Cosa si nasconde dietro la scalata cinese

Nel corso dell’ultimo Plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese, incardinatosi sulle teorie gemelle dello “sviluppo scientifico” e della “società armoniosa”, si sono evidenziate ancor di più le linee-guida degli esponenti della Quinta Generazione a capo della quale troviamo Xi Jinping, rappresentante organico di quella elite oligarchica della quale fanno parte i cosiddetti “principini”, ovvero quella classe di imprenditori rampanti, per lo più figli degli alti quadri dello stato e del partito, che operano in settori cruciali come la finanza, il commercio estero, le infrastrutture, le assicurazioni, l’immobiliare e l’edilizia. Tutto ciò consente di definire meglio la natura e gli obiettivi di un partito che, non preoccupandosi affatto di sfidare il senso del ridicolo, continua a definirsi comunista. Basterebbe la considerazione che un terzo dei 500 ultraricchi cinesi è iscritto al Pc per dare ulteriore risalto a questa mistificazione. (1)

D’altra parte non era stato proprio Deng Xiaoping, primo leader della Quarta Generazione, a teorizzare, nei primi anni 1980, che “arricchirsi è glorioso”?

Passi allo stesso modo importanti, in questa direzione, erano già stati fatti nei primi mesi di quest’anno quando in seno all’Assemblea del popolo e dopo una gestazione iniziata nel 2004 veniva finalmente sancita

l’inviolabilità della proprietà privata, funzionale e necessaria al rafforzamento delle stesse basi del sistema economico socialista.

Una tale asserzione stride con la realtà in quanto il Pc cinese non è mai stato comunista, così come quella maoista è stata una rivoluzione anticoloniale e considerato che la Repubblica popolare ha rappresentato una realtà tutt’altro che socialista.

Processo di delocalizzazione

Partendo da questo dato oggettivo si possono meglio analizzare le dinamiche che hanno portato gradualmente la Cina a diventare ciò che oggi viene comunemente definito, ossia la”fabbrica del mondo” o, se vogliamo ancor più attualizzare, “la locomotiva del mondo”.

L’implicazione con i processi di delocalizzazione in virtù dei quali, tenendo presenti le condizioni di crisi che caratterizzano il capitalismo internazionale, il ciclo di produzione delle merci viene disseminato in misura sempre maggiore in aree periferiche per via del minor costo della forza-lavoro, con la messa a punto della cosiddetta globalizzazione industriale, è più che palese.

Il fenomeno non è nuovo in quanto una divisione internazionale del lavoro e quindi un modello di crescita orientato sulle esportazioni , principalmente verso il mercato statunitense, ha già interessato realtà produttive come il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong. (2)

Questi processi hanno preso l’abbrivio successivamente alla seconda guerra mondiale ed alle considerazioni economiche si assommavano altre, prettamente politiche, dettate esclusivamente dalle strategie della guerra fredda.

Per la Cina il fenomeno è relativamente più recente in quanto è alla fine degli anni 1970 che prende avvio l’epoca delle grandi riforme economiche, la progressiva apertura, almeno a livello ufficiale, della Repubblica popolare al commercio internazionale.

La svolta viene diretta dalla “grande guida” di turno, nella fattispecie Deng Xiaoping, e viene portata avanti una strategia incentrata sulla promozione della zona costiera orientale, una zona, cioè, che da sempre aveva significato per la Cina contatti commerciali con il mondo e che rappresentava una realtà nettamente distinta, quasi avulsa dalle zone interne ed occidentali, votate entrambe ad un sottosviluppo endemico.

Per consentire un’accumulazione di capitali in grado di far decollare il paese vengono create, a titolo sperimentale, le ZES (zone economiche speciali) concentrate sulla costa sud-meridionale, appunto, a Shenzhen, Xiamen, Shantou, Zhuhai e nella provincia del Guangdong. All’interno delle ZES, a loro volta, vengono impiantate Zone di sviluppo economico e tecnologico in cui si concentrano le produzioni a tecnologia più avanzata.

Negli intendimenti della nomenklatura le ZES, sulla falsariga delle zone franche di Hong Kong e Singapore, avrebbero dovuto attirare gli investimenti internazionali ed in più rappresentare un canale privilegiato per quel che atteneva l’accesso alle tecnologie occidentali. Le fabbriche cominciano ad essere un po’ovunque e si moltiplicano a ritmo così sostenuto da finire col trasformare l’intera fascia costiera in un unico immenso centro di produzione per l’esportazione per far decollare il quale vengono concessi particolari regimi fiscali - esenzione totale per i primi due anni e tassi ridotti nei successivi - e altri privilegi che consentono di attirare gli investimenti delle multinazionali, all’inizio soprattutto statunitensi, sudcoreane e giapponesi (Canon, Toyota, Coca-Cola, LG Electronics, Alcatel) ed in seguito anche europe (Michelin, Siemens ecc.).

La struttura produttiva cinese

Se dapprima l’industrial targetting, cioè la scelta dei settori su cui concentrare il volume delle esportazioni, è indirizzato verso prodotti quali i tessili, i giocattoli, gli articoli di cuoio e quelli di plastica, mano a mano che la crescita si fa più sostenuta e quindi l’accumulazione procede a ritmi più intensi, si cominciano ad esportare produzioni avanzate, quindi ad alto valore aggiunto. Una conferma a proposito viene data dal fatto che nei primi mesi del 2005, secondo dati forniti dal bollettino dell’US Department of Commerce, su 162 miliardi di dollari che costituivano il deficit USA verso la Cina il 50% era rappresentato da importazioni di strumenti di precisione, macchinari, elettronica, autoveicoli e prodotti siderurgici ed il 37% era appannaggio delle importazioni di prima generazione.

Raffrontando questi dati con quelli del 1997 emerge con nitidezza come si sia prodotta quasi una inversione di tendenza laddove pochi anni prima il 30% della produzione era riferibile all’high technology mentre oltre il 60% ai prodotti delle, così definite, industrie leggere.

Il lasso di tempo abbastanza breve, otto anni circa, rende immediatamente traducibile la trasformazione avvenuta nella struttura produttiva cinese.

Osservando più nel dettaglio l’interscambio cinese si può notare come il surplus sia realizzato primariamente nei confronti degli USA e, sebbene in misura minore, anche verso l’Unione europea, riflesso immediato, in entrambi i casi, di quella finanziarizzazione dell’economia che ha interessato prevalentemente le metropoli occidentali e della conseguente delocalizzazione che riguarda la periferia del mondo, nella fattispecie i paesi asiatici ed ultimamente anche i paesi dell’est europeo.

Nel caso della Cina la sua trasformazione in nuovo centro manifatturiero mondiale, con un suo punto di forza costituito dal basso costo della manodopera, le ha consentito di vendere i suoi prodotti a prezzi, anche questi, assai bassi e ciò si è tradotto, fattivamente, in esportazione di disinflazione di cui hanno potuto beneficiare i paesi importatori, massimamente quelli occidentali. In effetti è come se la Cina praticasse uno sconto su telefonini, computer, scarpe, abiti e altro ancora.

Scrive giustamente F: Rampini:

Pechino ha tenuto bassa la nostra inflazione ben più di quanto avrebbero potuto fare le autorità monetarie manovrando i tassi di interesse. (3)

La condizione del proletariato

Ma chi, in ultima analisi, rende possibile praticare questo sconto? Cosa consente, realmente, alla Cina di essere così competitiva a livello mondiale?

Non è certamente un’impresa titanica dedurlo: basta considerare le condizioni in cui versa la classe lavoratrice nel paese che riesce, com’è tradizione dei migliori alchimisti, a sublimizzare “socialismo e mercato” (!). Il “coefficiente di Gini”, un coefficiente di stima della quantità di ineguaglianza, utilizzato dalle Nazioni Unite e che va da 0 a 100, pone la Cina, nel 2004, al 44,7 mentre nel 1981 questo indice era soltanto 28. (4)

L’attuale situazione dei lavoratori cinesi sta assumendo risvolti sempre più inquietanti e vengono riproposti rapporti, figure che si pensava appartenessero ad un passato che l’umanità si era definitivamente lasciato alle spalle. Sempre più cronache, reportage, inchieste scrivono di una realtà in cui è presente l’intera gamma dei lavori più disumani: si va da quello coatto a quello minorile da cui si attinge a piene mani, da vere forme di schiavismo al lavoro gratuito.

Il “manchesterismo” contro cui nell’800 tante proteste si erano levate finanche dalle fila della borghesia è tornato in auge, nella sua interezza, nel “celeste impero”. Bambini che quando non vanno a scuola lavorano dalle 7,30 alle 22,30 per 2 yuan l’ora. Nella zona di Henan bambini costretti a lavorare gratis e guardie che li controllano a vista; nello Shanxi, come altrove, il “rampantismo in salsa di soia”, quello dei “principini” per intendersi, non tralascia di ricorrere al sequestro delle persone ed alla segregazione di ragazzi o di migranti, costretti a lavorare 20 ore al giorno.

“Miracolo economico”! Ma per chi?

Non certo per i “mingong”, sorta di agricoltori fluttuanti che hanno abbandonato il lavoro nelle campagne, a causa della stagnazione di una agricoltura capace di assicurare solo fame nera, per iniziare un’attività da operaio che li scaraventa in una dimensione in cui non sono più contadini senza per questo essere diventati operai. Figure indefinite, sospese in una sorta di limbo identitario, alle quali cinicamente si nega uno status per meglio ricattarle. Entità quasi volatili, ombre, maledettamente in grado però di produrre plusvalore, alle quali non viene concesso alcun tipo di riconoscimento sociale: quindi nessuna copertura sanitaria o pensionistica, nessuna assicurazione contro malattie o infortuni, nessuna tutela per quel che riguarda il rispetto delle leggi sul lavoro.

Quando parliamo di mingong ci riferiamo, è bene tenerlo presente, a 200 milioni di individui, ossia più di un decimo dell’intera popolazione cinese, sulla cui fatica disumana, sul cui intenso sfruttamento poggia, in massima parte, la potenza cinese e che vede una loro utilizzazione un po’in tutti i settori produttivi, dall’edilizia alle manifatture, dalla ristorazione al settore alberghiero o in quello del commercio. Una utilizzazione pervasiva che ha il chiaro intento di calmierare i prezzi della manodopera di base. Il boom economico non riguarda neppure i 5 milioni di uomini che lavorano nelle miniere dalle quali la Cina estrae il 35% del carbone mondiale e in cui si verifica l’80% degli incidenti, mortali, mondiali. L’Amministrazione statale per la sicurezza ha fatto chiudere migliaia di piccoli pozzi ma il problema è evidentemente di tutt’altra natura e soluzione: la Cina va prevalentemente a carbone e poichè il suo fabbisogno energetico aumenta sempre più, aumenta allo stesso tempo il fabbisogno di carbone considerato soprattutto che 4/5 dell’energia consumata dalla “fabbrica del mondo” è prodotta in centrali alimentate a carbone. (5)

Come si fa ad immaginare Pechino che chiude, veramente e in via definitiva, migliaia di miniere per risibili - dal punto di vista capitalistico, certamente - ragioni di sicurezza?

Non per niente proliferano le miniere “clandestine” e, per conseguenza, i minatori cinesi continuano a morire come mosche, immolati sull’altare del dio-profitto. Tutto questo accade mentre il sindacato di regime si limita ad assicurare una funzione di mera testimonianza e mentre il “glorioso partito” asseconda in tutto il capitalismo più sfrenato.

La Cina nella nuova gerarchia mondiale

Ma la locomotiva del mondo sebbene copra il 75% del proprio fabbisogno energetico con il carbone deve poter contare su altre fonti energetiche se intende sostenere certi ritmi di crescita e ciò la porta in ogni angolo del mondo dove c’è oro nero o gas naturale. Diventata oramai il secondo consumatore al mondo ha la necessità di mantenere una sua presenza in Asia centrale, in Sudan, in Angola, in Nigeria, o nello stesso Medio oriente, entrando quindi in competizione per le risorse energetiche come anche per essenziali materie prime come il rame del Katanga o del Cile, o come il legname della Guinea equatoriale. Realizzare allora ciò che sta avvenendo significa comprendere come gli attuali giganti industriali cinesi, tra cui i colossi finanziari, abbiano iniziato, a suo tempo, contendendo alle multinazionali tradizionali il loro mercato interno per poi estendersi sui mercati degli altri paesi emergenti fino a sbarcare negli stessi mercati americani ed europei. Che ironia però! Le industrie europee ed americane, convinte di poter conquistare un mercato di dimensioni immense, che si vedono costrette a parare i colpi della concorrenza cinese. Questo processo che si è sviluppato nel corso di un quarto di secolo ha portato a tali e tanti sconvolgimenti che le gerarchie mondiali come anche gli stessi assetti ne sono risultati stravolti tant’è che nel World Economic Forum del gennaio di quest’anno, a Davos, si è data particolare rilevanza al problema intitolando, appunto, il summit “The Shifting Power Equation” (l’equazione dello spostamento del potere) dando così rilievo proprio alle conseguenze provocate da uno slittamento dei rapporti di forze, considerato ormai per certo. Più nello specifico, il centro del mondo potrebbe cominciare, a causa della crescita demografica e di una competitività alla quale non sono assolutamente estranei i paesi da cui cominciano a provenire i lamenti, a spostarsi verso il continente asiatico. Prende a declinare il potere dell’Occidente, prende a crescere quello dell’India e, in particolar modo, quello della Cina.

Una considerazione su tutte: tanti mestieri industriali che per effetto della delocalizzazione sono stati trasferiti nella Repubblica popolare non potranno mai più far più ritorno nei vecchi paesi in quanto il differenziale dei costi gioca a favore della Cina, o dell’India, o dello stesso Vietnam e, cosa assai significativa, non riguarda soltanto settori primari, siano essi il tessile o il calzaturiero, ma anche prodotti e settori ad alto valore aggiunto come la biotecnologia, le telecomunicazioni, lo spaziale.Sono gli stessi indicatori economici a suffragarlo: se nel 2001 gli investimenti esteri erano 40 miliardi di dollari, nel 2005 erano già passati a 70 miliardi, il che ha consentito alla Cina di diventare la seconda destinazione favorita dai capitali internazionali, subito dopo gli USA. Sempre durante il quinquennio in questione il suo PIL è raddoppiato, attestandosi sui 2000 miliardi di euro, diventando anche il terzo esportatore mondiale dietro Stati uniti e Germania, oltre a garantirsi, nel frattempo, un proficuo interscambio con i paesi dell’area asiatica da cui importa l’equivalente del 30% del proprio PIL a fronte, per fare un esempio, di un misero 11% del Giappone.

Cresce la produzione e aumenta la disoccupazione

Ad un passo di carica così sostenuto - il 18,5% di crescita nei primi mesi del 2007 - dovrebbe corrispondere un miglioramento delle condizioni di vita dei cinesi ma questa è tutt’altra storia: su 1,3 miliardi di abitanti più di 900 non possono, in termini pratici, accedere ai consumi, inoltre il “laboratorio del mondo” deve fare i conti con una crescente disoccupazione che, sebbene camuffata dalle cifre ufficiali che fanno riferimento ad un 4,1% della popolazione urbana, in realtà la percentuale è assai più alta in quanto dal conteggio sono esclusi la maggior parte dei mingong, i lavoratori licenziati che mantengono un legame salariale con l’azienda, i giovani senza lavoro che, in quanto mai iscritti, non hanno diritto a un indennizzo.

Ma il dato più preoccupante è che nel 2006 la Cina avrebbe dovuto fornire 26 milioni di nuovi posti di lavoro agli abitanti delle città secondo questa ripartizione: 9 milioni alle nuove immissioni sul mercato del lavoro, 3 ai mingong e 13 ai lavoratori che avevano perso il lavoro in seguito alla pesante ristrutturazione dell’apparato produttivo.

Ebbene, sono stati creati soltanto 12 milioni di posti di lavoro “contrattuali”, che danno, cioè, diritto alla sicurezza sociale e per il 2007 il trend, almeno stando al rapporto governativo, non è destinato a mutare. Se a tutto questo si aggiunge che dal 1998 fino ad oggi 28 milioni di lavoratori statali hanno perso il posto di lavoro e che in talune zone più della metà delle imprese pubbliche non paga i salari da oltre un anno e che, dulcis in fundo, la maggior parte dei licenziati con la perdita del posto di lavoro viene a perdere anche la pensione e l’assistenza medica gratuita, allora il quadro assume contorni di assoluta drammaticità.

Sulla classe lavoratrice si stanno andando a scaricare i contraccolpi della ristrutturazione degli anni ’90 che ha già prodotto il licenziamento di milioni di lavoratori nel mentre prende sempre più consistenza il pericolo di una ancor più accentuata disoccupazione che già ora interessa il 6% della popolazione urbana e il 9% dei giovani, nel mentre, per far fronte alle esigenze produttive, viene sempre buono il ricorso al “lavoro informale”, ossia alla vasta gamma dei lavoratori provvisori oppure alle prestazioni dei mingong.

Lavoro quindi sottopagato che rappresenta linfa vitale per un sistema che sulla compressione del costo della forza-lavoro fa leva per accrescere la propria competitività e per potersi espandere.

È grazie alla combinazione di tutte queste componenti che il sistema-Cina può primeggiare e garantirsi dei tassi annui di crescita del PIL non consentiti ad altri, che può accumulare dei surplus che la pongono come uno dei più agguerriti concorrenti nella contrapposizione imperialistica attuale. È proprio strana la storia! A volte il paradosso sembra l’unica chiave capace di interpretarla. La delocalizzazione che avrebbe dovuto contenere ma soprattutto tenere la Repubblica popolare come base di produzione, a basso costo, di prodotti poi venduti dalle stesse multinazionali occidentali, secondo uno schema di definizione/distinzione di ruoli che sarebbe dovuto valere all’infinito, si fa beffe di tutto ciò e fa assurgere la Cina a pericoloso competitore e proprio grazie ai meccanismi “sapientemente” messi in moto dalla globalizzazione industriale.

Contesto imperialistico e riarmo

Aumenti annui del PIL di oltre il 10% si riflettono in un accumulo di avanzi commerciali record con il resto del mondo (176 miliardi di dollari), segnatamente con gli Stati uniti, e consentono alla banca centrale cinese di avere le riserve valutarie più ricche al mondo, valuatabili in 1000 miliardi di dollari, che incominciano, per di più, ad essere manovrati con una certa spregiudicatezza e con la consapevolezza del proprio ruolo imperialista in concorrenza con altre potenze.

Questo surplus consente a Pechino una politica aggressiva di penetrazione/espansione nei quattro angoli del mondo privilegiando i contesti territoriali ricchi di materie prime secondo una modalità definita come “total package”: si parte dalla convinzione che tra l’economia cinese e quella di molti paesi, soprattutto africani, esista una certa complementarietà e si garantisce protezione politica, si inviano armi, soldi, tecnologia ma si mette soprattutto mano alla costruzioni di infrastrutture quali ferrovie, porti, strade oleodotti, aeroporti.

Questo modello è assurto a livelli di elevata efficienza e resa, in particolar modo nel continente africano dove l’interscambio sfiora ormai i 40 miliardi di dollari con incrementi annui superiori al 30%. Gli analisti oramai concordano sul fatto che, in un futuro assai prossimo, il petrolio africano avrà una importanza sempre maggiore e che concorrerà, unitamente a problematiche di capacità strategica o di controllo di importanti materie prime quali il cobalto, il ferro ed il rame a far entrare in rotta di collisione gli USA e la Cina. È convinzione assai diffusa che il secolo appena iniziato sarà il secondo secolo dell’era americana o il primo dell’era cinese. I motivi che inducono gli americani ad un certa inquietudine sono riconducibili al fatto che Giappone e Cina sono i principali finanziatori del deficit corrente statunitense e che gli averi in dollari delle loro banche centrali sono assai vicini ai 2 mila miliardi. Se è vero che questi dollari successivamente investiti in obbligazioni del Tesoro statunitense hanno contribuito a mantenere negli USA dei tassi di interesse assai bassi, è altrettanto vero che costituiscono una spada di Damocle su Washington qualora il flusso dovesse diminuire o privilegiare altre forme d’investimento. Non è un segreto che appena qualche giorno addietro l’Industrial & Commercial Bank of China ha acquisito il 20% della Standard Bank sudafricana né che, volendo scongelare le immense riserve valutarie (nel 2006 ammontavano a 1.075 miliardi di dollari), la Bank of China si appresti ad investire massicciamente all’estero e che venga creata, allo scopo, una speciale agenzia, un futuro ente pubblico cinese che secondo il Financial Times diventerebbe uno dei più potenti investitori mondiali con interessi negli impianti petroliferi iraniani, nelle aziende high-tech della stessa Silicon Valley, nelle infrastrutture portuali europee.

Lo scenario si fa ancor più preoccupante laddove si constati come una quota sempre crescente di questa ricchezza venga destinata al rafforzamento militare.

D’altra parte, nello scacchiere imperialistico, ad un aumento della propria potenza economica non può non accompagnarsi un parallelo rafforzamento delle ambizioni politiche e del proprio peso diplomatico.

Se pensiamo che un’armata terrestre che conta su 2,5 milioni di effettivi vede aumentare il proprio budget del 15% annuo raggiungendo i 35 miliardi di dollari; se valutiamo attentamente l’importanza strategica sempre maggiore della Shanghai Cooperation Organization, ossia un’organizzazione che unisce la Russia, la Cina e le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale (stiamo quindi parlando di territori ricchi di petrolio e gas naturale) che ha lo scopo precipuo di allontanare da questa importante zona la presenza americana, possiamo facilmente immaginare come questo “Grande Gioco” vada evolvendosi.

Fatto certamente non secondario è che questa crescita economica non può continuare all’infinito come ha sostenuto l’astrofisico Alberto De Fazio, specialista nell’evoluzione dei sistemi complessi, il quale, in occasione dell’ultimo World Energy Council tenutosi a Roma, ha chiaramente denunciato i limiti, le contraddizioni di una società, di uno sviluppo non “sostenibile” in quanto consuma risorse e produce rifiuti in quantità che la Terra e la biosfera non possono tollerare. Crescita come metafora del capitalismo.

Idea di crescita senza fine, cosa praticamente impossibile per motivi fisici, chimici e biologici. (6)

Potremmo aggiungerci, di nostro, anche per motivi sociali ed infatti, sempre facendo riferimento alla Cina aumentano sempre più le disuguaglianze tra ricchi e poveri, diventa più marcata la divaricazione tra città e campagna. Secondo dati dello stesso Ministero del lavoro cinese il 20% dei cinesi più ricchi possiede il 55% delle ricchezze del paese mentre il solo 4,7% è destinato al 20% più povero.

Conclusioni

Si sa di manifestazioni di protesta, di vere e proprie rivolte che avvengono con cadenza quasi quotidiana, represse ferocemente, ma alle quali, da parte degli organi di stampa e dai media in generale, non viene dato adeguato risalto.

Su questo sempre F. Rampini ha avuto modo di scrivere:

Da anni aspettavamo questo momento: l’inizio di qualche forma di conflittualità sociale in Cina, il risveglio dei lavoratori nel paese più grande del mondo. (7)

Chiaramente per il giornalista di La Repubblica questo risveglio dovrebbe preludere ad una maggiore apertura del regime, ad una maggiore democrazia in salsa borghese, ad una più equa redistribuzione della ricchezza, al netto da un’ eventuale messa in discussione del modello di sviluppo. Da marxisti ci auguriamo, altrettanto ovviamente, che questo risveglio del proletariato cinese possa esserci e possa preludere a tutta una serie di sconvolgimenti sociali su scala internazionale capaci di innestare un processo rivoluzionario che ponga fine ad un sistema, quello capitalistico, che già da tempo avrebbe meritato la sepoltura, ben consapevoli, però, che proprio in un contesto sempre più conflittuale, di contrapposizione di classe, non si possa prescindere, sia detto in maniera sempre più chiara, dalla costruzione di un partito di classe, rivoluzionario, internazionale.

Gianfranco Greco

(1) A.Pascucci - Manifesto 13-10-2007.

(2) C.Johnson - Gli ultimi giorni dell’impero americano, ed. Garzanti, pag.273.

(3) F.Rampini - Repubblica 29-08-2008.

(4) Le Monde diplomatique Gennaio 2006.

(5) M.Cartosio - Manifesto 22-08-2007.

(6) F.Piccioni - Manifesto 11-11-2007.

(7) F.Rampini - Idem.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.