Lo sviluppo della Cina: emerge un potente polo imperialistico

Introduzione

Gli ultimi vent'anni di vita del capitalismo si caratterizzano per forti mutamenti della scena internazionale. Accanto all'affermarsi degli Usa come unici gendarmi del mondo, conseguenza questa del disfacimento dell'impero sovietico, al tentativo europeo di avviare il processo di costituzione di un nuovo polo imperialistico capace di fronteggiare quello americano e accanto al Giappone, colosso economico dell'estremo oriente, attanagliato da una perdurante stagnazione che sembra solo da un anno in fase di superamento, l'oriente sta vivendo un periodo di grande vitalità economica, caratterizzato da tassi di sviluppo assolutamente superiori a quelli del mondo occidentale, che si avvia ad imporre un deciso cambiamento agli equilibri economici mondiali. Se da una parte si ha l'affannoso e arrancante avanzare del capitalismo americano ed europeo, caratterizzato da una crisi strutturale da noi più volte analizzata, dall'altra procede, quasi senza sosta, il poderoso sviluppo e la crescita vorticosa dell'area asiatica, area che potrebbe presto assumere un peso determinante a scala globale. L'India e la Cina, ma in particolare quest'ultima, sono i motori di questo sviluppo che, presto, porrà al mondo intero nuovi problemi. Si tratta indubbiamente di un fenomeno molto importante che non può essere trascurato perché determinerà nei prossimi anni grandi cambiamenti. La Cina, con l'impressionante forza della vastità del suo territorio e della sua popolazione, sta cercando di diventare una potenza economica capace di rientrare sulla scena mondiale con rinnovato vigore e con le credenziali di vera e propria potenza imperialistica dotata di tutti i numeri per trattare da pari a pari con i colossi americano ed europeo. Si tratta di un mutamento epocale che merita anche da parte nostra un'adeguata attenzione nello sforzo di comprendere le future dinamiche imperialistiche.

Lo sviluppo cinese in sintesi

La Cina sta espandendosi da circa vent'anni al tasso medio annuale del 9% (1). La Banca Mondiale prevede che intorno al 2010 il prodotto interno lordo cinese supererà quello americano portando il paese al primo posto nel mondo (nell'ipotesi che non vi sia rallentamento della crescita). A nostro giudizio si tratta comunque di una previsione ottimistica perché presuppone il mantenimento dei passati tassi di crescita in presenza di un'economia che, oggi, non è più quella arretrata di vent'anni fa. Ciò non toglie che si tratti di un fenomeno importante; un altro indicatore lo conferma: il pil pro capite è passato dai 248 renminbi del 1970, ai 1.633 del 1990, ai 6.648 del 1999 e continua a crescere. Tenendo conto che un dollaro americano equivale a 8,3 renminbi, il pil pro capite oggi è ancora sotto i mille dollari annui e quindi molto lontano dai 30.000 dollari (degli Usa) considerati come il parametro per definire un'economia pienamente sviluppata. Ciò nonostante, il tasso di crescita è impressionante e ridicolizza quelli, assai più limitati, delle aree a capitalismo maturo.

Analizzando sinteticamente le componenti interne dello sviluppo si vede che il peso del settore industriale e dei servizi é in continua crescita (+9,9% medio tra il 1979 e il 1991) mentre l'agricoltura è in progressivo declino (+5,3% medio nello stesso periodo). Comunque la Cina continua ad essere uno dei più grossi produttori agricoli del mondo (ha una superficie coltivata pari solo al 10% di quella totale). Questo è il risultato del processo di decollettivizzazione delle imprese agricole avviato nel 1974 che ha frammentato la distribuzione della terra, riducendo di conseguenza la produttività del lavoro, e ha prodotto il fenomeno della fuga dei contadini nelle città a causa delle loro crescenti difficoltà economiche (oggi i contadini e le loro famiglie costituiscono ancora 870 milioni di persone su un totale di circa 1 miliardo e trecento mila uomini). Nell'ultimo decennio il processo di urbanizzazione dei contadini è stato di tale entità che il nono piano quinquennale (1996-2000), cogliendo in pieno la gravità del problema, ha prestato particolare attenzione al tema del rilancio dell'agricoltura attraverso l'introduzione di tecnologie e organizzazioni del lavoro più avanzate.

Il settore industriale è stato riformato dal 1979 (con una decisa accelerazione nel 1984 quando è stato fortemente incentivato l'investimento straniero), anno in cui si è avviato il processo di liberalizzazione economica che ha portato progressivamente lo stato a perdere la proprietà di circa il 50% delle industrie. In circa vent'anni l'economia di piano, controllata dallo stato e comprendente le industrie di grandi dimensioni, si è ridotta considerevolmente passando così da una generazione del 77,6% dell'intero prodotto industriale lordo al 25% circa. Nello stesso periodo le imprese collettive, caratterizzate da piccole dimensioni e bassa tecnologia, economicamente svincolate dall'economia di piano e gestite in funzione del mercato soprattutto locale, sono passate dal 22,4% al 35-40%. Considerevole anche lo sviluppo, a partire dagli anni novanta, delle imprese private e a capitale straniero che, ovviamente, si sono collocate nei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati del mercato. Queste sono passate da un modesto 4,4% del 1990 a un più robusto 17,9% del 1997 (non abbiamo a disposizione dati più recenti) ma è lecito ritenere che successivamente questo settore abbia registrato un vero e proprio boom dato l'afflusso enorme di capitali esteri degli ultimi anni. Il dato significativo è che oltre ai settori manifatturieri tradizionali (soprattutto il tessile in cui vi è la maggiore produzione mondiale), la Cina si sta notevolmente sviluppando nei settori della meccanica, dei mezzi di trasporto, della chimica e dell'alimentare. Se l'industria della seta, del cotone e della lana sono in difficoltà a causa di una qualità del prodotto ancora inferiore a quella dei paesi più avanzati e del venir meno del regime dei prezzi amministrati centralmente (nel settembre 1999 il governo ha eliminato il prezzo garantito per la produzione del cotone), l'industria dell'high tech segna importanti sviluppi dando una connotazione particolare alla crescita dell'economia per il fatto che accanto ai settori tradizionali dello sviluppo capitalistico, a bassa composizione organica di capitale, coesistono settori tecnologicamente avanzati che possono ben competere sul mercato internazionale. Mentre i primi basano il successo delle loro esportazioni fondamentalmente sul basso costo di produzione dovuto a salari decisamente inferiori a quelli dei concorrenti, i secondi possono vantare anche una qualità del prodotto decisamente superiore (2). Anche lo sviluppo dei consumi evidenzia la peculiarità dello sviluppo cinese; ad esempio, nel paese vi è una progressiva diffusione della telefonia fissa (ancora limitata ai consumatori dai redditi più alti residenti soprattutto nelle città) accanto a quella mobile, fondata sull'uso dei telefoni cellulari più avanzati. Oggi i consumi, soprattutto nelle città, sono un buon indicatore di questo fenomeno: ai cosiddetti quattro lussi del periodo maoista (orologio, bicicletta, radio e macchina da cucire) si sono sostituiti i sette attuali costituiti da televisione a colori, videoregistratore, frigorifero, lavatrice, telefono, macchina fotografica e cellulare. Così, accanto a un'economia arretrata basata su consumi limitati e di poco valore, presente soprattutto nelle zone rurali, si sviluppa sempre più nelle città un'economia più simile a quella avanzata dei paesi occidentali.

I motivi dello sviluppo

Innanzi tutto le riforme economiche. Nel 1978 viene annunciato il piano di riforme di Deng Xiaoping. Si tratta di un programma pilotato dall'alto, dal Partito comunista, per introdurre il libero mercato nell'economia cinese. In pratica si tratta di ridurre l'area economica gestita dal piano e controllata dallo stato che ne detiene totalmente la proprietà, per incrementare progressivamente il libero mercato e le imprese detenute da organizzazioni collettive, individuali e a forte partecipazione di capitale estero. Il programma viene avviato partendo dalle zone rurali dove si realizza la decollettivizzazione delle imprese agricole tornando al nucleo familiare come cellula fondamentale della produzione. Accanto a questo vengono create tre zone economiche speciali (Zes) nel Guangdong (Shenzen, vicino a Hong Kong, Zhuhai, vicino a Macao e Shantou) e una nel Fujian (Xiamen, vicino a Taiwan). Si tratta della politica della porta aperta che vuole mettere a il paese a disposizione dell'investimento di capitale estero, politica che si articola in diversi punti e che vuole avviare intensi rapporti commerciali, finanziari e industriali con le maggiori potenze del mondo. Il progetto prevede una sperimen-tazione di tali rapporti nelle Zes per poi estenderli progressivamente ad ampie zone di tutto il paese. Ovviamente vengono concesse ai capitali stranieri molte agevolazioni tra cui la principale è quella fiscale che prevede una tassazione degli utili aziendali ridotta al 10% contemporaneamente all'impegno assoluto del governo a non procedere successivamente ad alcuna confisca e intromissione nella gestione aziendale. Successivamente, nel 1992, viene sancito l'accordo sull'annullamento dell'obbligo di scadenza delle joint venture (col quale dopo un certo numero di anni lo stato cinese poteva diventare completamente proprietario dell'azienda) e del diritto di nomina della presidenza del consiglio di amministrazione da parte del governo. Alle altre imprese, decise ad accettare le regole del mercato, viene concessa una tassazione comunque favorevole pari al 15%.

Il successo economico delle Zes spinge all'estensione e all'intensificazione del programma di liberalizzazione. La seconda fase delle riforme si realizza a partire dal 1984 e coinvolge le aree urbane: agli abitanti delle città viene concesso quanto era stato dato ai contadini nel 1978 ovvero la libertà di intraprendere le attività commerciali e di avviare imprese produttive a carattere familiare. Nelle aziende dello stato invece si tenta di introdurre il principio della responsabilità della gestione con l'introduzione della figura del manager professionale che avrebbe dovuto sostituire nelle diverse direzioni aziendali il burocrate nominato centralmente. Solo una decina d'anni dopo, la riforma delle aziende statali si fa più marcata. Nel 1993 viene modificata la Costituzione. Viene introdotto ufficialmente il concetto di socialismo di libero mercato che soppianta quello di economia socialista pianificata. In pratica vengono dichiarate socialiste le categorie economiche, tipiche del capitalismo liberista, che sono state adottate dal programma di riforme giustificandole con la necessità dello sviluppo del paese e si afferma costituzionalmente il principio della responsabilità del management delle imprese e delle aziende agricole per legare il reddito individuale ai risultati economici dell'impresa. Nello stesso anno viene avviata anche la riforma fiscale per adeguare il sistema di tassazione allo spirito della deregulation. Il prelievo fiscale, non più rigidamente centralizzato, viene articolato in tre livelli di competenza: centrale, regionale e locale. Nonostante questo, e ciò evidenza come dietro le riforme si nasconda un'aspra contesa interborghese per l'appropriazione della ricchezza, il governo centrale, in cambio di una maggiore autonomia fiscale della periferia, si riserva con un apposito provvedimento il 60% del gettito fiscale complessivo innalzandolo dal precedente 38%. Contemporaneamente l'Iva viene innalzata dal 9 al 17%.

I risultati delle riforme sono sorprendenti; i flussi commerciali della Cina con il resto del mondo crescono vertiginosamente facendo registrare un surplus di16,7 miliardi di dollari nel 1995,12,3 miliardi nel 1996,40,3 miliardi nel 1997 (anno in cui esplode la crisi finanziaria asiatica),42,8 miliardi nel 1998 e solo 29,16 miliardi nel 1999, anno anomalo in cui aumentano molto le importazioni (+18,2%) rispetto alle esportazioni (+6,1%) a causa di un forte incremento del consumo dei beni high tech nel mercato interno. In sintesi la quota di esportazioni cinesi nel mondo è passata dall'1% del 1950 al 5 % del 2002 (3). Nello stesso anno, se si considerano i flussi commerciali tra la Cina, gli Usa, Il Giappone e l'Europa si vede come il paese ha in ogni caso un surplus, particolarmente marcato con gli Usa con i quali, a fronte di importazioni per 22 miliardi di dollari, ha esportazioni per ben 134 miliardi di dollari. Più equilibrato il rapporto col Giappone dal quale importa per 53 miliardi e ne esporta per 62. Dall'Europa invece la Cina importa per 32 miliardi di dollari ma esporta per 77 miliardi.

Il secondo motivo del boom cinese é costituito dagli investimenti finanziari stranieri. La politica della porta aperta ha determinato in circa vent'anni un afflusso enorme di capitale, corrispondente a circa un terzo degli investimenti esteri di tutto il mondo (circa 40 miliardi di dollari annui in media), i due terzi dei quali di provenienza asiatica. Sono cifre enormi di cui nessun paese al mondo ha goduto per il finanziamento della propria economia.

Il terzo motivo dello sviluppo è l'enorme disponibilità di materie prime di ogni genere e di forza lavoro a bassissimo costo. La Cina è un paese molto esteso il cui sottosuolo è ricco di materie prime di tutti i tipi compresi il petrolio, il carbone e il gas naturale che le garantiscono gli approvvigionamenti energetici anche se, in questo momento, essa non disdegna di rifornirsi anche sul mercato internazionale. Ancora più importante è la sovrabbondanza di braccia che lavorano nelle fabbriche in condizioni di sfruttamento disumane con orari di lavoro massacranti e con salari estremamente più bassi di quelli dei paesi capitalisticamente più avanzati. Ciò significa una capacità delle imprese di disporre di grandi quantità di plusvalore da reinvestire ad ogni ciclo produttivo. Qui non abbiamo lo spazio per trattare l'argomento in dettaglio ma segnaliamo soltanto le condizioni di intenso sfruttamento della forza lavoro costretta a turni e a orari defatiganti, a incidenti sul lavoro che mietono spesso centinaia di vite ogni volta che accadono, alla nocività dovuta all'uso di micidiali inquinanti usati indiscriminatamente nei processi produttivi.Si tratta di un fenomeno che ricorda addirittura le condizioni salariali e di vita di quella disgraziatissima classe operaia del primo sviluppo industriale inglese.

La Cina, soprattutto nella sua parte orientale, oggi è un'enorme discarica a cielo aperto che, con i suoi veleni, intossica l'ambiente circostante giungendo persino a inquinare i cieli degli stati ad essa confinanti. In queste disumane condizioni il proletariato cinese conduce la sua faticosa esistenza in uno stato di semi schiavitù che garantisce alla borghesia cinese un enorme vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza internazionale. Nelle campagne va ancora peggio: le condizioni dei lavoratori salariati sono semplicemente di estrema povertà, una povertà che nega l'accesso ai più elementari prodotti del cosiddetto benessere dell'economia industriale.

La Cina nel mercato mondiale

Si è già accennato al fatto che la Cina sia importatrice netta di capitali dal resto del mondo in quanto paese in cui gli investimenti esteri trovano ottime condizioni per valorizzarsi. Vediamo ora i flussi commerciali tra la Cina e le più importanti aree economiche. È interessante analizzare i dati relativi al 2002, quindi abbastanza recenti, disaggregati per le tre principale aree economiche, il nord America, l'Europa occidentale e il Giappone (non abbiamo i dati per l'Asia nel suo complesso) (4). Nel nord America (prevalentemente gli Usa) la Cina esporta per 134 miliardi di dollari e importa per soli 22 miliardi; in Europa essa esporta per 77 miliardi e importa per 32, in Giappone essa esporta per 62 miliardi e importa per 53 miliardi di dollari. Come si vede quasi il 50 % delle esportazioni cinesi sono dirette negli Usa mentre il rimanente 50% è suddiviso tra Giappone ed Europa con una certa prevalenza di quest'ultima. Per le importazioni invece si ha un certo equilibrio con il Giappone, si ha uno squilibrio marcato con l'Europa e molto acuto con gli Usa (qui per ogni dollaro di importazioni ce ne sono 6 di esportazioni). Quindi la Cina, almeno nei settori manifatturieri tradizionali, è una vera e propria minaccia per l'industria americana alla quale sta togliendo quote di mercato sempre più vaste (è un altro segnale del declino Usa) ed è un altrettanto pericolosa per quella europea. A pagare il prezzo della concorrenza cinese sono i settori più arretrati dei rispettivi apparati industriali, quelli a più bassa composizione organica di capitale. La Cina in questo caso è insuperabile dati i livelli salariali della sua forza lavoro che, per esempio, sono pari al 3% di quella statunitense.

Se analizziamo un periodo più lungo, gli anni che vanno dal 1990 al 2002, vediamo che la Cina ha continuato, proseguendo il trend in atto dagli anni cinquanta, ad assumere sempre più importanza sul mercato mondiale; le sue esportazioni sono passate da poco meno di 800 miliardi di dollari annui nel 1990 a circa 1700 miliardi nel 2002 con una crescita costante. Anche le importazioni hanno seguito, con valori più bassi, lo stesso trend crescendo però progressivamente meno delle esportazioni, cosa che indica come la Cina vada progressivamente ad occupare una posizione sempre più importante sul mercato mondiale come paese esportatore con relazioni economiche che si sviluppano intensamente nei diversi continenti. Possiamo concludere che, con gli attuali tassi di crescita, il suo peso nell'economia mondiale è destinato sicuramente a crescere molto.

Anche dal punto di vista finanziario è necessario rilevare come la Cina sia ormai un gigante; citiamo solo un paio di situazioni che confermano quanto detto anche se l'argomento meriterebbe una trattazione approfondita. Attualmente, il Giappone detiene circa un terzo (tra gli 850 e i 900 miliardi) di tutte le riserve valutarie mondiali espresse in dollari; la Cina ne detiene quasi un sesto (circa 400 miliardi); insieme detengono la quota più rilevante dei titoli di stato americani ovvero sono i paesi che principalmente finanziano e sostengono, con rilevanti acquisti quotidiani dei buoni del tesoro, il debito pubblico americano. La Cina, proprio alla fine del novembre 2004, ha siglato un accordo col Brasile per un finanziamento di 100 miliardi di dollari in dieci anni. È una cifra enorme che essa erogherà ad un paese latino-americano appartenente a quell'area geografica considerata dagli Usa come "il proprio cortile di casa". È questa la dimostrazione di come la Cina sia in grado di esportare massicciamente il proprio capitale finanziario in aperta concorrenza con la superpotenza americana e con il resto del mondo.

I problemi economici e sociali

Degli squilibri dell'economia già abbiamo detto nel precedente articolo di Prometeo citato nelle note. Li riassumiamo in sintesi, indicandone solo i principali, e rinviando, per un loro approfondimento, anche al testo della Weber anch'esso già citato.

Primo aspetto: le aziende statali ancora controllate dallo stato (ancora 118.000 circa che assorbono i due terzi del totale della forza lavoro producendo solo circa il 27 % della produzione industriale complessiva) non sono assolutamente competitive e sono molto indebitate. Il governo calcola che in esse almeno il 30 % dei lavoratori sia in eccesso. Questo è un problema enorme la cui soluzione richiederebbe drastiche ristrutturazioni aziendali e massicci licenziamenti.

Secondo aspetto: il sistema bancario è sovresposto, con tassi paragonabili a quelli degli altri paesi del sud-est asiatico, a crediti inesigibili causati dal finanziamento alle aziende statali in cronico passivo. Alla fine del 2003 le sofferenze complessive (i crediti difficilmente recuperabili) del sistema bancario ammontavano al 17,8 % dei finanziamenti concessi (per capire l'importanza del dato si sappia che in Italia nello stesso periodo ammontavano a circa il 2 %). Perciò la Cina ha il problema di riformare urgentemente il sistema bancario, cosa più facile a dirsi che a farsi dato che ciò comporterebbe il taglio drastico dei finanziamenti al settore industriale statale con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare (anche se alcune limitazioni al credito imposte dalle autorità finanziarie hanno ridotto le sofferenze al 13,3 % nel secondo trimestre del 2004).

Terzo aspetto. La dipendenza del sistema economico cinese dalle esportazioni sui mercati internazionali. La Cina per non far esplodere il problema della disoccupazione, sia nelle città che nelle campagne, deve assolutamente mantenere, se non incrementare, gli attuali (già altissimi) ritmi di sviluppo e quindi deve continuare ad esportare intensamente. Ciò significa che essa è pericolosamente esposta al rallentamento dell'economia internazionale ed alle conseguenze sociali interne che ciò potrebbe comportare.

Quarto aspetto. La pericolosa voragine che si sta creando tra città e campagna. I redditi delle zone rurali sono estremamente più bassi di quelli delle città, soprattutto costiere, che sono state investite dal fenomeno dello sviluppo economico. Ciò significa che ogni anno milioni di contadini poveri, letteralmente affamati e privi di qualsiasi assistenza, si riversano nelle metropoli alla ricerca di un lavoro andando ad aggravare il problema della disoccupazione (oggi le statistiche governative ufficiali la rilevano all'8 %). Ciò, come dicevamo prima, richiede che i tassi di sviluppo non diminuiscano pena l'esplodere della questione sociale.

Quinto aspetto. La condizione del proletariato urbano e contadino è ai limiti della sopportazione. Il ripudio, con le riforme economiche liberiste, di ogni forma di assistenzialismo ha eliminato quasi ogni spesa sociale da parte dello stato. Tutto è stato privatizzato e di conseguenza anche i servizi essenziali in campo sanitario (nelle campagne lo stato ha ridotto a 1 euro l'anno la spesa pro capite), previdenziale (il 63 % della popolazione, il totale dei contadini proletari, non ha diritto alla pensione) e scolastico si pagano col risultato che oggi la maggioranza della popolazione, il proletariato urbano e contadino, non vi può accedere (5). Certamente lo sviluppo economico ha permesso il formarsi di una piccola borghesia benestante nelle città in cui si sono sviluppate le iniziative private ma a fronte di questo fenomeno la condizione del proletariato nel suo insieme è decisamente peggiorata. In sintesi si sono ancora drammaticamente acuite le disuguaglianze sociali. Si tratta di una situazione potenzialmente molto pericolosa secondo la stessa Accademia delle scienze che, con un suo recente rapporto intitolato " La società opulenta, un nuovo problema per la Cina", ha messo in guardia il governo invitandolo a prestare molta attenzione al problema.

Conclusioni

Dopo questa breve panoramica vogliamo mettere in evidenza le principali conclusioni politiche della nostra analisi.

La Cina sta diventando un gigante economico capace di competere sempre più estesamente sui mercati mondiali delle merci e dei capitali e questo processo molto probabilmente progredirà nei prossimi anni; di conseguenza essa aspira ad allargare la sua sfera di influenza commerciale e politica nel mondo e innanzi tutto in Asia, rivaleggiando direttamente col Giappone; il suo ruolo imperialistico è destinato a diventare più importante e costituirà per gli Usa un problema da affrontare. Lo sviluppo della Cina, la sua trasformazione in potenza imperialistica in grado di competere con gli altri poli imperialistici mondiali, Usa ed Europa in testa, si inserisce nel processo di rimescolamento dei fronti e delle alleanze internazionali avviatosi nell'ultimo periodo, processo non ancora concluso e che deve ancora definire tra le nazioni le future alleanze (6). Essa costituisce un altro elemento di minaccia al dominio mondiale statunitense e la sua collocazione internazionale, insieme all'esito del processo di costituzione del polo imperialistico europeo, alla collocazione politica internazionale della Russia e all'esito del processo di destabilizzazione dell'area medio orientale, è un elemento determinante per comprendere il futuro assetto dello scontro imperialistico. La Cina, ma potremmo estendere lo stesso discorso all'Europa unita, non rappresenta perciò un fattore di stabilizzazione e pacificazione internazionale ma un elemento di ulteriore destabilizzazione dell'attuale situazione già caratterizzata da accentuate tensioni e da precari equilibri delle tradizionali alleanze politiche.

La Cina non rappresenta un'area di sviluppo tale da invertire il ciclo economico del capitalismo segnato dalla crisi strutturale, una crisi destinata ad aggravarsi e a produrre i suoi più devastanti effetti. Ovvero non si può sostenere che il capitalismo trovi nel mercato cinese gli sbocchi per avviare una nuova fase di espansione capace di invertire il ciclo di accumulazione e di superare l'attuale crisi. Infatti l'investimento di capitale da parte dei paesi occidentali è prevalentemente investimento per produzioni che sono sostitutive di quelle medesime della madre patria, produzioni che in Cina godono del grande privilegio di un costo della manodopera estremamente più basso. In parole povere, ciò che il capitale va a produrre in Cina, quasi sempre lo stesso capitale smette di produrlo nel proprio paese d'origine dando luogo al cosiddetto fenomeno della delocalizzazione. Perciò il mercato cinese, come sbocco di merci e capitali, rappresenta solo un elemento di controtendenza alla caduta del saggio medio del profitto, una controtendenza capace solo di rallentare questa caduta ma non di arrestarla. La conferma di ciò è il fatto che negli ultimi venti anni, nonostante la sostenuta crescita della Cina e la sua apertura al capitale straniero, i motivi di tensione e d'instabilità internazionale sono aumentati e non diminuiti.

La Cina non è destinata a ripercorrere nel mercato interno le stesse tappe seguite dallo sviluppo capitalistico occidentale passato attraverso tre rivoluzioni industriali (7). In particolare, il suo mercato interno non sarà caratterizzato da un'economia di alti consumi capace di innalzare il livello di vita del proletariato cinese allo standard degli Usa o dell'Europa. La sua economia è prevalentemente di esportazione e la sua capacità di competere sui mercati internazionali si basa su un accentuato differenziale del costo della sua forza lavoro; di conseguenza non può permettersi un marcato innalzamento dei livelli salariali. Inoltre il cambiamento del ruolo dello stato cinese nell'economia, con la conseguente ristrutturazione della spesa pubblica, non solo non consentirà al proletariato cinese di ricevere quei servizi sociali offerti dagli stati capitalistici occidentali a partire da metà novecento, ma gli imporrà una condizione di precarietà ancora più marcata di quella che già aveva quando l'economia era accentrata totalmente nelle mani dello stato. La Cina sarà sempre più un paese caratterizzato da intense contraddizioni, in primo luogo quella di una potente e ricca borghesia contrapposta ad un proletariato ridotto a una condizione di semi schiavitù.

Lo sviluppo cinese non rappresenta un fattore di stimolo della "collaborazione tra i popoli e tra le nazioni". I suoi prodotti esportati sono merci sostitutive di quelle realizzate in altre aree economiche a costi più alti e per questo l'economia cinese rappresenta una minaccia per l'economia dei paesi suoi importatori. Così essa mette in concorrenza i lavoratori cinesi con quelli delle altre nazioni. L'esportazione di capitale finanziario segue le stesse leggi di quello occidentale e di conseguenza la Cina, con la falsa e usuale ideologia degli aiuti ai paesi arretrati e della cooperazione internazionale, presta danaro semplicemente con lo scopo di ottenere una rendita finanziaria e di allargare la propria influenza politica. Con questo essa contribuisce a quell'opera di rapina compiuta dalle grandi banche e dalle istituzioni finanziarie a danno dei proletari dei paesi arretrati che così devono produrre con il loro lavoro il plusvalore necessario a remunerare, in forma di interesse, il capitale prestato ai loro stati. In sintesi la Cina contribuisce a sviluppare il nazionalismo, potente arma ideologica per contrapporre i proletari dei diversi paesi e portarli al disastro generale provocato dalla concorrenza economica e, alla fine, dallo scontro militare.

Carlo Lozito

(1) Vedi l'articolo Cina un boom dai piedi d'argilla riportato su Prometeo n.7 del 2003. In particolare vedi anche il capitolo 4 de Il miracolo cinese di Maria Weber, edito da Il Mulino,2003

(2) Vedi l'interessante articolo sul Parco tecnologico di Xian apparso sul Il sole 24 ore del 18 novembre 2004

(3) Dati tratti da Le monde diplomatique, allegato a Il manifesto del 15 ottobre 2004

(4) ibidem

(5) Vedi l'interessante articolo, scritto da Federico Rampini, apparso su La Repubblica il 13 ottobre 2004

(6) Vedi l'articolo Si delineano i primi fronti futuri dell'imperialismo su Prometeo n.7 del 2003

(7) Vedi l'articolo La classe operaia nella fase attuale e le sue prospettive, nella tesi 1, su Prometeo n.8,2003

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.