Lo stato palestinese - I lavoratori palestinesi nella trappola del nazionalismo

La notizia, non ancora confermata, circola insistentemente negli ambienti politici più accreditati. Clinton si appresterebbe a convocare a Washington, separatamente o insieme, Barak e Arafath per decretare la nascita dello stato palestinese nei territori attualmente amministrati dall'Olp, (Gaza e di circa il 30% della Cisgiordania), pur di porre fine al conflitto arabo - israeliano costato cinque guerre ufficiali, decine di migliaia di morti, sacrifici inumani per i quasi sei milioni di palestinesi e attualmente ancora in atto.

La notizia, se confermata e, soprattutto, se avrà un seguito sul piano degli accordi e del diritto internazionale, sembrerebbe una pesante modificazione di quella che è sempre stata la politica americana nello scenario mediorientale. In realtà, l'iniziativa è coerente con gli interessi americani nell'area inseriti in una scenario profondamente modificato dalla fine della guerra fredda e dalle nuove alleanze petrolifere createsi dopo la fine della guerra del Golfo. L'imperialismo di Washington ci aveva abituato ad un atteggiamento unilaterale a favore dello stato di Israele senza alcuna possibilità da parte dell'Olp di usufruire del benché minimo appoggio nella rincorsa alla indipendenza nazionale della Palestina. Oggi si presenta come mediatore tra gli interessi dello stato di Israele e quelli della borghesia palestinese, e pur non ponendo i due contendenti sul medesimo piano, si mostra più disposto ad accogliere le reiterate richieste nazionalistiche di Arafath. La chiave di lettura è semplice, basta ripercorrere gli interessi imperialistici americani nell'area, le sue violente conquiste e le necessità di conservazione dello "status quo" per arrivare alla spiegazione.

La fine della guerra fredda e la guerra del Golfo hanno offerto su di un piatto d'argento la possibilità di estendere in Medio oriente la propria egemonia sulla materia prima strategica più importante, il petrolio arabo, sottraendone l'accesso agli stati europei, al Giappone e alla stessa Urss ormai ad un passo dallo crollo.

L'esca Saddam ha inoltre consentito la permanente presenza militare americana in tutta l'area, dall'Arabia saudita al Kuwait, dall'antico alleato Egitto alla Giordania, dagli Emirati arabi uniti all'Oman, stabilendo una fitta rete di alleanze politico - militari che avevano alla base il controllo del petrolio. Come se non bastasse la diplomazia americana, forte della vittoria militare, presentatasi come l'unico strumento politico in grado di garantire la pace e i profitti per tutti, è riuscita ad imporre all'Opec un proprio osservatore che, pur non avendo diritto di voto (e come avrebbe potuto non facendo ufficialmente parte dell'Organizzazione) aveva ed ha tuttora la possibilità di intervenire nelle assemblee per esporre la linea americana su quantità da estrarre e prezzi di vendita.

A quel punto l'unica variabile che avrebbe potuto disturbare le posizioni acquisite, la fitta rete di alleanze basate sulla gestione del petrolio, gli equilibri stabiliti con la forza delle armi, era rappresentata del conflitto tra lo stato di Israele e i Palestinesi. La preoccupazione era che il conflitto non fosse più arginabile come lo era stato precedentemente, e che la sua intensificazione ed estensione alle popolazioni arabe limitrofe potesse creare instabilità in tutta l'area mettendo in crisi le acquisizioni economiche e politiche raggiunte. Al raggiungimento di questo obiettivo sono state mirate tutte le conferenze di pace nel Medioriente che hanno avuto luogo a partire dalla chiusura della guerra del Golfo.

Da Madrid ad Oslo, in tre anni di lavoro si è arrivati agli accordi di Washington che, secondo le aspettative americane, avrebbero dovuto creare le condizioni per la cessazione del conflitto, e quindi consentire sonni tranquilli ai gendarmi della zona e agli amministratori dei petrodollari. Ma come è noto diavoli e coperchi non vanno d'accordo. I patti se tacitavano, male e parzialmente, le primarie esigenze delle due borghesie (sicurezza dei confini e cessazione del terrorismo per Israele e autonomia amministrativa per i palestinesi nei territori occupati), hanno messo sul piede di guerra la destra israeliana rappresentata dal Likud, dai coloni e dai piccoli partiti religiosi da una parte, e la piccola borghesia palestinese rappresentata dai movimenti integralisti dall'altra. I primi hanno rimproverato al governo Rabin di concedere ai Palestinesi, seppure soltanto amministrativamente, la Cisgiordania, terra fertile e ricca di acque, paventando il rischio che la concessione potesse diventare il trampolino per la rivendicazione di uno stato vero e proprio, escludendo i coloni e la stessa economia agricola israeliana da una parte importante dello stato di Israele che, comunque, veniva considerato immutabile nel suo assetto geografico. I secondi hanno addirittura accusato Arafath di alto tradimento, di aver svenduto la causa palestinese per una porzione della Palestina nemmeno sotto forma di stato, bensì di autonomia amministrativa su quei territori strappati ai Palestinesi con la forza nel corso della guerra dei sei giorni. Conclusione: i coloni hanno continuato ad occupare le terre, il governo conservatore precedente li ha appoggiati, e l'estremismo palestinese ha avuto modo di rinserrare le file. Gli accordi di Washington, invece di eliminare le tensioni le ha esasperate fallendo il suo scopo principale.

Il governo Clinton ha dovuto ritessere le fila ma partendo da una situazione diversa. Dopo la scomparsa dell'Urss, con una serie di alleati all'interno del campo arabo, con un movimento palestinese sempre pronto ad accettare purché gli venisse concesso qualcosa, con una parte della opinione pubblica israeliana sempre più propensa a cedere pur di vivere in pace, ha tentato una carta che precedentemente non avrebbe mai potuto giocare, quello della ipotetica nascita dello stato palestinese, non in tutti i territori occupati, non in base alla vecchia risoluzione 181, ma sulla scorta di quel 30% che oggi è sotto l'amministrazione palestinese. Uno scacco nei confronti del vecchio alleato sionista? No, è la legge della "real politik". Israele resterebbe l'alleato di sempre ma non più come unico punto di riferimento nell'area che lo rendeva centrale nelle strategie americane in chiave anti sovietica e anti araba. Uno stato che, dopo essere stato inventato, difeso e mantenuto dall'imperialismo americano, deve sottostare alle esigenze del fratello maggiore affinché gli interessi di Washington nell'area rimangano gli stessi. La grande preoccupazione di Clinton è che la riapertura del conflitto non riguarderebbe soltanto Israele e i palestinesi, ma anche la Siria e il Libano, con a fianco buona parte delle popolazioni arabe del Medioriente e del Maghreb. La nascita, dunque, di un piccolo stato palestinese, sempre che l'uscente amministrazione Clinton ritenga di doverla favorire, darebbe alla pavida borghesia di Arafath le briciole della Palestina e al massacrato proletariato palestinese la possibilità di cambiare in parte padrone. Se prima andavano dalla Striscia di Gaza a lavorare in Israele per salari di due terzi inferiori a quelli dei lavoratori israeliani, poi continuerebbero a farlo ma da cittadini palestinesi in concorrenza con i curdi e pakistani. Restando nella nuova patria non avrebbero certamente un trattamento salariale migliore, né maggiori possibilità d'impiego. L'unica soddisfazione sarebbe quella di soffrire lo sfruttamento, la miseria e la disoccupazione in "casa propria" senza dover "uscire" per averli e sotto un padrone che parla la loro stessa lingua e che sventola la stessa bandiera.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.