I conti che non tornano agli orfani dello stalinismo

Recensione al libro Intervista sul nuovo secolo di Eric J. Hobsbwam

Lo squallido spettacolo da basso impero che ci offre il teatrino della politica politicante, sia dentro che fuori i confini nazionali, ha il suo corrispettivo nella miseria teorico-intellettuale del pensiero borghese, che sempre più raramente riesce a produrre qualcosa per cui valga la pena di spendere un po' di denaro in libreria.

Le eccezioni sono rare, ma, pure, ogni tanto esistono e attirano la nostra attenzione, tanto da spingerci a dedicare loro un po' di spazio.

Ci stiamo riferendo all'ultimo libro di Eric J. Hobsbwam, uscito verso la fine del 1999 sotto forma di intervista (1), in cui lo storico inglese, sollecitato dall'intervistatore, affronta alcune questioni cruciali della nostra epoca, grosso modo le stesse su cui gli internazionalisti dirigono il loro lavoro di analisi.

Questo, naturalmente, non significa che ci sia una convergenza di opinioni e, soprattutto, di metodo. Al contrario, di norma le conclusioni cui giunge Hobsbwam sono molto distanti dalle nostre - se non opposte - ma ciononostante spesso riesce a cogliere acutamente gli aspetti formali degli eventi che hanno segnato e segnano questo periodo a cavallo tra due secoli, anche se poi non sa calarli correttamente nelle dinamiche profonde del modo di produzione capitalistico. Così la valutazione sulle cause degli scontri imperialistici, sugli effetti della cosiddetta globalizzazione sulla lotta di classe e sul rimescolamento del proletariato a livello mondiale o sul crollo dell'URSS, è viziata in partenza dalla sua formazione politica.

Ciò non stupisce, perché Hobsbwam ha militato per lunghi anni nelle file dello stalinismo (in specifico nel PC britannico) e il crollo di quella esperienza - esattamente come qualsiasi altro "semplice" militante proletario - lo ha sprofondato ancor più nel marasma ideologico, dove, a un "marxismo" già ampiamente deformato, si sono aggiunti elementi del più classico pensiero riformista borghese, peggiorando (se è possibile) il quadro di partenza. Tuttavia, come dicevamo, l'interesse di questo denso libretto resta e si può quasi dire che, raddrizzandole con gli strumenti del marxismo non artefatto, molte osservazioni possono tornare utili a chi, come noi, vuol licenziare questa ormai antistorica società.

Inoltre, bisogna dargli atto di una certa onestà intellettuale quando, fin dalle prime pagine, riconosce di essersi sbagliato nell'aver previsto, nel suo saggio forse più famoso - Il secolo breve - una fase espansiva dell'economia mondiale, mentre - e lo ripeterà più volte durante l'intervista - la crisi finanziaria del 1997-99, che ha colpito duramente l'estremo oriente e schiantato la Russia, gli suggerisce molta più prudenza nel dipingere di rosa il futuro dell'economia internazionale, come invece prevedeva all'inizio degli anni 1990.

La discussione vera e propria comincia però dalla guerra, in primo luogo quella del Kossovo, che Hobsbwam vede come l'ultima "conseguenza collaterale della Grande Guerra". Ma, accanto a questo, egli individua forti elementi di novità nella condotta della guerra in generale:

Le vecchie regole di guerra e pace, che distinguevano i conflitti interni da quelli internazionali, sono state erose e non ci sembra affatto probabile che saranno presto restaurate.

pag. 12

E questa tendenza sarebbe coperta ideologicamente dal fatto - o dall'ipocrisia, diciamo noi - che le guerre non sono più chiamate tali e nemmeno dichiarate, ma presentate dalle potenze più forti come operazioni di polizia e/o interventi umanitari. C'è indubbiamente del vero, eppure, a rigore, tutto ciò non è una novità in assoluto: basti pensare, per esempio, all'intervento degli eserciti stranieri contro la repubblica dei Soviet nel 1919-20 o alle continue intromissioni dei parà francesi e inglesi nei sanguinosi colpi di stato che hanno martoriato (e non cessano di farlo) il continente africano. L'elemento veramente nuovo è che tutto questo sia accaduto nel cuore dell'Europa, come momento dello scontro di interessi tra imperialismo USA e imperialismo europeo, seppure non dichiarato e non apertamente dispiegato.

Molto interessanti sono anche le osservazioni riguardo il fatto che se da una parte l'alta tecnologia avrebbe...

ripristinato la distinzione - scomparsa nel '900 - tra combattenti e non combattenti [dall'altra ...] il progresso tecnologico consente un ricorso più frivolo e più frequente alla distruzione. [Infatti ...] l'alta tecnologia accresce il rischio di conflitti armati, almeno da parte delle nazioni che ne dispongono.

pag. 12

Che nelle guerre del Golfo e del Kossovo i morti civili siano stati - durante le operazioni belliche - relativamente poco numerosi è sotto gli occhi di tutti, ma ciò non vuol affatto dire che la popolazione sia effettivamente al riparo dalle conseguenze estreme: accanto all'uso "frivolo" dei bombardieri "intelligenti" (prodotto, prima di tutto, dalla mancanza di avversari capaci di tenere testa militarmente agli USA) c'è un ricorso non meno "frivolo" e criminale agli embarghi e ad armamenti che lasciano una invisibile striscia di morte tra le popolazioni coinvolte, loro malgrado, nei conflitti. Infatti, nessuno (forse) riesce a calcolare esattamente gli effetti dei disastri ambientali e dell'uranio impoverito sulla salute della gente, senza contare poi il netto peggioramento delle condizioni di vita per il proletariato a causa delle infrastrutture distrutte, e in Serbia alcune settimane di bombardamenti hanno fatto all'economia più danni di tutta la seconda guerra mondiale (pag. 13).

Proseguendo il discorso sulla guerra, le considerazioni più originali riguardano, a nostro parere, la privatizzazione che sta investendo anche questo settore del mondo borghese. Ormai l'esercito statunitense ha consegnato gran parte della logistica ad aziende private [ma lo stesso vale per i penitenziari - ndr], non più come semplici fornitori esterni, ma come gestori diretti, sul campo, di questi rami dell'attività bellica, tanto che, secondo Hobsbwam, è possibile tracciare un parallelo con i signori della guerra che nell'Italia del 1400-1500 fornivano eserciti "chiavi in mano" a questo o a quel principe. Solo che oggi i moderni capitani di ventura sono imprese capitalistiche dotate di capitali enormi, il cui campo d'azione spazia dall'affitto di mercenari al commercio di armi, fino, appunto, all'appalto di intere branche dell'esercito.

In questa tendenza fa rientrare, giustamente, il progressivo smantellamento della coscrizione obbligatoria e la sua sostituzione con volontari ben pagati che, sottolineiamo noi, possono essere tranquillamente considerati dei mercenari. Oggi come nel 1500 costoro sono reclutati tra i poveri, gli espulsi o gli esclusi dal ciclo produttivo: non a caso, la maggior parte dei volontari dei reparti italiani impegnati nel brigantaggio imperialistico internazionale (spacciato per umanitarismo) sono ragazzi del Meridione, dove la disoccupazione giovanile morde a fondo.

Se nella descrizione Hobsbwam individua aspetti importanti delle trasformazioni in atto, il suo giudizio politico sulle stesse si perde - come avevamo premesso - nei vicoli ciechi del pacifismo democratico. Per esempio, mentre coglie l'ipocrisia delle motivazioni ufficiali della guerra del Kossovo (e di altre) quando scrive che:

in privato generali e politici non esitano ad affermare che [...] la pulizia etnica aiuta a semplificare i problemi...

pag. 20

o ricorda che gli americani...

furono i primi a inviare truppe in Macedonia già nel 1992,

dichiarando esplicitamente alla Jugoslavia il loro interesse strategico per la regione, le motivazioni di questo interesse vengono annegate in una generica "volontà di potenza" degli USA, senza vederne chiaramente le radici - e le conseguenze - negli antagonismi imperialistici. È logico, allora, che parta per la tangente, giudicando la legittimità o meno dell'intervento militare in base a criteri di efficienza (Bosnia sì, Kossovo no - pag. 22) e affidi la soluzione dei conflitti a organismi internazionali non meglio precisati: la guerra...

non può essere intrapresa da nessuno senza che ci sia un consenso ampio e basato su ragioni gravi.

È il solito pacifismo che sempre ammette eccezioni, visto che le "ragioni gravi" sono sempre state invocate per giustificare tutte le guerre, senza poi voler approfondire il discorso su chi dovrebbe dare "un consenso ampio". Tra l'altro, questo è in contraddizione con le lucide osservazioni sull'esplosione dei nazionalismi, di cui vale la pena riportare questa lunga citazione che dedichiamo ai numerosissimi tifosi "di sinistra" dell'autodeterminazione dei popoli, schieratisi a sostegno dell'uno o dell'altro fronte durante la guerra nei Balcani:

Ci sono in realtà pochi indizi - secondo me - di una pressione dal basso di massa, per ottenere la disintegrazione degli stati multinazionali, almeno in circostanze normali [...] Nei fatti, fino ad ora, non conosco un solo esempio di secessione decisa da un voto genuinamente democratico [...] mentre c'è stato un gran parlare del principio di autodeterminazione dei popoli, nella realtà non è mai accaduto, né si è manifestata una genuina spinta dal basso.

pagg. 23-24

Se dunque esclude, correttamente, qualsiasi intervento "dal basso" nella frammentazione statale dell'Europa orientale, ricade però nel più banale democraticismo quando si sofferma sulle tendenze che sembrano modificare il percorso storico su cui si è sviluppato lo stato moderno. Infatti, a suo giudizio, siamo di fronte a una "inversione della tendenza secolare che andava verso la costituzione degli stati nazionali" (pag. 30), i cui effetti più evidenti sarebbero il numero crescente di regioni in cui lo stato si è dissolto, lasciando il posto a bande armate più criminali che politiche (Somalia, Albania, ecc.).

Ora, anche ammettendo che in parecchie aree del pianeta la barbarie capitalista assuma anche questi aspetti e che lo stato abbia perso "il monopolio della forza coercitiva", le spiegazioni offerte presentano parecchi punti deboli, poiché questo non significa affatto la scomparsa dello stato in quanto strumento del dominio borghese, se mai una sua - come dire - ridefinizione (2); né vuol dire che ciò avvenga per motivi sovrastrutturali, quali il diffondersi dell'ideologia neoliberista o, tantomeno, perché sarebbe diminuita "la disponibilità volontaria dei cittadini a obbedire alle leggi dello Stato", presupponendo un nuovo protagonismo dei "cittadini" che condizionerebbe fortemente lo stato (pag. 36).

Tralasciando quest'ultimo aspetto, cui solo un incallito democratico con la testa fra le nuvole può prestare fede, la costituzione di microstati all'interno degli stati nazionali - tipo quello delle FARC in Colombia - punta comunque all'integrazione o alla sostituzione delle forze che reggono gli stati medesimi, non alla disintegrazione degli stessi. Che poi tutto ciò avvenga in un panorama in cui il relativo stallo delle forze borghesi in campo alimenta a dismisura la barbarie, questo attiene alla (finora) lentissima decomposizione del modo di produzione capitalistico, attanagliato da una crisi che per l'assenza di iniziativa rivoluzionaria del proletariato si trascina in un crescendo di orrori e miseria. Una impasse che, seppure nel solito modo contraddittorio, vede invece insediarsi nell'economia internazionale a causa del relativo declino degli USA nel XXI secolo.

Hobsbwam asserisce che in questo secolo la superpotenza americana perderà la leadership economica avuta nel Novecento, mentre conserverà per molto tempo ancora quella militare, dato che:

il mondo è diventato troppo grande e complicato per essere dominato da un solo Stato.

pagg. 45 e 75

E poiché esclude - al contrario di noi - la possibilità del comunismo, vede profilarsi un'epoca caratterizzata dall'insicurezza e dall'incertezza nelle medio-lungo termine, in un mondo sempre più dominato dalla cosiddetta globalizzazione. Ma anch'essa, aggiunge, è intimamente contraddittoria [è pur sempre capitalismo... - ndr]: se l'elemento fondante è quello di produrre liberamente attraverso le frontiere statali, più ancora che la liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari e delle merci, allo stesso tempo pone grosse limitazioni allo spostamento degli esseri umani, segnando un netto passo indietro rispetto ai primi del '900, quando i flussi migratori raggiunsero l'apice. Vero; ma la ragione è che oggi la crisi del ciclo di accumulazione, la profonda ristrutturazione tecnologica ad essa conseguente, la possibilità stessa di "produrre attraverso le frontiere" ossia là dove la manodopera è meno pagata, rendono milioni di esseri umani "superflui" per il capitale e, quindi, oltre un certo limite, un problema di ordine pubblico, perdendo i vantaggi offerti dalla loro funzione di "esercito industriale di riserva", anche perché, appunto, l'esercito dei disoccupati ormai travalica i confini nazionali e tendenzialmente si unifica a livello mondiale. Senza dimenticare, inoltre, che la maggiore ricattabilità dei clandestini dà un contributo all'indebolimento generale della forza lavoro, immigrata e indigena.

E proseguendo nella individuazione degli elementi di instabilità della nostra epoca, Hobsbwam pensa che i due fattori più rilevanti della fine-secolo siano - come avevamo anticipato - la crisi globale del 1997-98 e la bancarotta del "free market" (libero mercato). Anzi, anche qui a ragione, sottolinea che il "free market" non è mai esistito, ricordando i clamorosi interventi del governo statunitense per salvare la stabilità del sistema finanziario USA (pag. 65). Così, a fronte di un aumento progressivo della ricchezza da una parte e della povertà dall'altra (4), dell'emergere di grandi corporations in grado di confrontarsi direttamente con gli stati, lo storico inglese registra - come andiamo dicendo da tempo - anche un acuirsi dello scontro tra Stati Uniti ed Unione Europea:

Non credo che, dagli anni trenta in poi, ci sia stato un confronto diretto tra Stati Uniti e paesi europei, con minacce di guerre commerciali e tariffe punitive, simili a quello che stiamo vedendo adesso.

pag. 67

E se pure...

finora l'unico tentativo di controllare globalmente l'economia transnazionale è quello compiuto dando vita a un consorzio di stati, come è avvenuto nell'Unione Europea,

pag. 74

è scettico sulla possibilità che si costituisca un vero stato federale europeo con un solo governo e un solo esercito, per i diversi interessi degli stati membri (presenti e futuri) che alimentano spinte centrifughe. Ora, è indubbio che la strada verso la costituzione di un vero stato europeo sia irta di ostacoli, ma "l'integrazione [delle] politiche sociali ed economiche " (pag. 139) è già una base tutt'altro che disprezzabile e, in ogni caso, è l'unica via che il capitalismo europeo deve percorrere se vuole contrastare gli imperialismo avversari.

Al solito, dunque, sono le indicazioni più propriamente politiche che rimangono inaccettabili. Non fanno eccezione le analisi sulla fine del keynesismo e sulle sue ricadute nella "sinistra". Infatti, mentre dice che l'esaurirsi dell'Età dell'oro (ossia la fase economica ascendente degli anni 1950-70) ha chiuso l'epoca del welfare e delle politiche assistenziali della socialdemocrazia, cioè, detto in altri termini, di ogni margine di riformismo, allo stesso tempo ritiene che questo sia dovuto anche al venir meno della volontà politica dei governi, come se le due cose fossero scollegate tra loro. Non a caso, quindi, pensa che viviamo in un periodo storico in cui:

gli interessi della gente comune appaiono predominanti, in cui [i governi] devono fare in definitiva ciò che i loro governati richiedono.

pag. 76

Affermazione quanto meno incongruente con quanto scrive - correttamente - a proposito di Lafontaine (eletto, ricordiamolo, quasi a furor di popolo) costretto a dimettersi da ministro delle finanze, perché la sua politica "non era realistica" (pag. 96): certamente, ma irrealistica rispetto a che? È lui stesso che ce lo suggerisce:

a causa dell'opposizione del mondo degli affari, dentro e fuori la Germania.

pag. 95

Queste e altre contorsioni presuppongono l'accettazione a priori del sistema capitalistico e sono significative di quel marasma teorico-politico di cui parlavamo all'inizio. Non per niente Hobsbwam vede una sostanziale continuità tra il "progetto bolscevico" e lo stalinismo, ritenendo inoltre che il fallimento di quel progetto sia emerso "soprattutto dagli anni sessanta e certamente dai settanta": figuriamoci! La sconfitta della rivoluzione per noi era già chiara quarant'anni prima, senza aspettare "ventesimi congressi", invasioni di "paesi amici" o la stagnazione dell'era brezneviana. D'altronde, affermazione come quella che segue la dicono lunga sul grado di comprensione del marxismo di chi ha creduto di farne la propria guida politico-intellettuale per decenni:

È curioso che sia stato proprio Lenin a riconoscere che nazionalizzare un'industria non è in sé un progetto rivoluzionario. Molti paesi nazionalizzarono le ferrovie e l'elettricità, ma certo non erano socialisti, né aspiravano ad esserlo.

pag. 89

In realtà, il fatto davvero "curioso" è che, con queste convinzioni Hobsbwam abbia diretto una delle opere ritenute più prestigiose della casa editrice Einaudi ossia la Storia del marxismo... Per questo Hobsbwam, ora che il mondo del capitalismo di stato sotto mentite spoglie socialiste si è dissolto nei cupi scenari di un capitalismo selvaggio, mentre prende le distanze - senza rinnegarlo - dal suo passato non riesce a valutare correttamente la tragica esperienza stalinista e, disilluso e frastornato, non sa indicare una via per orientarsi tra i profondi rimescolamenti prodotti dal secolo appena trascorso, se non rimettendosi a un preoccupato pessimismo:

ecco perché alla fine del secolo io non so guardare con grande ottimismo a quello che verrà.

pag. 164

Tristezze di un vecchio intellettuale? Piuttosto la sconfitta storica che ha "bruciato" intere generazioni di militanti proletari e che continua a ipotecare la ripresa generalizzata della prospettiva comunista.

Per quanto tempo ancora?

(1) Eric J. Hobsbwam, Intervista sul nuovo secolo, a cura di Antonio Polito, Bari, Laterza, 1999.

(2) Vedi, a questo proposito, Lo stato a due dimensioni, Prometeo V serie, n. 5/1995.

(3)

La spartizione della ricchezza sta diventando drammaticamente meno uguale. E quando dico drammaticamente, intendo che un numero di persone molto piccolo, spesso singoli individui, stanno diventando ricchi oltre ogni precedente storico. Almeno dai tempi della società feudale, dai tempi in cui l'arcivescovo di Salisburgo possedeva un terzo della ricchezza dell'area in cui viveva.

pag. 81, ma vedere anche la pagina seguente

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.