Il profilo della politica sindacale

Da Battaglia comunista n.2 - febbraio 1952

Il problema che maggiormente ha contribuito a provocare la crisi nel nostro partito è senza dubbio il problema sindacale. Maggiormente perché il problema di una politica sindacale ben chiara e precisa ,che risolva nel periodo storico che attraversiamo la vessata questione del permanente contatto con le masse, è particolarmente sentita dai nostri militanti operai; il che non esclude che nello svolgimento della crisi siano venuti in luce altri dissensi su problemi non meno fondamentali. Ora, è fin troppo chiaro che in mezzo a noi, cioè nel partito considerato nel suo insieme, circolano concezioni diverse sulla politica sindacale che il partito dovrebbe adottare in questo particolare momento dello svolgersi della lotta di classe, e c'è anche chi pensa che il partito possa fare anche a meno di una politica sindacale.

Eppure, tale questione è quella che, dal 1943 ad oggi, ha maggiormente travagliato il nostro partito, e dopo anni di quasi permanente discussione sarebbe legittimo pensare che a Firenze abbia trovato il suo epilogo nel corpo di tesi presentate al Congresso.

Infatti, quando un partito come il nostro sente la necessità del Congresso è perché in ordine agli aspetti della situazione politica generale già scontata in analisi precedenti si sente il bisogno di mettere ordine nei nostri atteggiamenti e nella nostra azione politica, e non unicamente perché, per rapporto al tempo, siano passati anni senza che il partito abbia tenuto il suo Congresso.

Queste considerazioni ci sembravano necessarie per comprendere il significato politico del Congresso di Firenze al quale siamo giunti attraverso una lunga e qualche volta accidentata situazione interna; ricostruiamo questa maturazione.

Quando ancora la guerra stagnava sulla cosiddetta linea gotica, il comitato centrale del periodo clandestino inviava a tutti i gruppi una circolare centrata sulla prospettiva della ricostruzione del movimento sindacale di classe col concorso delle nostre esigue forze politiche. Contemporaneamente i nostri compagni del Sud già «liberato» raggruppati in frazione operavano nei sindacati e in qualche caso assunsero la direzione di qualche Camera del Lavoro mettendosi immediatamente in urto con le gerarchie dominanti: la Confederazione generale del Lavoro.

Su questa direttiva, che si rifaceva alla tradizione della sinistra italiana del 1922, impostò la sua politica sindacale il nostro partito dopo il 25 aprile 1945. Il 1° Convegno nazionale di Torino (Dicembre 1945) convalidò quella politica pronunciandosi per la ricostruzione del sindacato di classe indicandone i mezzi: le frazioni sindacali.

Ma le esperienze vissute in quegli anni che videro i sindacati fare una politica «ministeriale» di appoggio alla ricostruzione di tutta la macchina borghese e successivamente, in seguito alla scissione avvenuta nel blocco vincitore della guerra, fare una politica di appoggio ad uno dei raggruppamenti imperialistici, maturò in tutti noi la consapevolezza che il sindacato, svuotato di ogni contenuto di classe aveva ormai la specifica funzione di soggiogare le masse alle esigenze della conservazione borghese, e che, come tutti gli strumenti di conservazione, sarebbe finito, in situazioni diverse dalle attuali sotto i colpi demolitori delle masse in fase di ascesa rivoluzionaria. Le tesi di Firenze condensano questa maturazione portata a termine durante tre anni e sono da considerarsi valide per tutto il periodo storico che va dalla fine della II guerra mondiale allo scoppio della III o alla rivoluzione.

Purtroppo nel partito e ai suoi margini c'è chi non la pensa così.

Infatti l'esperienza recente è ricca d'insegnamenti. C'è chi pensa, come del resto ha sempre pensato, che i sindacati attuali abbiano ancora un ruolo da svolgere, e che le forze del partito hanno il dovere d'inserirsi in esse come frazione organizzata ed eventualmente assumere anche posti direttivi in organizzazioni periferiche e di fabbrica. Queste concezioni sono state chiaramente espresse al Convegno di Roma e a quello più recente di Firenze. Ci sono poi quelli, Comitato Esecutivo compreso, che pensano che il partito possa fare a meno di una politica sindacale e sono i più pericolosi per il partito, mentre in realtà non possono esimersi dal definire il loro atteggiamento di fronte ai sindacati, commissioni interne e agitazioni operaie, atteggiamento che li mette in urto stridente con le tradizioni del partito e della sinistra italiana e li colloca accanto alle correnti estremiste utopista di Germania e d'Olanda.

Ora la cosa non sarebbe eccessivamente grave se i compagni dell'esecutivo e il loro seguito si limitassero ad esprimere nel partito il loro particolarissimo modo di considerare i rapporti che marxisticamente devono intercorrere fra partito e massa; ma diventa gravissimo quando - dopo avere ascoltato le tesi di Firenze - tentano, richiamandosi a norme di disciplina formale, di estromettere dal partito le forze che vogliono rimanere in regola coi deliberata del Congresso; per cui è necessario dire ben chiaro che questi espedienti procedurali ci richiamano alla memoria la più nauseante prassi staliniana.

Va da sé che una simile situazione interna del partito e il modo con cui l'attuale esecutivo ha proiettato nelle masse, in nome del partito, le sue particolari concezioni politiche non poteva e non può assolutamente durare. La crisi che per lunghi mesi ha paralizzato l'azione deve essere superata, e questo superamento deve essere essenzialmente politico prima, organizzativo poi. Pertanto la discussione che l'attuale esecutivo non ha mai voluto e non vuole è aperta, e il Congresso ci sarà! E non perché è da quattro anni che non se ne tiene, ma perché è assolutamente indispensabile per salvare la unità politica e organizzativa del partito; e si potrà salvare convincendo i compagni tutti a mantenere fede non al particolare, non al transitorio, ma a quello che vi è di sostanzialmente valido nel Congresso di Firenze, la lineare concezione dei rapporti fra partito e classe.

Le vie dell'opportunismo

Da Battaglia comunista n.2 - febbraio 1952

Non c'è un solo raggruppamento politico che sia immune dal contagio delle ideologie e degli interessi dell'imperialismo e della guerra, e che non covi la propria crisi.

E noi? Anche noi siamo un piccolo partito esattamente misurabile con il peso immane esercitato su di esso dalla reazione capitalistica; ma anche un piccolo partito come il nostro porta con certezza nel suo seno il potenziale esplosivo della rivoluzione se saprà condurre fino in fondo la lotta iniziata contro la duplice manifestazione dell'imperialismo.

Proprio per questa ragione non devono avere cittadinanza nel nostro partito formulazioni teoriche come quella che mira a suddividere i paesi capitalisti in tanti nemici diversamente graduati nel senso delle pericolosità e della responsabilità, per cui il capitalismo americano sarebbe "più" nemico del capitalismo russo; come l'altra formulazione che, dietro l'insidia di un assunto economico che ci ricorda Antonio Labriola, quello deteriore, tenta di deviare l'atteggiamento del nostro partito nei riguardi della Russia e della guerra, col vecchio motivo della necessità... dialettica di condurre la lotta per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale per favorire l'avvento della produzione capitalista. Assunto vero e politicamente reale un secolo fa; sempre vero, ma politicamente meno reale, oggi; se però fosse riferito alla Russia di Stalin, perché vista nel suo sforzo, a volte grandioso, di debellare la realtà feudale e i suoi eventuali ritorni, tale assunto sarebbe storicamente falso e obbiettivamente controrivoluzionario.

Ecco perché dobbiamo abituare il partito a dibattere e ad approfondire i suoi problemi, anche quelli di pura dottrina, e diffidare e respingere tutte quelle formulazioni non ancora sottoposte al suo vaglio critico e soprattutto non tradotte sul piano della politica di classe e cella lotta rivoluzionaria.