Chi paga la crisi?

Il proletariato sempre, la borghesia mai. Ma anche se fosse un po’ per uno, sarebbe la continuazione del regime dello sfruttamento, della miseria per tanti per la ricchezza di pochi.

Nel bel mezzo della tempesta della crisi, che tante sofferenze sta procurando al mondo del lavoro, nel “vascello Italia” si discute su chi deve cadere l'onere di salvare la nave che fa acqua da tutte le parti, pagando il prezzo delle riparazioni al primo porto d'approdo.

Fuor di metafora, il dibattito che si è aperto tra il Governo e le parti sociali, sui costi e sulle categorie economiche e sociali che li devono sostenere, è virtualmente aperto da qualche mese, da quando cioè il nuovo timoniere si è insediato sul cassero della fallimentare economia italiana.

Per il Governo Monti, quello “della fermezza e dell'equità”, non ci sono dubbi. L'equità non può esistere e la fermezza, ovvero la determinazione con cui presentare il conto ai lavoratori, deve invece essere ben viva e operante. In poco tempo l'uomo della provvidenza borghese, voluto dai poteri finanziari italiani e internazionali, colui che è stato chiamato a fare quel lavoro sporco che il precedente Governo si era ben guardato dal fare per paura di perdere voti e consensi, ha messo le mani in tasca e sul collo del proletariato italiano. La morsa si è stretta su tutto il fronte delle già precarie condizioni economiche dei lavoratori dipendenti. Il Governo tecnico ha allungato la vita lavorativa, ha diminuito i coefficienti di calcolo delle pensioni, ha proposto, e in parte attuato, la riforma del mercato del lavoro con cui si sono accentuati i meccanismi penalizzanti dalla flessibilità in entrata e in uscita.

In termini semplici ha mantenuto la precarietà del lavoro promettendo però di ridurre i 46 contratti atipici e ha affermato la necessità del licenziamento a discrezione dell'azienda, qualora fosse in difficoltà economiche, in nome di una falsa ufficializzazione della fine della precarietà e di una altrettanto falsa prospettiva d’aumento dell'occupazione. Inoltre, si è introdotto il principio in base al quale o si accettano salari più bassi oppure si resta a casa senza nessuna tutela sociale. In più, tasse e accise che deprimono il già scarso potere d'acquisto dei salari. Tutto come prima? No, molto peggio, come la crisi del capitalismo impone. In conclusione, per Monti e i suoi tecnici chi deve pagare il costo della crisi sono i lavoratori, punto e basta. Lotta all’evasione, tassa sulle operazioni finanziarie e contenimento dei costi della politica sono secondari rispetto alla riforma del mercato del lavoro, alla riforma delle pensioni, che sono le componenti fondamentali attorno alle quali ruota la possibilità di ricreare le condizioni per un più efficace ritorno ai meccanismi d’estorsione del plusvalore.

Per i riformisti di ogni risma, Bersani e Vendola innanzi tutto, il discorso cambia solo per le parti accessorie. Il loro approccio alla questione di chi paga è evidente pur nella sua ambiguità. I lavoratori, si dice, non hanno colpe per questa crisi, hanno già dato ma sarebbero disposti a fare la loro parte a condizione che non siano gli unici a pagare. Accettiamo il taglio dei salari, la precarietà, la riforma del mercato del lavoro, la riforma e il taglio delle pensioni, ma che i soldi li si trovino anche da altre parti (lotta all'evasione) e che altri ceti sociali contribuiscano all'uscita dalla crisi per una “nuova” politica dello sviluppo. “Un po' per uno”, sembra essere la parola d'ordine dei riformisti di “sinistra” e, non a caso, pur nascondendosi dietro un paravento di virtuali distinguo, dimorano all'interno di una grande coalizione politica con Pdl, Udc e compagnia cantante le lodi del massacro sociale che sta perpetrando il Governo Monti.

Anche i sindacati si affannano al salvataggio del sistema economico invocando la via dell'equità e dello sviluppo. Equità significherebbe che i soldi del risanamento economico siano ricercati all'interno della sfera finanziaria, dalla solita lotta all'evasione e da quanto lo Stato risparmierà dalla riforma pensionistica. Sviluppo, per la Camusso e soci, consisterebbe nel convogliare le risorse finanziarie prima citate, non solo verso il contenimento del debito pubblico e verso il pareggio del deficit statale che sono considerati sacrosanti, ma anche a favore degli ammortizzatori sociali, degli investimenti produttivi per rimettere in moto la stanca macchina di estorsione di plusvalore con, forse, qualche garanzia in più per il loro ruolo di pompieri sociali.

Qui si palesa la vera questione. Anche la parola d'ordine più “avanzata”: la crisi la paghi chi l'ha provocata, rimane all'interno dei meccanismi sociali capitalistici, delle sue compatibilità economiche attorno ai quali ruota la pressante legge del profitto. Giusto per il gusto del paradosso, anche se imprenditori e mondo finanziario si facessero carico del risanamento dell'economia, cosa impossibile nel capitalismo, si rimarrebbe all'interno di quel quadro economico che tanta devastazione ha prodotto. Al fondo della questione non c'è chi deve pagare la crisi. Se solo il proletariato, se chi l'ha prodotta, se un po' per uno in nome di una mistificante “giustizia” distributiva dei sacrifici.

La crisi non si paga. Non si deve rimanere sul terreno delle politiche economiche capitalistiche, qualunque esse siano, che si sforzano di dare spazio ad una ripresa che altro non sarebbe se non la riproposizione di un meccanismo di produzione e di distribuzione della ricchezza basato sullo sfruttamento sempre più feroce della forza lavoro. L'unico obiettivo che deve progressivamente farsi strada tra le fila del proletariato italiano, al pari di quello internazionale, non è di come uscire dalla crisi, ma di come disfarsi del capitalismo che l'ha prodotta. Questa crisi o diventa il calvario dei lavoratori, delle loro famiglie, dei loro figli e delle generazioni future, o inizia a trasformarsi nella condizione di una progressiva risposta di classe al capitalismo, alle sue crisi, ai devastanti effetti collaterali che produce sul terreno economico e sociale, senza fare la conta di chi deve pagarne il prezzo. Anche perché, fermo restando il solito quadro economico e sociale, a pagare è sempre pantalone.

FD
Sabato, March 24, 2012