Il capitalismo senza uscite di sicurezza

La "liberazione delle risorse e delle capacità imprenditoriali dell'individuo", istituzionalmente garantite da "forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio" - cardine del pensiero liberale - sta dando chiari risultati. Il baratro di una crisi, inaspettata (dagli ideologi borghesi) e devastante, si è aperto inghiottendo le ottimistiche speranze del "miglior mondo possibile". Il capitalismo ha avuto la desiderata libertà, in modo trionfale e globale dopo l'implosione del castello statalista del cosiddetto "socialismo reale", e si è immerso nel concorrenziale confronto col "libero mercato" lungo i sentieri della accumulazione del capitale senza i lacci e laccioli dell'intervento dello Stato, pur sempre vigile e disponibile ai salvataggi. Fino a quando la "integrità del sistema finanziario" e la "solvibilità delle istituzioni finanziarie" - promesse del neo-liberismo - hanno retto alla "immorale" condotta da tutti praticata.

Giorni difficili, dunque. La bandiera del capitalismo sventola a mezz'asta; risalirà ancora in cima al pennone, purtroppo, ma l'ottimismo scarseggia fra i depressi adoratori del dio denaro. La ripresa, momentanea e portatrice di nuovi tracolli, sarà possibile se l'unica classe sociale in grado di ridare una boccata d'ossigeno al capitale piegherà la schiena ancora una volta per farsi strappare, dallo sfruttamento della propria forza-lavoro, più plusvalore di quanto già avvenga oggi. Ma questa provvisoria "soluzione" (l'altra, in preparazione, sarà l'estensione di conflitti bellici) fa parte di un cammino obbligato che risusciterà a breve gli ostacoli idealmente superati, riproponendo in forma aggravata le contraddizioni che sono strettamente dipendenti dalla dinamica stessa dei processi e movimenti capitalistici.

Più produttività nella capitalistica società significa chiaramente meno occupazione, più flessibilità e precarietà. Più concorrenza sul mercato vuol dire salari più bassi per contenere i costi di produzione, soprattutto quelli diretti e indiretti del lavoro. Il tutto - recita il copione delle teste d'uovo borghesi - dovrebbe aumentare i consumi, magari attraverso un ritorno a crediti e debiti e quindi, di nuovo, al collasso. I parametri del "libero mercato" devono essere rispettati, poiché il capitale detta e impone politiche economiche che rispondono ad un solo imperativo: il profitto. Per questo il capitale, liberista o statalista, non può che limitarsi ad invocare comportamenti "virtuosi" nell'ambito della sua libera mobilità internazionale, con l'ingigantirsi dei processi finanziari, l'accumulo di spazzature creditizie inesigibili, di valori fittizi, di debiti incontrollabili.

E nella rincorsa ai "prezzi del mercato", dove appunto la concorrenza si fa...bellicosa, i costi di produzione devono essere tali da confrontarsi con le condizioni della produzione internazionale e sempre garantendo un "adeguato" profitto. Ovvero quel plusvalore che unicamente si ottiene estorcendolo alla vivente forza-lavoro, aumentandone il grado di sfruttamento. Il guaio (ed ecco la vera causa del disastro che incombe sul capitale!) è che, con l'aumento delle quantità di merci prodotte, la loro competitività sul mercato deve essere ottenuta non eliminando i profitti (ma siamo matti?) bensì con minori costi di produzione. Cosa che, nella moderna organizzazione tecnologica del lavoro, si può ottenere - in genere, ma non solo - con quell'aumento della composizione organica del capitale che significa sempre meno operai e sempre più macchine e impianti. Con crescenti impieghi di capitale, necessari per accrescere la forza produttiva (scienza e tecnologia) che aumenterà l'espulsione di forza-lavoro diventata superflua e la occupazione generale. Si riduce l'utilizzo produttivo di mano d'opera mentre aumenta il numero di quella improduttiva, impiegata nella illusione che dalla sola circolazione si possa ricavare il plusvalore che si materializza solo nella sfera della produzione. Lo si realizza poi nella circolazione, attraverso gli scambi (merce-denaro), il mercato mondiale, limitato dai "redditi" dei possibili acquirenti di merci, in una situazione storica che vede la massa complessiva dei salari diminuire ed aumentare quella di proletari in condizioni tali da non poter soddisfare, cioè pagare, neppure i più elementari bisogni. Il tutto quando il capitale ha urgenza di allargare il circolo dei consumi, di estendere artificiosamente i bisogni superflui legati a prodotti che possano dargli profitto. Quindi, non solo si avrà una sovrapproduzione di merci invendibili, che il mercato non assorbe, ma il saggio di profitto generale (vitale per la sopravvivenza del capitalismo!) non può che abbassarsi come diretta conseguenza del mutato rapporto tra forza-lavoro (resa maggiormente produttiva) e capitale impiegato complessivamente. Insomma, il plusvalore estorto nelle fabbriche, meccanizzate al massimo (plusvalore relativo) o ridotte a vere e proprie gabbie di tortura per spremere il lavoro vivo (plusvalore assoluto), o depredato - complici le locali borghesie - dai cosiddetti paesi sottosviluppati, non è più sufficiente a soddisfare le esigenze parassitarie e speculative del capitalismo internazionale.

È palesemente evidente - persino ad alcuni preoccupati "esperti" stregoni del capitale - come si stiano avvicinando a momenti esplosivi quelle che altro non sono che manifestazioni drammatiche di una decadenza materiale (e... spirituale) che accompagna l'invecchiamento storico del capitalismo, reclamando a gran voce la fine della sua esistenza. Il capitalismo continua così a scavarsi la fossa con le sue stesse mani; ma in fondo ad essa - ed è questo l'immenso compito che riguarda anche a noi in quanto avanguardie politiche di classe - potrà e dovrà gettarlo il proletariato del mondo intero.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.