne l’accesso alle vie di approvvigionamento energetico del Caspio, non poteva che giocare, come ultima carta, quella della soluzione negoziale attraverso un lungo percorso diplomatico. Ma contrariamente all’Europa, la Russia doveva a tutti i costi rientrare nei giochi, non tanto per salvaguardare i suoi interessi imperialistici a lungo o medio termine, quanto per non soccombere immediatamente, travolta da una crisi economico - politica che non ha precedenti nella sua storia moderna. Se rimanesse completamente tagliata fuori dai giochi il suo futuro sarebbe terribile, non ci sarebbe fine alla penuria di profitti, alla diminuzione progressiva di tutti i dati dell’economia e non ci sarebbero prospettive per una ripresa economica, nemmeno a lunghissimo termine. La situazione è grave a tal punto da rendere esplosiva ogni tensione, ogni minima turbolenza sociale. Cernomyrdin ha dovuto faticosamente tessere una tela che coprisse almeno le parti più scoperte delle esigenze russe e che contemporaneamente non lasciasse scoperti gli obiettivi di fondo americani. Ne è venuto fuori che Mosca ha abbandonato l’alleato iugoslavo, ha consentito l’ingresso della Nato in Kosovo ma con l’avallo dell’Onu, ha imposto la sua partecipazione alla forza civile e militare di sicurezza sotto l’egida dell’Onu. Si è riproposta con fermezza come elemento mediatore nella questione balcanica senza ostacolare più di tanto i piani della potenza vincitrice. Una inevitabile opera di equilibrismo che le consentisse, nei limiti del suo attuale peso specifico, di sperare di essere politicamente presente nella gestione del Kosovo, muovendosi militarmente con anticipo rispetto alle forze del Kfor, di non essere completamente esclusa dai piani di sfruttamento delle risorse energetiche del Caspio e di chiedere agli Usa una quota di finanziamenti congrua rispetto alle sue necessità economiche che non sia la miseria di 15 miliardi di dollari concessi dal Fmi. Cosa quest’ultima, forse già in atto prima ancora della ratifica da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu del piano presentato dal G8.

Agli Usa, la piccola rivincita di Europa e Russia, non ha provocato particolari danni, ha soltanto ridotto per dimensioni un successo annunciato nel momento in cui la guerra è scoppiata. Come da programma, l’imperialismo americano ha dimostrato di poter portare la guerra in Europa in qualsiasi momento e in qualsiasi modo, con o senza l’Onu, con o senza il consenso degli alleati. Il monito doveva essere chiaro e forte e lo è stato. Le risorse energetiche del Caspio, le grandi vie di comunicazione economica, commerciale e finanziaria dell’Eurasia, il loro terminale balcanico, il futuro stesso dell’Europa e della Russia devono fare i conti con le necessità imperialistiche degli Usa. In aggiunta, il contenuto primo della guerra Nato - Usa in Kosovo suona come un avvertimento alle ambizioni autonomistiche del vecchio continente, una sorta di preventiva minaccia alla costituenda nazione Europa affinché sappia che nulla le verrà concesso e che ogni suo forzo di affrancamento economico e politico verrà boicottato anche con episodi di guerra sul suo territorio. Il progetto di estendere la Nato, braccio armato degli Usa, alla zona balcanica è praticamente cosa fatta. Con l’allargamento della guerra al di là del Kosovo, in tutto il territorio iugoslavo, l’Albania, la Macedonia e la Bulgaria hanno immediatamente chiesto la protezione della Nato, entrando di fatto nello scenario militare americano il giorno stesso dello scoppio della guerra. Con il protettorato militare sul Kosovo e l’opzione giudiziaria nei confronti di Milosevic per crimini contro l’umanità ( da che pulpito viene la predica) gli Usa si sono impossessati della chiave d’ingresso dell’area balcanica, proiettando la loro sinistra ombra su tutto il continente europeo. A questo punto le piccole polemiche sulla composizione del Kfor (forza di sicurezza) della Nato con la partecipazione russa, le ipocrite assicurazioni dell’integrità e sovranità dello stato iugoslavo, lo strumentale problema del rientro dei profughi passano in secondo piano. Nei fatti, con l’avallo dell’Onu, si autorizza la Nato a stabilire in Kosovo una presenza internazionale di sicurezza la cui gestione è nelle mani di Washington. Tra i compiti del Kfor c’è quello di assicurare il ritiro e impedire il ritorno nel Kosovo delle forze militari, paramilitari e di polizia della Repubblica di Yugoslavia. L’ordine pubblico dovrà essere assicurato sempre dal Kfor in sostituzione della polizia serba. Nei compiti generali previsti dal trattato di pace c’è anche il controllo delle dogane e dei confini con una presenza del personale iugoslavo assolutamente simbolica. Il tutto si configura non solo come una gestione Nato - Stati Uniti del Kosovo ma come la premessa di un suo futuro distacco da Belgrado, alla faccia delle dichiarazioni ufficiali che recitano soltanto di una autonomia all'interno della Repubblica iugoslava.

A questo punto Milosevic potrebbe cadere ma anche rimanere al suo posto, alla guida di una nazione fantasma, distrutta dalla guerra, emarginata da tutti i giochi politici e economici, terra di conquista per i paesi appaltatori della ricostruzione. In questo caso fungerebbe da occasione da cogliere tutte le volte che gli Usa lo ritenessero opportuno, a seconda delle convenienze strategiche o delle semplici opportunità contingenti, per ribadire il loro ruolo di gendarmi del mondo, e quindi, dell’Europa. Ruolo molto simile a quello attribuito a Saddam Hussein, dopo la guerra del Golfo, altro scacchiere, quello medio orientale per il controllo dell’altro petrolio, quello del golfo Persico e della sua rendita. Consentirgli di sopravvivere politicamente potrebbe essere la condizione per giustificare altri interventi militari ogni qual volta le legge dell’appropriazione parassitaria e l’esasperazione della concorrenza che ne deriva li impongano. Altro che guerra umanitaria.

Fabio Damen

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