Il grande capitale conferma Bush & Co. alla Casa Bianca - Le elezioni americane

Con la rielezione di Bush non dovrebbero esserci più dubbi sul fatto che, in un paese in cui la campagna elettorale di un senatore costa più di 5 milioni di dollari e quella per le presidenziali fra i quattrocento e i cinquecento milioni di dollari, a decidere chi saranno i componenti del Comitato d'Affari che lo governerà non sono né i lavoratori né il comune cittadino ma è il grande capitale, le grandi concentrazioni industriali e finanziarie.

Ha vinto Bush e non poteva andare diversamente visto che è stato sostenuto da quel complesso militar-industriale e petro-finanziario che dalla sua politica ha tratto i maggior vantaggi.

Stando ai dati dell'ultima trimestrale sull'andamento dei titoli quotati a Wall Street, in un contesto generale piuttosto grigio, brillano i titoli delle imprese direttamente impegnate nei conflitti scatenati dall'amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq e che sono state insieme alla famigerata Hallyburton fra i maggiori finanziatori della sua campagna elettorale.

La Loockheed Martin, solo per fare qualche esempio, dopo l'attacco alle Twin towers ha quadruplicato il valore delle sue azioni e nella trimestrale del 30 settembre scorso ha dichiarato un utile netto pari a 307 milioni di dollari con una crescita del 41% rispetto allo stesso periodo del 2003. La Northrop Grumman " ha praticamente raddoppiato il proprio giro di affari da quando alla presidenza degli Stati Uniti si è insediato G. W. Bush" e nella stessa trimestrale ha dichiarato "un volume d'affari in crescita dell'11% rispetto allo stesso periodo del 2003" (M. Bonaccorso - L'utile della guerra - Il manifesto del 29/10/2004). Le maggiori compagnie petrolifere statunitensi, poi, dall'invasione dell'Afghanistan a oggi hanno fatto registrare un incremento dei loro profitti pari al 120 per cento, mentre mediamente nello stesso periodo tutte le altre imprese hanno fatto registrare una diminuzione netta. Le tre maggiori di esse, nella sola ultima settimana dello scorso agosto, hanno realizzato profitti per qualche decina di miliardi di dollari (vedi: La vertiginosa ascesa del prezzo del petrolio - BC 9/2004). Con gli affari che grazie alla politica di Bush vanno a gonfie vele, perché mai, dunque, avrebbero dovuto cambiare cavallo e lasciare il certo per l'incerto? Anche Kerry ha ricevuto da loro finanziamenti ma in misura molto ridotta: il 20 per cento di quelli ricevuti da Bush. E ha perso; ovviamente non solo per questo. Ha perso anche perché nel paese che dice di essere il più democratico del mondo, tanto da sentirsi legittimato a esportare la sua democrazia facendola camminare sulle ogive dei suoi missili e sui cannoni dei suoi carri armati, più della metà della popolazione censita, in particolare la maggior parte del proletariato di colore e la gran massa degli oltre 35 milioni di poveri, è di fatto privata del diritto di voto dalla complessità del sistema elettorale. Nelle ultime elezioni, il partito repubblicano ha impiegato un vero e proprio esercito di "osservatori" pagati cento dollari al giorno proprio con l'incarico di contestare il diritto di voto a tutti coloro che si presentavano ai seggi per chiedere una scheda provvisoria a cui teoricamente ogni elettore ha diritto quando per le più svariate ragioni, e sono tantissime, non riesce a farsi registrare nelle liste elettorali.

Ma ha perso soprattutto perché per trovare delle differenze fra lui e Bush ci voleva il lanternino di Diogene. Come Bush, nulla ha saputo dire a quell'altra America che vive al limite della soglia di povertà, né a quella, sempre più grande, priva di qualunque forma di assistenza sanitaria, né alla massa crescente dei disoccupati e neppure agli occupati i cui salari stagnano ai livelli dei primi anni '70 del secolo scorso sempre più assottigliati dall'inflazione che, a dispetto delle cifre ufficiali, negli ultimi anni ha ripreso a crescere. Bush, sapendo come Kerry peraltro, che l'attuale modello economico e finanziario di gestione della crisi, tutto incentrato sul controllo dei processi di formazione della rendita e quindi dei mercati finanziari e delle materie prime, non solo non consente la soluzione di neppure uno di questi problemi, ma non può in alcun modo prescindere dal disporre di una poderosa e costosissima macchina militare e dalla guerra.

Purtroppo il processo di formazione anche della più semplice coscienza critica e della propria condizione di classe non è un riflesso meccanico dei soli interessi materiali ma è il prodotto dell'interagire di un complesso di fattori oggettivi e soggettivi ivi compresa quella componente d'irrazionalità che è sempre presente nei comportamenti degli uomini e che nei momenti più difficili ne alimenta le paure e li spinge alla ricerca di un rifugio nella religione e perfino nella superstizione. La borghesia lo sa e vi ha fatto sempre leva.

Dopo l'11 settembre, lo spettro del terrorismo e della guerra fra civiltà è stato additato come la causa di tutti i mali che assillano gli Usa e non solo loro. La crisi economica, i tagli alla spesa pubblica, alla spesa sanitaria e a quella pensionistica, tutto è stato ricondotto a quel fatidico giorno e alla necessità di far fronte alle minacce provenienti "dall'integralismo islamico". Non c'è da meravigliarsi dunque se anche consistenti strati del proletariato e della piccola borghesia impoverita dalla crisi abbiano votato per il presidente di guerra giacchè in questo contesto solo la guerra è apparsa e appare lo strumento più efficace per riconquistare il benessere e la sicurezza, soprattutto quando a farne le spese maggiori è l'altro, lo straniero, il nero, il giallo, il musulmano, il selvaggio. In assenza di un punto di riferimento politico alternativo a quello della borghesia e autonomo da un punto di vista di classe, il proletariato e gli strati sociali ad esso assimilabili non possono in alcun modo sottrarsi, come aveva ben capito Marx, all'influenza dell'ideologia della classe dominante; tanto più oggi che questa ideologia, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, è veicolata da potentissimi mezzi di comunicazione come la televisione e da una vasta gamma di merci il cui consumo implica per forza l'adozione di quei modelli di comportamento sociali che essa stessa ispira.

L'ideologia però non può fermare la crisi che, essendo figlia delle contraddizioni del processo di accumulazione del capitale, continua a scavare e a mordere sempre di più nella carne dei più deboli mentre la guerra fa i ricchi sempre più ricchi. "Oggi - scrive l'economista statunitense J. Rifkin - Il divario tra i redditi in America ha raggiunto livelli record... Solo il Messico e la Russia ci seguono in classifica tra le nazioni industrializzate. La povertà adulta e minorile continua ad aumentare e viene in pratica ignorata dal dibattito politico. Oggi gli Usa occupano un triste ventisettesimo posto nella classifica della povertà infantile nelle nazioni industrializzate. I costi sanitari dilagano, la mortalità infantile è in crescita e l'aspettativa di vita è in flessione per la prima volta in un secolo... Negli ultimi quattro anni gli Usa hanno conosciuto una perdita netta di 1,6 milioni di posti di lavoro. L'ultima volta che si registrò un dato del genere fu nel 1929, l'anno del crollo della borsa che segnò l'avvio della Grande Depressione. Nel frattempo milioni di americani si ritrovano sommersi dai debiti... Quest'anno in America saranno più numerose le dichiarazioni di fallimento (negli Usa anche le famiglie possono dichiarare fallimento - n. d. r.) delle domande di divorzio o delle iscrizioni ai corsi di specializzazione universitaria o degli attacchi di cuore" (Nessuno parla dei problemi veri - La Repubblica - 1 nov.2004).

Per quanto tempo ancora un fantasma potrà occultare un simile stato di cose?

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.