Sindacato e lotte rivendicative

Dopo la pubblicazione di una serie di articoli tratti da “Battaglia Comunista” della fine degli anni Quaranta, vi proponiamo la lettura dell’articolo che introduce il secondo capitolo del libro “Settant’anni contro venti e maree. Storia documentaria del Partito Comunista Internazionalista”.
Cogliamo l’occasione per ricordarvi che i due volumi del libro possono essere richiesti scrivendo al nostro indirizzo centrale.

Introduzione

Fra le tante cose che distinguono il nostro partito dalle altre organizzazioni provenienti dal ceppo della “Sinistra Italiana”, la quesce sindacale occupa senza dubbio un posto particolare; non perché gli altri elementi che ci dividono dal frammentato mondo dell’epigonismo bordighista abbiano avuto un ruolo minore nel determinare la separazione, ma certamente il problema sindacale, cioè come intervenire nelle lotte e, in generale, come rapportarsi dialetticamente alla classe, assume una connotazione del tutto originale. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le diverse correnti della sinistra non istituzionale - e tralasciamo qui ogni considerazione sui diversi gradi di anti-istituzionalità; lo prova il fatto che non di rado la nostra posizione è mal compresa, se non del tutto fraintesa e assimilata a indirizzi politici che con noi non hanno niente a che vedere. Di volta in volta siamo accusati di riesumare le vecchie concezioni della KAPD del primo dopoguerra, di astrattismo o di sottovalutare le rivendicazioni parziali, limitate all’ambito della singola azienda, solo perché affermiamo con forza che il sindacato, pur non essendo mai stato un organo utile alla rivoluzione (anzi!), ha perso da tempo ogni possibilità di difendere (sia pure in un’ottica riformistica, attenta a non travalicare mai i limiti delle compatibilità capitalistiche) le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e del proletariato in genere.

Ma affermare questo, non significa affatto decretare la morte delle “lotte economiche” e pensare idealisticamente che la classe possa giungere a sentire la necessità di rompere con la società borghese perché ispirata da una specie di spirito santo comunista. Al contrario, riteniamo più che mai valida l’osservazione di Marx, secondo la quale una classe operaia che non è capace di lottare per la difesa dei suoi interessi contingenti non è nemmeno in grado, né degna, di lottare per la sua liberazione dal giogo del capitale.

Non a caso, il ritmo ancora inadeguato con cui si stabiliscono contatti con nuovi compagni (e compagne) ha la sua spiegazione non ultima nella pressoché totale passività finora dimostrata dal proletariato a fronte dell’attacco globale che il capitale gli sta portando da decenni.

Il problema, dunque, non è quello di trattare con sufficienza le rivendicazione minime – chi, tra noi, ha mai detto una simile sciocchezza? - bensì quello di far ripartire il conflitto di classe di parte operaia e, soprattutto, di dargli da subito la giusta prospettiva anticapitalistica, senza condannarlo sul nascere a una sconfitta sicura e sterile, perché impantanato in una strada che l’evoluzione del capitalismo ha reso impraticabile da tempo.

Invece, l’atteggiamento di gran lunga prevalente, quasi senza eccezione, è proprio quello dell’attaccamento cieco al feticcio sindacato; atteggiamento del tutto comprensibile visto che le varie correnti richiamantesi alla classe non sono state in grado di utilizzare il marxismo come una cosa viva, “preferendo” rimanere attaccati a tradizioni del movimento operaio che solamente con alcuni distinguo possiamo definire gloriose e, in ogni caso, irreversibilmente morte e defunte. Quindi, è del tutto ovvio che solo la nostra corrente, che mai si è sottratta al compito di seguire l’evoluzione del capitale, sia pervenuta a delineare correttamente la natura e il ruolo del sindacato nel periodo storico del capitalismo imperialista, senza timori reverenziali per alcuno.

“Aggiornatori” del marxismo? In un certo senso sì, ma nella stessa ottica con cui Engels, nel III° Libro del Capitale, sentì la necessità di riconsiderare il ruolo della Borsa nell’epoca dei monopoli o Lenin ritenne doveroso far luce sull’importanza fondamentale assunta dal capitale finanziario.

I documenti che raccogliamo mirano dunque a tracciare una sintesi del percorso seguito dal partito nell’affrontare la “questione sindacale”, percorso che, come ogni approccio scientifico all’analisi della realtà, procede per approssimazioni successive.

Il dopoguerra

A guerra ancora in corso, nel settembre del 1944, uscì lo “Schema di programma” del partito, nel quale si delineava già il percorso del sindacato nel dopoguerra, cioè si prevedeva che

vedrà potentemente rafforzato il tradizionale predominio socialdemocratico [...] e resa più autoritaria la sua burocrazia». A fronte di questa situazione, il partito riteneva che occorreva ricostituire la rete delle frazioni sindacali dei gruppi comunisti di officina, composti anche da operai senza partito, e «se lo riterrà necessario si farà iniziatore di un ‘Fronte delle sinistre sindacali’ per rovesciare i capi della confederazione del lavoro (1).

Insomma, pur anticipando alcune delle trasformazioni in corso nell’organizzazione sindacale, rimanevano ancora aperte le prospettive di una sua riconquista; ad alimentare l’equivoco, c’era il fatto che effettivamente nell’immediato dopoguerra il programma della rivoluzione aveva tra la classe operaia ben altra ricezione che l’apatica indifferenza dei giorni nostri, nonostante l’immondizia che stalinismo e socialdemocrazia rovesciavano sui nostri compagni, accusati, come al solito, di essere fascisti, agenti del nemico e via dicendo.

La stessa proposta di un fronte unico dal basso, se non scatenò gli entusiasmi delle masse, non fu nemmeno una semplice dichiarazione d’intenti, dato che il comizio per il Primo Maggio 1947, organizzato a Milano con gli anarco-comunisti, vide la partecipazione di migliaia di persone (2).

Che non fosse un semplice episodio lo testimoniano i risultati raggiunti per l’elezione alla FIOM (sempre di Milano) due anni prima, nella quale

in virtù della tenace attività dei gruppi di fabbrica si è potuto [...] giungere a quella rassegna di forze che si è espressa nei 6000 voti raggiunti (3).

Notare che l’esito del voto è ritenuto “una rassegna di forze” e non un trampolino per un’eventuale conquista del sindacato dall’interno (è passato un anno dallo Schema di programma...), tanto più che la partecipazione alle votazioni per le Commissioni Interne era subordinata ad una serie ben precisa di condizioni, tra cui la presentazione di liste separate da quelle della CGIL, la difesa sempre e comunque del programma di classe e le dimissioni, se questo non fosse stato possibile. Cosa che puntualmente avvenne quando la CGIL, nel gennaio 1946, firmò l’accordo con padroni e governo per lo sblocco dei licenziamenti, fatto passare, naturalmente, come una grande vittoria operaia (4).

In breve, la partecipazione alle elezioni per le C.I., là dove le condizioni oggettive lo permettevano, aveva essenzialmente lo scopo di far rifluire nel corpo proletario il programma del comunismo ossia rendere operativo uno dei compiti della frazione sindacale.

Ma su quest’ultimo punto l’opinione non era omogenea e già nel Convegno di Torino del dicembre 1945 emersero forti divergenze che portarono poi alla spaccatura del 1952. Il relatore sulla questione sindacale così descriveva i mutamenti avvenuti nel sindacato:

La trasformazione del sindacato da organo tendenzialmente di classe in organo di difesa legato allo Stato non è che un riflesso della evoluzione generale del capitalismo verso forme monopolistiche. La fase dell’imperialismo imprime necessariamente anche ai sindacati un carattere di netta dipendenza dagli organi fondamentali dello Stato borghese. Il problema che allora si pone è questo: possono gli organi sindacali, come emanazione dello Stato, ritornare alla loro funzione originaria senza il preventivo abbattimento di questo Stato? (5).

A questa domanda il relatore rispondeva che

la pretesa di ottenere posizioni di comando negli attuali organismi sindacali per trasformarli deve essere definitivamente liquidata (6)

e che i sindacati sarebbero stati distrutti, insieme allo Stato, nella fase dell’insurrezione proletaria. Da ciò non ne conseguiva, idealisticamente, la parola d’ordine dell’abbandono immediato o addirittura della distruzione dell’organismo sindacale, perché comunque quest’ultimo raccoglieva ancora una gran parte, generalmente la più combattiva, della classe operaia.

Ma durante il dibattito che ne seguì, la tesi della “netta dipendenza dagli organi fondamentali dello Stato borghese” venne sfumata e corretta, tanto che la mozione finale accettò sostanzialmente - ma non senza ambiguità - la visione espressa nel punto 12 della “Piattaforma di partito” che, giova ricordarlo, fu redatta da Bordiga (nemmeno iscritto al partito) e assunta solamente come proposta di discussione per il futuro congresso. In pratica, si considerava necessaria la ricostruzione della CGL di classe, escludendone però la conquista per via interna (7).

Un’altra questione serpeggiava al Convegno, anch’essa anticipatrice della lacerazione dell’organizzazione, ossia il sostegno o meno alle lotte quotidiane, parziali, minime della classe operaia. Chi dava per definitivamente morta la forma sindacale, mai aveva negato la necessità di quelle lotte, ma, al contrario, riteneva che solo la partecipazione attiva alla vita della classe in tutte le sue manifestazioni, con funzione di stimolo e di direzione politica, avrebbe potuto radicare il programma del comunismo nel proletariato. Non mancava però chi, partendo dal presupposto che la classe era sottomessa alla borghesia tramite i partiti di sinistra e il sindacato, riteneva che ogni sciopero non sarebbe stato altro che una manifestazione della politica imperialista, per cui bisognava astenersi e/o boicottarlo. È significativo il fatto che queste opinioni siano state difese proprio da coloro i quali, operando una virata di 180 gradi, sosterranno la necessità non solo della ricostruzione del sindacato rosso, ma addirittura della conquista di quelli esistenti. Tre anni dopo, al Congresso di Firenze, torneranno le stesse questioni, anche se, per una parte almeno del partito, c’era stata un’ulteriore maturazione basata sull’analisi del corso storico capitalistico e dell’azione sindacale a questo correlata.

Nella relazione del C.E. in vista del congresso, già si individuava nel passaggio dal capitalismo di libera concorrenza a quello di monopolio - perché riduce “il margine di elasticità e di movimento dell’organizzazione sindacale” - l’origine della trasformazione del sindacato, diventato “l’organo di cui lo Stato borghese, gestore dell’economia capitalistica, si serve per regolare il salario alle condizioni mutevoli dell’accumulazione e della dinamica del profitto”, quindi i sindacati sono “definitivamente morti alle esigenze della lotta di classe” (8).

Inoltre, si ribadiva il concetto che la frazione sindacale, basata sulla rete dei gruppi di fabbrica e di cascina, non era un raggruppamento minoritario dentro il sindacato con lo scopo di conquistarne la direzione [alla Lotta Comunista, tanto per intenderci, N.d.R], ma uno strumento per “tradurre in concreto” l’influenza del partito, al fine di prendere la direzione delle lotte che fossero sfuggite al controllo sindacale. Se dunque si tornava a precisare che il sindacato sarebbe stato travolto in epoca rivoluzionaria, non era ancora chiaro fino in fondo a tutto il corpo dei militanti che cosa avrebbe sostituito “l’organismo intermedio”, la “cinghia di trasmissione” (come si diceva con linguaggio terzinternazionalista) tra il partito e la classe:

Che questo avvenga [la distruzione del sindacato - ndr] anche per il sorgere e l’operare [...] di nuovi sindacati di classe o di quel qualsiasi altro nuovo organismo di massa che il partito potenzierà sotto la sua guida, è cosa questa che sfugge oggi ad ogni tentativo di definizione teorica (9).

Ma se su questo punto si lasciava il giudizio in sospeso, sulla partecipazione alle lotte operaie formalmente non ci dovevano essere dubbi, mentre in realtà una parte dell’organizzazione continuava a teorizzare e infine a praticare “l’antisciopero”, come sarebbe accaduto ad Asti nel 1951, quando tre militanti del partito, seguiti da un piccolo numero di simpatizzanti, rimasero in fabbrica con i crumiri abituali durante uno sciopero, ponendosi apertamente contro l’indirizzo programmatico dell’organizzazione.

Fu la classica goccia che fa traboccare il vaso: i contrasti emersero alla luce del sole

dopo oltre tre anni di lavoro comune realizzato al centro a costo di una continua opera di smussamento e di accomodamento (10).

Non ci dilunghiamo sulle tristi manovre messe in atto da coloro che promuoveranno la scissione, perché di questo abbiamo già ampiamente documentato (11); ai fini del presente lavoro è invece importante rilevare come Onorato Damen, in una lettera del 15 marzo 1951 a Bordiga, fosse pervenuto alla conclusione che la degenerazione sindacale era un dato irreversibile che interessava non solo quelli esistenti, ma anche eventuali nuovi sindacati, per cui cadeva ogni ipotesi di ricostruzione di “sindacati rossi”, in quanto nuove organizzazioni di massa avrebbero preso il posto del sindacato (12).

Quest’ultimo non era nemmeno più un organismo riformista e il partito si interessava ad esso non perché fosse uno strumento comunque di classe caduto sotto la dittatura borghese, ma perché lì stavano le masse. A rottura avvenuta, il nuovo “Programma comunista” imboccherà la strada “invariante” dei salti mortali a ripetizione su una questione così importante (dalla negazione della necessità delle lotte quotidiane, alla teoria della ricostruzione o della conquista del sindacato), mentre “Battaglia Comunista” proseguirà sulla strada tracciata dal Congresso di Firenze, dandosi in tal modo la possibilità di mettere a fuoco definitivamente natura e funzione dell’organizzazione sindacale. Infatti, mentre nel 1952 rimaneva ancora aperta la domanda su quali organismi avrebbero sostituito i sindacati (di quel tempo), si escludeva nel modo più assoluto la possibilità di conquistarne, né allora né mai, la direzione politica.

Se per caso è sfuggito a qualcuno, facciamo notare noi che mentre Damen nel 1951 escludeva la rinascita del sindacato di classe, il partito nel 1952 lasciava la questione in sospeso (13).

Tutto ciò, lungi dall’essere indice di confusione o di contraddizione, è invece espressione di un sano e corretto modo di intendere la militanza di partito, nel senso che se privatamente si esprimevano certe posizioni, pubblicamente si accettava la linea discussa e decisa al Congresso, esattamente il contrario di chi, ricoprendo cariche direttive, senza informare il partito elaborava e applicava una prassi politica decisa in ambiti strettamente privati.

Rottamazione del sindacalismo

La rottura del 1952, avvenuta principalmente sul modo antitetico di concepire il rapporto con le lotte proletarie, è un vero e proprio spartiacque tra noi e i custodi, invarianti nella varianza, di esperienze ormai archiviate dalla storia. Invece, per quanto ci riguarda, abbiamo progressivamente colto, come si è detto, l’irreversibilità del processo di degenerazione dell’istituzione sindacato, di qualsiasi sindacato. Infatti, proprio per la sua natura di organismo volto alla contrattazione della merce forza-lavoro, è diventato un elemento indispensabile alla gestione della politica economica capitalistica, teso costantemente a piegare e sottomettere la classe operaia alle necessità del capitale, specialmente in quest’epoca storica di crisi del ciclo di accumulazione. Oppure, fatto non meno grave, si è assunto il compito (non importa quanto coscientemente) di imbrigliare le manifestazioni di rottura e di insofferenza verso i sindacati di Stato (14) dentro un velleitario sindacalismo “di sinistra” che, alimentando illusioni riformistiche, adesso frena l’ulteriore maturazione di quelle insofferenze verso un atteggiamento apertamente anticapitalistico, ma domani, nella disgraziata ipotesi di un radicamento reale nella classe dei sindacatini “alternativi”, non potrà altro che fungere da estremo argine sinistro della controrivoluzione borghese. Infatti, se e quando la classe romperà collettivamente in maniera attiva - non passiva e individuale come avviene per lo più oggi - col sindacalismo confederale, travolgendo con le sue lotte il quadro delle famigerate compatibilità, sarà matura per cominciare a porre all’ordine del giorno la questione del potere e non la semplice conquista di buoni contratti di lavoro e/o di effimere riforme dentro lo stato borghese. Gli esempi storici di un simile tragico pompieraggio non mancano: valga, uno per tutti, il Biennio rosso 1919-20.

Gli anni del boom economico hanno visto l’affermazione piena dei due fenomeni qui descritti. Mentre il sindacalismo confederale, “invitando” la classe operaia a farsi sempre di più carico degli “interessi generali del paese”, si è del tutto legittimato come agente diretto della gestione dello stato, sviluppando fino in fondo, con la programmazione e la politica dei sacrifici prima, con la concertazione poi, il modello corporativo fascista delle cosiddette relazioni sociali, i sindacati “alternativi” non hanno mai oltrepassato – né oltrepassano - l’orizzonte programmatico della società borghese.

Già nel 1958 si affermava che, specialmente dal dopoguerra, la dinamica della lotta di classe aveva dimostrato come il conflitto vero tendesse a scavalcare...

organi e direzione sindacali [...] sostituendo ad essi una propria direzione e propri organi di fabbrica [per cui] è lecito affermare fin d’ora che gli organismi sorti dalla fabbrica hanno con loro l’avvenire e incarneranno sempre di più la libera espressione della lotta operaia (15).

In effetti, è quello che regolarmente è avvenuto ogni qual volta si è assistito a episodi non addomesticati di lotta; ma i comitati di sciopero, di agitazione ecc., nonostante quello che possono fantasticare gli innamorati persi della spontaneità operaia, hanno anche dimostrato una volta di più che senza l’intervento del partito rivoluzionario sono destinati ad essere nient’altro che meteore, luminose fin che si vuole, ma sempre meteore che svaniscono nel nulla tanto più in fretta quanto più splendono. Per loro natura, i vari comitati emergenti dal conflitto di classe sono condizionati dal carattere locale, contingente della lotta, e una volta questa conclusa, rischiano fortemente di sparire senza aver fatto avanzare di una virgola il proletariato in senso rivoluzionario.

Il rischio diventa poi un dato di fatto se alla testa dei comitati va chi, per inguaribile cecità idealistica, subordina sistematicamente

la propria politica e la propria azione alle sollecitazioni che dovevano sprigionare dalla fabbrica intesa come unica fonte di elaborazione politica (16).

Legata a questa errata impostazione spesso si trova anche una sopravvalutazione dello scontro in atto, nel senso che si generalizza una situazione particolarmente ribollente a tutto il paese. Insomma, per essere chiari, è esattamente quello che fecero i “gruppi” durante l’Autunno caldo (ma anche prima e dopo), come venne chiaramente inquadrato dal IV congresso. Non solo, ma l’inettitudine rivoluzionaria degli “extraparlamentari” fu tale che abbandonarono al sindacato gli organismi nati nel corso delle lotte e da essi in gran parte egemonizzati; meglio, abbandonarono proprio le fabbriche, (17) vittime di un abbaglio teorico clamoroso ma del tutto scontato:

Là dove tutti i sinistri vecchi e “nuovi” vedevano l’erompere di spinte rivoluzionarie, noi vedevamo l’affermarsi della dittatura del sindacato in fabbrica; dove gli altri vedevano passi avanti nei rapporti di forza del proletariato, noi vedevamo correttamente il suo progressivo ingabbiamento nelle maglie strette della socialdemocrazia (18).

In effetti, all’epoca cui questa analisi fa riferimento, dunque in presa diretta sugli eventi, così si esprimeva il partito sul destino degli organismi apparsi nel periodo in questione:

va detto senza timore di smentita che tali organismi formatisi sull’onda delle agitazioni sindacali dell’autunno caldo del 1969 ad opera di gruppi extraparlamentari e studenteschi [...] sono lentamente rifluiti e sono in ogni caso destinati a rifluire nell’alveo della conservazione del sistema provocando sulle scarse minoranze che hanno risposto al loro richiamo del tutto velleitario, una più cocente e amara disillusione e il motivo di un nuovo sbandamento verso i partiti contro cui avevano condotto la loro battaglia sedicente rivoluzionaria (19).

A distanza di anni, quella previsione si è confermata punto per punto. Da una parte c’è stata una specie di esodo biblico verso il vuoto del disincanto e del disimpegno (dal punto di vista politico, ovviamente, ché per altri aspetti...); dall’altra, quei pochi che hanno continuato una qualche forma di militanza “antagonista” sono finiti in numero non piccolo nel calderone di quella che era Rifondazione, magari in compagnia dei loro vecchi persecutori, istigatori degli antichi teoremi anti-Autonomia, e/o hanno fondato i sindacatini sedicenti alternativi, sprofondati nel pantano del più classico riformismo, ma ormai ampiamente scaduto.

La raccolta comincia con documenti del partito diffusi durante la guerra, a riprova del fatto che le calunnie su un presunto attendismo (magari codardo) dei nostri compagni erano appunto calunnie, e finisce con alcune considerazioni sul sindacalismo cosiddetto di base, la cui espressione, oggi, più radicale, cioè il SiCobas, vuole fungere da polo di attrazione politico per un’area magmatica - e confusa – che va dai ricostruttori del sindacato di classe al cosiddetto “antagonismo sociale”.


(1) Schema di programma del P.C.Internazionalista, cit., punto 6.

(2) Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), cit., pag. 281.

(3) Resoconto del Convegno di Torino, 1945, del P.C. Internazionalista, pag. 18.

(4) Danilo Montaldi, cit., pag. 271. Per essere precisi, non solo i militanti internazionalisti si dimisero, ma anche parecchi operai del PCI, del PSI, anarchici ecc.

(5) Resoconto del Convegno di Torino..., cit., pag. 18.

(6) Ibid.

(7) Resoconto del Convegno di Torino..., cit., pag. 30.

(8) Battaglia Comunista, n.6, 1948, ora in questa raccolta.

(9) Battaglia Comunista, n.28, agosto 1948, in Quaderno n.3 di Bc (La scissione internazionalista del 1952. Documenti), 1992, pag. 4.

(10) Ibid., pag. 36.

(11) Ibid.

(12) Ibid., pag. 20.

(13) Battaglia comunista, n.5, marzo 1952, cit. in Quaderno n.3, pag. 27. Da allora non si parlerà più della rinascita di sindacati di classe come di una possibilità reale.

(14) Precisiamo che anche i sindacatini che in un modo o nell’altro hanno sottoscritto le norme fasciste di autoregolamentazione dello sciopero (per non parlare dei privilegi statali concessi ai sindacalisti) sono da considerarsi sindacati di stato, sia pure in chiave caricaturale.

(15) Prometeo, n.7, 1965, pag. 3.

(16) IV Congresso del P.C. Internazionalista, 1970.

(17) Non siamo solo noi ad affermarlo; anche un autorevole esponente dell’estremismo (in senso leniniano) post ’68 denunciava - con un’altra ottica, naturalmente - il fatto che dopo il 1969 «iniziava quella ritirata suicida dalle fabbriche dei gruppi extraparlamentari», cfr. Sergio Bologna, in La tribù delle talpe, Feltrinelli, Milano, pag. 12.

(18) Relazione sulla Tattica al V° congresso del P.C. Internazionalista, Milano, 1982.

(19) Prometeo, n.18, 1972, pag. 9.

Martedì, August 11, 2015