I nodi politici dello stalinismo: seconda parte

In occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, abbiamo deciso di pubblicare sul nostro sito web i capitoli centrali del libro “La controrivoluzione - I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della Perestrojka”. In precedenza abbiamo pubblicato l’Introduzione ed il primo paragrafo del capitolo uno, relativo al “Fronte unico”. Proseguiamo pubblicando i successivi paragrafi, dedicati al terzo e quarto congresso dell’ Internazionale Comunista. Vi invitiamo a seguire la sezione del nostro sito web dedicata al Centenario della Rivoluzione Russa. Buona lettura!

Il terzo congresso dell’Internazionale Comunista

Il terzo congresso si apre all’insegna della preoccupazione. Preoccupazione più che legittima se si tiene in debita considerazione il fatto che il precedente anno di isolamento, il quarto, non era passato senza aggravare la già precaria situazione della Russia sovietica. Sul fronte interno l’accerchiamento imperialistico aveva esasperato le conseguenze del pessimo raccolto, il decollo dell’attività industriale che dipendeva fisiologicamente dallo sviluppo agricolo con tutte le conseguenze del caso come fame, miseria, disoccupazione. Sul fronte internazionale le cose non erano andate meglio. Nell’agosto del 1920 l’avanzata dell’Armata Rossa era stata disastrosamente interrotta alle porte di Varsavia; nel settembre si svuota, per mancanza di una guida politica rivoluzionaria, il sia pur poderoso episodio dell’occupazione delle fabbriche in Italia, nel marzo del ’21 tocca ai minatori della Ruhr pagare il prezzo di una insurrezione lasciata ad arte nel più assoluto isolamento.

È in questa atmosfera che il partito bolscevico muoverà i primi passi tattici, non già per costruire un impossibile socialismo domestico, ma per resistere il più a lungo possibile al potere in attesa che una ripresa della lotta di classe in senso rivoluzionario ridesse fiato alle prospettive socialiste della stessa neo-nata repubblica dei soviet.

Il problema non era quello di inventare scorciatoie economiche e politiche che accelerassero, pur in un mare di difficoltà, i tempi di costruzione dei nuovi rapporti di produzione, ma di individuare i limiti di tolleranza della contraddizione di fondo, più volte denunciata da Lenin, tra una potenzialità politica rivoluzionaria (dittatura del proletariato e socializzazione dei mezzi di produzione) ed una attualità economica particolarmente arretrata, in rapporto all’evolversi o al ripiegarsi della situazione internazionale.

Solo alla luce di questa impostazione è possibile andare a verificare se e come il terzo congresso ha risposto al quesito di fondo.

È Trotksy che apre i lavori, non certamente a titolo personale ma come membro del CC bolscevico:

Ora vediamo e sentiamo che non siamo così vicini alla fine della conquista del potere, della rivoluzione mondiale. Noi avevamo creduto nel ’19 che fosse questione di mesi, ora crediamo che è forse questione di anni (4).

Fatta la premessa, non irrilevante rispetto alle problematiche future, è già drammaticamente presenti, passa all’enunciazione di quattro quesiti:

È ancora una situazione rivoluzionaria? Le masse sono con i nuovi partiti comunisti? Ci sono ragioni per ritenere che dopo un’epoca di violenti scontri politici e di lotte di classe si verifichi un’epoca prolungata di ristabilimento e di espansione del capitalismo? Non ne deriva la necessità di rivedere il programma e la tattica dell’IC? (5)

Le risposte sono moderatamente ottimistiche. La situazione del capitalismo internazionale viene vista come ancora sotto il peso delle difficoltà economiche e politiche del dopoguerra, aggravata dalle difficoltà di trasformazione di un’industria che per anni ha funzionato secondo le necessità belliche, in industria civile. Permanenza, anche se diminuita, della disoccupazione con tutto il suo carico di latenti potenzialità insurrezionali. Preminenza dell’attività commerciale (eliminazione degli stock) con relativo rallentamento di un’attività produttiva vera e propria. Crisi di sottoproduzione (1920) e soprattutto precarietà dell’equilibrio politico in tutti i settori dello schieramento capitalistico internazionale.

A conferma di questa impostazione generale, Radek, sempre a nome del C.C., prendendo in considerazione il problema della tattica, si esprime in maniera più ottimistica, anche se introduce un “nuovo” elemento di preoccupazione:

Il terzo congresso riprende l’esame della questione sulla tattica in condizioni nuove, perché in molti paesi la situazione oggettiva ha assunto una tensione rivoluzionaria e si sono formati grandi partiti comunisti, che tuttavia, ancora, non hanno in nessun modo la direzione effettiva della maggioranza della classe operaia … si tratta dunque dei mezzi per conquistare ai principi del comunismo la maggior parte della classe operaia (6).

In sostanza il III Congresso delibera che difficilmente, a breve termine, si sarà in presenza di un ristabilimento ed espansione del capitalismo; che, date le precarietà economiche e politiche che precedono il rilancio di un nuovo ciclo di accumulazione, si può ancora parlare della permanenza di una situazione rivoluzionaria, e che, in sostanza, non sussistono motivi per apportare una qualche modificazione né al programma né alla tattica dell’IC. Restava il problema sollevato da Radek: «abbiamo un bell’essere in presenza di partiti comunisti» ma se questi non hanno dietro di sé le masse non potranno mai essere alla testa di una lotta rivoluzionaria. Faceva eco il manifesto del CE redatto a conclusione dei lavori:

Alle masse, ecco il primo grido di battaglia che il III Congresso lancia ai comunisti di tutti i paesi. Si avvicinano le grandi lotte, armatevi in vista di nuove battaglie. Contro le masse del capitale che oppone al proletariato le sue bande armate, l’IC dispone di un’arma fedele, la massa del proletariato, il fronte unico del proletariato. Gli inganni e la violenza della borghesia nulla potranno se milioni di operai muoveranno alla lotta a file serrate (7).

Giustissimo! Quale comunista cosciente avrebbe potuto immaginare una soluzione rivoluzionaria delle lotte operaie senza la presenza di partiti che avessero conquistato la fiducia delle masse? Che significato avrebbe avuto predicare l’esistenza di avanguardie politiche senza il supporto vitale della stragrande maggioranza dei lavoratori? Ne conseguiva che il massimo sforzo dell’IC e dei PC aderenti fosse quello di crearsi una base di massa perché il perdurare della crisi economica e politica post bellica sfociasse in altri episodi rivoluzionari e non in un nuovo periodo di ricostruzione capitalistica. Ma le ambigue risoluzioni tattiche del fronte unico come dovevano essere interpretate? Come una unità della classe operaia sotto la guida dei partiti comunisti, il cosiddetto fronte unico dal basso, o come un primo passo di avvicinamento alle organizzazioni politiche e sindacali della socialdemocrazia?

Nel gennaio del ’21 l’IC ne dà una prima chiave di lettura:

L’Internazionale Comunista ha sempre chiamato i lavoratori che riconoscono i principi della dittatura del proletariato e del regime dei Soviet a formarsi in partito indipendente. Essa non ritratta una parola di ciò che ha detto sino ad ora sulla necessità di formare partiti comunisti … Ma nonostante ciò che separa i lavoratori comunisti dalle altre organizzazioni politiche, l’Internazionale Comunista tiene a dire loro, a tutti: lavoratori e lavoratrici di tutti i paesi, serrate i ranghi per difendere le rivendicazioni che sono comuni a tutti e che devono unirvi! … L’Internazionale Comunista e i suoi partiti vogliono con pazienza e fraternità marciare dal pari con tutti gli altri proletari anche se essi si pongono sul terreno della democrazia capitalistica.

Sembrerebbe la proposizione del fronte unico dal basso, attraverso il quale si cercano le strade per una unificazione effettiva della massa dei lavoratori, il mezzo attraverso il quale maturare politicamente, nel fuoco delle lotte, frange sempre più vaste di lavoratori ancora ingabbiati nelle maglie democraticistiche della borghesia progressista e della socialdemocrazia. Ma in un punto successivo della stessa dichiarazione si legge che il CE dell’IC promuove «convenzioni tra le diverse sezioni delle Internazionali II e II e mezzo». Non solo ma si dichiara disposta senza riserve a sostenere l’iniziativa dei comunisti tedeschi di appoggiare un governo operaio unitario fatto in collaborazione con la socialdemocrazia. A questo punto l’esecutivo dell’IC, cosciente di aver introdotto non solo delle innovazioni tattiche, ma anche i presupposti politici di un cambio di rotta da un punto di vista strategico, cerca di correre ai ripari rispondendo alle dure quanto giuste polemiche della sinistra italiana ribadendo, contorcendosi su se stesso, che:

la socialdemocrazia con le sue organizzazioni politiche e sindacali rimaneva una espressione controrivoluzionaria, ma che si rendeva necessario un accordo di vertice (addio fronte unico dal basso) per unificare la base divisa e per fare sì che i dirigenti socialdemocratici «arrivassero a spostarsi un po’ a sinistra» (Radek) che il governo operaio unitario, antesignano del governo operaio e contadino, non era altro che un efficace espediente tattico per smascherare agli occhi del proletariato l’opportunismo della socialdemocrazia.

Contorsioni a parte, rimanevano da spiegare alcune cosette. Se la situazione era ritenuta ancora più suscettibile di provocare episodi di ripresa della lotta di classe, non vi era alcun bisogno di escogitare una nuova tattica andando ad inficiare i capisaldi del II Congresso nei suoi punti politicamente più significativi quali l’autonomia politico organizzativa della classe operaia ed il concetto di dittatura del proletariato. Se la situazione oggettiva non era tale, allora sì, bisognava cambiare rotta, imporsi una tattica che fosse più congeniale ad una ritirata strategica, ma non per questo bisognava arenarsi nelle paludi dell’opportunismo.

Se la socialdemocrazia continuava ad essere, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, il maggiore ostacolo alla via rivoluzionaria del proletariato internazionale, non poteva essere spiegato in nessun modo questo avvicinamento tattico. Risibile a questo riguardo la giustificazione di Radek secondo il quale sarebbe così stato possibile spostare un po’ più a sinistra i dirigenti socialdemocratici. La storia purtroppo ci ha dimostrato il contrario, e poi questo avvicinamento lo si andava costruendo non sulla accettazione da parte della socialdemocrazia di alcune tesi rivoluzionarie, ma sulla base di concessioni politiche sul programma comunista, ad esempio sul contenuto dello stato operaio.

A poco vale citare l’esperienza bolscevica tra il 1905 e il 1917, ricca di episodi di rottura e di avvicinamento con i menscevichi. A quel punto, caratterizzato dalla più aspra repressione zarista, da una confusa situazione politica all’interno ed all’esterno della socialdemocrazia, il bolscevismo andava proponendosi come alternativa organizzativa e politica con un enorme sforzo di confronto/scontro che lo avrebbe portato (vedere a riguardo gli interventi degli esponenti bolscevichi al congresso di Basilea del 1912) ad una definitiva rottura sia con la socialdemocrazia russa che con quella internazionale. Ma fu proprio nel cuore della guerra che il bolscevismo, nella sua espressione più matura, nelle assisi internazionali di Zimmerwald e Kienthal, definì, per bocca dello stesso Lenin, la socialdemocrazia come un “cadavere” che doveva essere rimosso dalla via rivoluzionaria.

Per Lenin, come per Trotsky, l’iniziativa di questi due primi congressi, non altro voleva significare se non la impellente necessità di costruire una nuova internazionale che sancisse ufficialmente la definitiva, irreversibile rottura su scala mondiale tra le forze rivoluzionarie ed i vecchi partiti socialisti che nei fatti, oltre che nelle elaborazioni teoriche, avevano mostrato il loro definitivo collocarsi all’interno degli interessi dell’imperialismo e della guerra.

Giganteggiava la contraddizione che continuava ad attanagliare la prima esperienza rivoluzionaria su scala mondiale. Fare la rivoluzione in un qualsiasi paese, sconfiggere momentaneamente la propria borghesia sul terreno del conflitto armato, non significa aver costruito il socialismo, ma soltanto aver creato le condizioni politiche indispensabili. Indispensabile è distruggere lo strumento politico di cui si serve la borghesia per attuare il proprio dominio di classe, sostituendolo con un altro strumento politico, questa volta proletario, organizzato sulla base della più ferrea dittatura, ma non è per niente sufficiente.

Perché si possa marciare effettivamente verso la costruzione del socialismo occorre avere tra le mani una struttura produttiva sufficientemente sviluppata, una autonomia economica dal mercato internazionale pressoché assoluta, condizioni che mancavano completamente alla Russia di quegli anni. Per cui l’unica via di salvezza per l’arretratissima Russia consisteva nella vittoria rivoluzionaria in qualche paese dell’Occidente europeo, meglio ancora se industrialmente avanzato. Ne conseguiva che l’IC ed il partito bolscevico che, volenti o nolenti, ne rappresentava la spina dorsale, moltiplicassero gli sforzi per accelerare o perlomeno favorire, sulla base corretta dei due primi congressi, soluzioni rivoluzionarie e non di compromesso.

Comunque camuffati, la rinuncia all’autonomia politica del partito di classe e alla dittatura del proletariato non sarebbero servite né a convincere i capi della socialdemocrazia né a riunificare le masse attorno ad un programma rivoluzionario compromesso, ma soltanto a confondere le idee al proletariato internazionale, a spuntare lo strumento politico della sua lotta e ad offuscarne gli obiettivi. Sorge legittimo il dubbio che negli elementi responsabili del partito bolscevico e nella stessa IC, al di là delle analisi ufficiali, si iniziasse a ritenere che la situazione fosse meno favorevole del previsto, e che tanto valesse privilegiare la pur precaria situazione russa attraverso una politica internazionale di alleanze con le forze della socialdemocrazia per garantirsi una cintura di sicurezza più consistente, che non proseguire sulla strada dell’allargamento rivoluzionario. Solo sotto questo aspetto le rettifiche tattiche sul fronte unico e sul governo operaio escono dall’equivoco per assumere la loro giusta configurazione.

Il quarto congresso dell’IC e le sue conseguenze

A togliere ogni dubbio alla questione giunge nel novembre del 1922 il IV Congresso. I temi sono i soliti: definizione della socialdemocrazia, fronte unico, governo operaio, in più le conseguenti direttive tattiche.

La socialdemocrazia, nelle aspettative dell’IC, esce dal tunnel della controrivoluzione, non è più «l’ala sinistra della borghesia» (Zinoviev), né «la sorella siamese del fascismo» (Stalin) ma assurge improvvisamente agli onori di un settore importante del movimento operaio. Il perché di questa onorificenza, non certamente guadagnata sul campo, lo si scopre quando si va a constatare la ridefinizione del fronte unico. All’epoca del Terzo Congresso il riavvicinamento dei vecchi partiti socialisti era considerato come una necessaria quanto momentanea alleanza tattica attraverso la quale riuscire strutturalmente a riunificare la base operaia dispersa, con il Quarto Congresso si lancia la parola d’ordine della fusione organizzativa dei due partiti.

A chiudere il cerchio giunge un’altra definizione del governo operaio che da semplice espediente tattico per smascherare agli occhi di un movimento operaio sempre più attonito la politica opportunistica dei partiti socialisti e delle altre formazioni operaie, diventa, con le dovute precauzioni e garanzie, un importante punto di partenza per il raggiungimento della dittatura del proletariato.

È a Zinoviev che spetta l’ingrato compito di annunciare al congresso l’ultima trovata:

I tipi di governo operaio e contadino e di governo operaio con la partecipazione dei comunisti non sono ancora la dittatura del proletariato, non sono neppure una forma transitoria storicamente indispensabile, ma possono diventare un punto di partenza importante per la sua conquista (8).

È un fatto, ad esempio, che le risoluzioni tattiche della III IC nei due congressi presi in esame abbiano pesato enormemente ed in maniera negativa nella esperienza rivoluzionaria tedesca del ’23 ed in quella cinese del ’26-’27.

È un fatto che il tentativo di costringere i partiti comunisti a riunificarsi con i partiti socialisti a nemmeno due anni dalla tanto invocata scissione non aveva come fine il rafforzamento del fronte rivoluzionario ma di quello socialdemocratico, nella speranza che entrambi sapessero da unificati meglio difendere il “socialismo” russo.

È un fatto che, imboccata questa strada, la teorizzazione della possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese diventasse una necessità fisiologica in barba ad ogni evidenza. Non si può nemmeno invocare, a conti fatti, l’attenuante dell’abbaglio. Proprio sul tema del governo operaio l’IC, sempre per bocca di Zinoviev, si spiega in una casistica concreta e dettagliata sulle forme di governo prettamente borghesi, su quelle proletarie e su quelle miste:

Alla coalizione palese ed occulta fra borghesia e socialdemocrazia i comunisti oppongono il fronte unico di tutti gli operai contro il potere borghese per il rovesciamento definitivo. Nella lotta comune di tutti gli operai contro la borghesia, l’intero apparato dello stato dovrà cadere nelle mani del governo operaio e le posizioni della classe operaia ne usciranno rafforzate. Il programma più elementare di un governo operaio deve consistere nell’armare il proletariato, nel disarmare le organizzazioni borghesi controrivoluzionarie, nell’instaurare il controllo della produzione, nel fare cadere sui ricchi il peso principale delle imposte e nello spezzare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria.
L’Internazionale comunista deve prendere in esame le seguenti eventualità:
Un governo operaio e liberale. Esiste già un governo di questo genere in Australia; è ugualmente possibile, entro un lasso di tempo abbastanza breve, in Inghilterra.
Un governo socialdemocratico (in Germania)
Un governo di operai e contadini. Questa eventualità è da prevedersi nei Balcani, in Cecoslovacchia, ecc.
Un governo operaio con la partecipazione dei comunisti.
Un vero e proprio governo operaio proletario che, nella sua forma più pura, non può essere incarnato che da un partito comunista.
I primi due tipi di governo operaio non sono dei governi operai rivoluzionari, ma governi cosiddetti di coalizione tra la borghesia e i leader operai controrivoluzionari. Questi governi operai sono tollerati nei periodi critici dalla borghesia indebolita per ingannare il proletariato sul reale carattere di classe dello Stato o anche per stornare l’attacco rivoluzionario del proletariato e guadagnare tempo con l’aiuto dei leader operai corrotti. I comunisti non dovranno partecipare a simili governi.
Al contrario, dovranno smascherare senza pietà di fronte alle masse il reale carattere di questi governi operai fasulli. Nel periodo di declino del capitalismo nel quale il compito principale consiste nel guadagnare alla causa della rivoluzione la maggior parte del proletariato, questi governi, obiettivamente, possono contribuire a far precipitare il processo di decomposizione del regime borghese. I comunisti son pronti a marciare anche con gli operai socialdemocratici, cristiani e senza partito, sindacalisti, ecc. che non hanno ancora riconosciuto la necessità della dittatura del proletariato. I comunisti sono ugualmente disposti, in determinate condizioni, e con determinate garanzie, ad appoggiare un governo operaio non comunista. Ma i comunisti dovranno a qualsiasi prezzo spiegare alla classe operaia che la sua liberazione non potrà essere assicurata che dalla dittatura del proletariato. I due altri tipi di governo operaio cui possono partecipare i comunisti non sono ancora la dittatura del proletariato; essi non costituiscono ancora una forma di transizione necessaria verso la dittatura del proletariato, ma possono essere un punto di partenza per la sua conquista. L’assoluta dittatura del proletariato non può essere realizzata completamente che da un governo operaio composto da comunisti (9).

Era inevitabile nelle cose che, dopo la sconfitta tedesca e la disfatta cinese, la III Internazionale proponesse una rilettura, l’ennesima, sul fronte unico e sul governo operaio. Nel suo indice di gradimento, la socialdemocrazia, elemento primario ed insostituibile del fronte unico, toccò i livelli più bassi. Non più settore importante della classe operaia, bensì forza conservatrice con aspirazioni reazionarie (social fascismo). Lo stesso trattamento, anche se con verso opposto, toccò al governo operaio, che da indispensabile trampolino di lancio verso la dittatura del proletariato, diviene il simbolo di questa. Un po’ come dire: sino ad oggi abbiamo scherzato, abbiamo buttato fumo negli occhi alla borghesia ed alla sua appendice socialdemocratica, ma in realtà abbiamo sempre pensato che l’unica forma di governo operaio possibile, e quindi praticabile, fosse solo ed unicamente la dittatura del proletariato. Bravi! Peccato che tanto fumo sia servito più ad intossicare polmoni e coscienze proletarie che non a confondere i piani della borghesia.

Un fronte unico con la socialdemocrazia forse, un fronte unico con la socialdemocrazia sì, un fronte unico con la socialdemocrazia mai. Un governo operaio tattico ma non coincidente con la dittatura del proletariato ma presupposto di questa, un governo operaio coincidente con la dittatura del proletariato, e siamo ritornati, ma solo formalmente, alle delibere del II Congresso. Straragione ebbe Bordiga al V Congresso, sintetizzando i suoi giudizi critici nei confronti del deviazionismo tattico della III Internazionale in materia di alleanze con la socialdemocrazia e dei relativi punti di approdo strategici:

Ma che cosa può comprendere del governo operaio un operaio o un semplice contadino quando, dopo tre anni, noi, capi del movimento operaio, non siamo ancora riusciti a intendere e a dare una definizione soddisfacente su che cosa sia questo governo operaio? Io chiedo semplicemente il funerale di terza classe per la tattica e, insieme, per la parola d’ordine del governo operaio (10).

Al dunque, indipendentemente dalle repentine virate, imposte più dal tentativo di rincorrere le situazioni e di comporre in qualche modo la contraddizione di fondo tra l’isolamento russo e la necessità di favorire una ripresa della lotta di classe su scala internazionale, che da carenze d’impostazione del problema tattico o da libertà interpretative dello stesso, quale fu, nelle aspettative, il vero compito del fronte unico e del governo operaio? La risposta non può essere che una: l’alleanza organizzativa con la socialdemocrazia come primo passo verso una riunificazione politica che sancisse definitivamente la ricomposizione dei due tronconi del movimento operaio italiano.

Che ciò fosse nei piani dell’EKKI (C.E. allargato), prima ancora delle esperienze tedesche e cinesi, si palesa in due aspetti tra loro complementari: da un lato la pochezza giustificatoria delle tesi tattiche rispetto a quanto analizzato in materia sino al Secondo Congresso, dall’altro il riproponimento di indicazioni pratiche frontiste che nel loro aspetto operativo, superassero, elundendoli, i nodi politici di fondo che una riunificazione a tutti i livelli con la socialdemocrazia avrebbe comportato.

Sintomatica, a riguardo, fu la prassi adottata dalla III Internazionale nei primi mesi del ’23 nei confronti dei dirigenti politici del PC d’Italia. Dopo l’avvento del primo governo Mussolini, Mosca si muove per dare corpo alle proprie tesi. Rakosi, Manuil’skij e Droz, non per giustificare il cambiamento di rotta, non per discutere politicamente la frattura in atto tra il PC d’Italia e l’Esecutivo dell’Internazionale, ma per imporre dall’alto i “nuovi dettami”, piombano in Italia. Alle spalle dei tre le delibere del IV Congresso sulla necessità di riunificazione tra rivoluzionari e non con un particolare rilievo alla specificità della situazione italiana. Il “particolare rilievo” consisteva nella enunciazione programmatica di 13 punti, la cui accettazione doveva ritenersi scontata, corredati da una breve nota introduttiva.

In considerazione della decisione in base alla quale il congresso di Roma del Partito socialista italiano (Ottobre 1922) espelle i riformisti dal partito e si dichiara pronto ad aderire senza riserve all’Internazionale comunista, il Quarto Congresso dell’Internazionale comunista decide… (11).

Il tono perentorio non lascia spazi a giochi di interpretazione, il contenuto politico invece apre enormi varchi al piccolo e grande cabotaggio dell’opportunismo tattico. Ma ancora una volta, la questione di fondo non sta nel minuzioso distinguo sulle modalità o sui tempi del processo di riunificazione, bensì sul suo contenuto politico e sulle sue ripercussioni nei confronti della ripresa della lotta di classe. Non era certamente sufficiente rivalutare il PSI sulla base dell’espulsione dei riformisti e del suo pronunciamento di adesione “senza riserve” all’IC. Non va infatti dimenticato come il riformismo dei Turati e Treves si fosse espresso in tal senso nel ’18 e nel ’19 e che ciò non impedì nel ’21 la necessaria scissione che avvenne non sulla base di una formale adesione o su di un altrettanto formale rifiuto di simpatia o di appartenenza alla III Internazionale, ma sulla base di inconciliabili programmi sia in sede tattica che sul piano strategico.

Che nel 1922 il “corpo massimalista” amputasse il suo braccio destro non stava a significare un reale spostamento di Serrati e compagni verso posizioni rivoluzionarie, ma più semplicemente che, in una fase di stallo delle lotte operaie, massimalisti e riformisti si confrontavano sulla opportunità o meno di collaborare con la borghesia. Non fu soltanto per un bizzarro gioco delle parti che, dopo l’espulsione dei riformisti, all’interno dei rimasugli del PSI si ripropose la questione se aderire o no alla III IC e quel che è più grave è che nella stragrande maggioranza dei massimalisti (i non serratiani) la scissione con i discepoli di Treves fu vissuta più in senso strumentale che politico se si deve dar retta alle dichiarazioni del massimalista non terzinternazionalista Vella:

Noi abbiamo a Roma fatto la scissione con i riformisti perché speravamo che ad ottobre Facta cadesse e i riformisti, liberi da noi, si decidessero ad andare al potere (12).

Non c’è nemmeno bisogno di leggere tra le righe, per i massimalisti di Vella la scissione assumeva il tono di un esperimento guidato in cui si dava mano libera ai riformisti di dare la scalata al potere borghese senza compromettere le posizioni di principio del massimalismo di sempre che sarebbero state salvaguardate dal sempre più anemico PSI. Come dire: andate avanti voi, non vi copriamo le spalle. Che dall’espulsione dei riformisti non si potesse aspettarsi nulla di positivo avrebbe dovuto essere chiaro anche, se non soprattutto, ai dirigenti della III IC. Al contrario, H. Droz e compagni rimasero di sale quando, nel congresso dell’aprile del ’23, sulla mozione Vella-Nenni, il PSI, non solo rifiutò il processo di riunificazione con i comunisti, ma si permise il lusso di espellere lo sparuto gruppo terzinternazionalista di Serrati.

L’insufficienza della premessa introduttiva continua nei 13 punti con l’aggravante di un pragmatismo spicciolo che si illudeva di superare i problemi eludendoli. Né è un palese esempio il quarto punto in cui si affrontano in modo sbrigativo ed incompetente i risultati del congresso romano del PSI:

Visto che al congresso di Roma il delegato Vella si è dichiarato contro l’accettazione delle 21 condizioni, il IV congresso ritiene impossibile accettare Vella e i suoi sostenitori nell’Internazionale comunista e invita il Comitato direttivo del Partito socialista italiano ad espellere Vella e i suoi sostenitori (13).

O l’IC nella sua smania frontista, non si era preoccupata di andare oltre le apparenze, riguardo la reale situazione politica all’interno del PSI oppure, conoscendola, e la cosa sarebbe ancora più grave, fingeva di non esserne al corrente.

Paradossale quanto contraddittorio è il richiamo ai 21 punti di Mosca (Secondo Congresso dell’IC) che più esplicitamente vengono ripescati nel punto tre in cui si dice:

Il quarto congresso mondiale considera fuori discussione l’applicazione delle 21 condizioni. Incarica quindi l’Esecutivo dell’IC, in base ai precedenti italiani, di seguire con particolare cura l’applicazione di queste condizioni, con tutte le conseguenze che ne derivano (14).

L’aspetto paradossale sta proprio nel richiamo ai 21 punti nei quali la stessa Internazionale sanciva, senza possibilità di equivoco: a) la rottura sia organizzativa che politica con le varie frange della socialdemocrazia, intesa come presupposto irrinunciabile attraverso il quale si potevano creare le premesse per la futura direzione politica delle lotte di classe; b) la più assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, nella cui interpretazione non c’era spazio per momentanee alleanze, né tantomeno definitive con la socialdemocrazia o con i partiti “operai” legati direttamente o indirettamente con la tradizione della II Internazionale o dell’Internazionale 2 e mezzo; c) che il punto d’approdo della lotta di classe dovesse essere la dittatura del proletariato, senza tappe intermedie e senza surrogati di sorta. Paradossale, proprio nel momento in cui la III IC andava prendendo le distanze da quei principi fondamentali che la videro nascere, ne era l’uso polemico nei confronti del PC d’Italia che a questi principi si appellava a dimostrazione dei pericoli controrivoluzionari della “devianza” dei dirigenti moscoviti.

Nel secondo e quinto punto, scavalcando i nodi politici di fondo e soffocando burocraticamente anche le più legittime perplessità, i deliberati del IV Congresso passavano imperativamente a dettare le linee della impossibile riunificazione. Non aveva alcun valore che i soggetti di questo processo si fossero ripetutamente espressi, per ragioni opposte, negativamente, a Mosca si riteneva necessario farlo e ciò doveva essere sufficiente.

L’Internazionale Comunista rivolge al proletariato italiano, così duramente provato, i suoi fraterni saluti. Ella è perfettamente convinta della sincerità degli elementi proletari del Partito Socialista Italiano e decide di accogliere questo partito nell’Internazionale Comunista.
Visto che in virtù degli statuti dell’Internazionale non vi può essere in un paese più di una sezione dell’Internazionale comunista, il IV Congresso mondiale decide la fusione immediata del partito comunista e del partito socialista italiano. Il partito unificato porterà il nome di Partito Comunista Unificato d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista (15).

L’aspetto più sconcertante emerge subdolamente quando si va a cercare nei resoconti del IV Congresso un qualsiasi nesso logico che potesse in qualche modo servire da paravento alle manovre di vertice che si andavano proponendo:

… Il momento più importante, nella tattica del fronte unico, è sempre dato dall’unità delle masse operaie nell’agitazione e nell’organizzazione. L’autentico successo della tattica del fronte unico viene dal “basso”, dalla coscienza unitaria delle masse. Tuttavia i comunisti dovrebbero pur sempre, in certe circostanze, negoziare anche con i capi dei partiti operai avversi. Le masse dovranno non di meno essere costantemente e perfettamente tenute al corrente del corso di questi negoziati. L’autonomia dell’agitazione dovrà essere conservata, anche durante questi negoziati (16).

Con le delibere del IV Congresso si dava un bell’esempio di che cosa si intendesse per unità dal basso ed in quale considerazione si tenesse la coscienza delle masse. Ma già ci siamo espressi sul vero contenuto del fronte unico e del governo operaio. Indipendentemente dalla presentazione di facciata, a Mosca si cominciava a dubitare sulla possibilità di una ripresa della lotta di classe in senso rivoluzionario, per cui tanto valeva costruire all’esterno della Russia una cintura di sicurezza che fosse in grado di opporsi all’accerchiamento imperialistico. Questa cintura non poteva essere costituita dai soli partiti comunisti legati alla terza Internazionale; occorreva allargare le fila, avere un’area di manovra più vasta. Da qui la necessità di rinunciare ai fondamenti della prassi rivoluzionaria per una coalizione a tutti gli effetti con la socialdemocrazia. Tutto il resto, giustificazioni comprese, faceva parte delle contraddizioni che il proletariato russo, al pari di quello occidentale, era costretto a vivere.

Una nota a parte merita il punto uno:

La situazione generale in Italia, soprattutto dopo la vittoria della reazione fascista, esige imperiosamente la fusione rapida di tutte le forze rivoluzionarie del proletariato. Gli operai italiani riprenderanno coraggio se vedranno nascere, dopo le disfatte e le scissioni, una nuova concentrazione di tutte le forze rivoluzionarie (17).

Innanzi tutto non era politicamente corretto, né praticamente possibile tamponare le disfatte attraverso il tentativo di percorrere un vicolo chiuso a braccetto dell’ala sinistra della borghesia. Né aveva senso delineare la percorribilità del veicolo appiccicando l’aggettivo rivoluzionario al sostantivo socialdemocrazia, come se la ricomposizione del fronte di classe su di un piano rivoluzionario, passasse attraverso un astuto processo di aggettivazione o fosse la conseguenza di atti di fede come quelli del punto due. Inoltre il rapporto disfatte-scissioni avrebbe dovuto essere maggiormente esplicitato. Se come parametro di giudizio dovessimo assumere quello della Internazionale nel suo Esecutivo allargato di qualche mese dopo, con cui si attribuiva la responsabilità della vittoria del fascismo alla mancata riunificazione del PC d’Italia con il PSI, dovremmo concludere che le disfatte del proletariato italiano erano da addebitarsi esclusivamente al settarismo di Bordiga e compagni.

In linea generale, e la storia della lotta di classe ha fornito in merito una infinità di esempi, le scissioni all’interno del movimento operaio sono sempre state precedute o favorite da disfatte politiche. La sconfitta, soprattutto se violenta e repentina, porta con sé sconforto e paura, disillusione e crisi d’identità politica, raramente è successo il contrario. Anche la situazione italiana degli anni ’19-’23 non è sfuggita alla regola generale. Il proletariato italiano, con particolare riferimento a quello del nord, si espresse ai massimi livelli delle sue capacità eversive negli anni del biennio rosso per culminare nel grandioso episodio dell’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20. Ma allora mancò la presenza di una guida politica, di un punto di riferimento strategico che riuscisse a trasformare la potenzialità insurrezionale delle masse in lotta in rivoluzione, mancò il partito.

In quegli anni cruciali l’avanguardia del proletariato italiano, anche se battagliera ed insofferente, non aveva nessuna possibilità di esprimersi perché ancora invischiata nelle maglie organizzative del PSI. Quando l’auspicata frattura tra rivoluzionari e riformisti avvenne, nel gennaio del 1921, era troppo tardi. Quando sulla base di situazioni obiettive pressanti il proletariato si muove verso una possibile soluzione rivoluzionaria e manca il partito, inevitabilmente è la sconfitta, e con la sconfitta il ridimensionamento del livello della lotta di classe. Ad una mancata rivoluzione non può succedere che un processo di reazione borghese, nei tempi e nei modi più favorevoli all’avversario di classe. Con un proletariato in ritirata, o comunque in grado di difendersi in ordine sparso, alla borghesia italiana, passata la “grande paura”, fu facile armare la mano fascista. Nel ’23 il proletariato italiano scontò la sua sconfitta del ’20, non la mancata riunificazione tra il PC d’Italia ed il PSI.

Domenica, September 24, 2017