Considerazioni sulla fase attuale, la guerra e le sue conseguenze sulla classe

La guerra ha avuto come reazione immediata da parte delle borghesie occidentali le sanzioni economiche

All’indomani del 24 febbraio, data dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, sono scattate le sanzioni. Al maggio 2022 l’Unione Europea ha imposto alla Russia cinque pacchetti di sanzioni (1). Queste contemplano i provvedimenti individuali contro politici, oligarchi e imprenditori, alti funzionari militari, “propagandisti e attori della disinformazione”, in tutto 1100 persone per le quali sono scattati il congelamento di tutti i conti nella UE, il divieto di viaggio e il divieto per chicchessia di finanziarne l’attività.

A queste si aggiungono il divieto ai velivoli russi, privati o di compagnia, di sorvolare lo spazio aereo europeo o di atterrare. Vietata anche l’esportazione di tecnologia aerospaziale e marittima verso la Russia. Dipendendo la flotta russa in larga parte dalla tecnologia “occidentale”, questa sanzione dovrebbe nel medio termine portare al blocco dell’attività aerea civile russa. Le medesime restrizioni sono state adottate da USA, GB e Canada.

Vi è poi il blocco dell’accesso a SWIFT per sette banche russe e tre bielorusse che quindi non possono più ricevere valuta estera o trasferire all’estero attività. Di fatto le banche potrebbero operare lo stesso, ma tornando ai sistemi comunicativi di… 40 anni fa, eccessivamente lenti e costosi nel mondo odierno. Il blocco ha coinvolto anche la Banca Centrale Nazionale Russa, le sue riserve in valuta estera ammontavano al febbraio 2022 a 579 mld di Euro, dei quali oltre la metà si stima siano stati congelati (analogo provvedimento è stato adottato da USA, GB e Canada), in tal modo la Russia non può accedere a tali riserve per vendere moneta estera e mantenere così più stabile il tasso di cambio della sua valuta, anche se questa, nonostante le sanzioni e l’inflazione sta tenendo molto bene dal momento che oggi (metà maggio) il Rublo è più forte di Dollaro e Euro rispetto a prima della guerra. Anche le riserve auree sono oggi difficili da vendere a causa delle sanzioni. Infine, per rendere maggiormente efficaci le sanzioni, tutti i trasferimenti di Euro verso la Russia sono vietati (2).

A queste imposizioni si sommano il divieto di importazione dalla Russa all’UE di: carbone e combustibili solidi, legno, cemento, prodotti ittici, liquori. Divieto di accesso ai porti UE per le navi russe e alla rete stradale per il trasporto su gomma (3), oltre al divieto di esportare in Russia tecnologie per la raffinazione del petrolio e di investire nel settore energetico russo.

La fine della globalizzazione

Gli osservatori sono ormai concordi nel considerare la fase attuale come quella della fine della “globalizzazione” che aveva caratterizzato la fine degli anni ‘90 e i primi venti anni del 2000. Globalizzazione che, a sua volta, fu una risposta data dal capitale alla sua crisi. Con la “svolta neoliberista” degli anni ‘80 e ‘90 si verificò una ripresa dei saggi del profitto dovuta in larga parte alla delocalizzazione di importanti asset produttivi nei paesi dove la forza lavoro costava meno. Fu una fase nella quale le esportazioni in rapporto al prodotto interno lordo mondiale crebbero in maniera massiccia, fino a superare il 60% alla fine degli anni ‘00 del 2000 (4).

Nel grafico il rapporto tra esportazioni internazionali e PIL mondiale dal 1870.

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A trarre grande beneficio dalla “globalizzazione” - ossia la tendenza ad abbattere le barriere doganali, le restrizioni al commercio e a favorire la piena apertura alla finanziarizzazione dei mercati - furono gli imperialismi occidentali (in primis gli USA che rilanciarono la propria egemonia planetaria e l’Europa) che poterono contrastare la caduta del saggio del profitto prolungando la giornata lavorativa, aumentando i ritmi di lavoro, contenendo i salari, sfruttando i mercati della forza lavoro a basso costo (anche dieci volte inferiore), senza minimi salariali né tutele sindacali e con importanti agevolazioni fiscali. In questo modo gli imperialismi occidentali si appropriarono di ingenti quote di plus-valore estorto nei paesi periferici, ma in occidente si persero anche molti posti di lavoro e la precarietà si diffuse sempre più. Grande beneficio ne trassero però anche potenze capitaliste una volta periferiche, in primis la Cina (ma anche l’India, il Brasile e altri paesi capaci di fornire forza lavoro a basso costo) che proprio da questa esportazione degli asseti produttivi nei loro territori iniziarono a costruire le proprie “fortune” – sempre sulla pelle della propria classe lavoratrice iper-sfruttata.

Nel grafico l’andamento del saggio medio del profitto nel paesi del G20.

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Negli ultimi anni la grande recessione del 2008 e la lunga depressione che ne seguì, la crisi pandemica COVID ed ora il conflitto in Ucraina hanno spezzato la catena di approvvigionamento globale, compresso il commercio mondiale e rallentato i movimenti di capitale portando all’attuale cambiamento di fase che lascia scoperti i nervi del sistema di produzione e distribuzione planetario: prima gli USA con Trump hanno iniziato a cercare di isolare la Cina con nuove tariffe doganali e il bando a merci e compagnie cinesi, ed ora, con Biden, proseguono l’opera di accerchiamento della Russia attraverso l’allargamento della NATO a est; la Cina sta continuando a soffrire i lockdown causa COVID che ne rallentano la produzione e distribuzione di merci; l’Europa è vulnerabile alle ricadute della guerra in Ucraina e all’interruzione degli approvvigionamenti energetici (e alimentari) dalla Russia, interruzione favorita e cercata dagli USA che si sono sempre opposti a tale dipendenza energetica cercando di impedire una più stretta alleanza tra Europa e Russia, in primis contrastando il Nord Stream Two che all’indomani dello scoppio della guerra è stato affossato, proprio quando era stato finalmente ultimato per tutti i suoi 1.230 chilometri. Tutto questo ha comportato un significativo aumento nei costi delle materie prime e delle merci con ricadute sull’inflazione e sul tasso di sconto che nei prossimi paragrafi andremo ad indagare.

L’inflazione torna a crescere a livelli che non si vedevano da 30-40 anni.

Per l’economia politica l’inflazione è definita come l’aumento generalizzato e prolungato dei prezzi che porta alla diminuzione del potere d’acquisto della moneta e quindi del valore reale di tutte le grandezze monetarie e, in assenza di adeguati aumenti, alla perdita del potere d’acquisto dei salari. L’inflazione era classicamente determinata da una fase economicamente espansiva determinata dall’aumento della domanda di beni e servizi. A seguito dell’erompere della crisi strutturale, invece, si è assistito, per la prima volta negli anni ‘70, al fenomeno della stagflazione (stagnazione + inflazione), oggi il processo inflattivo è stato attivato dall’improvviso impennarsi della domanda - che l’offerta non è stata in grado di soddisfare - nell’immediato post lock-down del 2020/21 ed ha proseguito attraverso l’aumento del costo delle materie prime, senza contare il ruolo nefasto della speculazione sempre in agguato nei periodi di crisi.

In Italia l’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC) a marzo ha raggiunto il 6,5%, un livello che non veniva toccato da 27 anni. Il massimo mai toccato dal dopo guerra furono infatti i 21,1% del 1980, l’IPC fu stabilmente galoppante, ossia a due cifre, dal 1973 al 1984 (vale a dire per tutto il decennio successivo all’erompere della attuale crisi strutturale, indotto dal rialzo del prezzo del petrolio – favorito dagli USA – che caratterizzò quella stagione), mentre è stata stabilmente sotto il 3% dal 1997 al 2021. Ma il dato attuale per le famiglie con minore capacità di spesa è ancora più pesante, andando a toccare l’8,3% (5).

Il fenomeno è ancora più significativo se andiamo ad osservare l’andamento storico dell’inflazione per quanto riguarda il Dollaro e gli Stati Uniti dove l’inflazione ha già superato l’8,5% in marzo, un picco che anche qui non veniva toccato dal 1980 (6).

Nel grafico l’andamento storico dell’inflazione USA.

Un quadro generale dell’andamento dell’inflazione vede: UE (+7,5%), Usa (+8,3%), Grecia (+10,2%), Brasile (+12,1%), Russia (+17,8%), Argentina (+58%), Turchia (+70%) (7) con un trend generale di accelerazione mese dopo mese.

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L’inflazione odierna è dettata per lo più dall’aumento dei costi delle materie prime, è quindi interessante osservare l’andamento dell’Indice dei Prezzi alla Produzione (IPP), che misura la variazione media dei prezzi pagati dalle società per le materie prime utilizzate per produrre i beni.

L’indice IPP, con una rapida impennata cominciata nella prima metà del 2021, ha già sfiorato nel marzo 2022 un aumento del 33%. Si consideri che nella serie statistica che abbiamo consultato, e che partiva dal 1990, il precedente massimo era stato il +9% brevemente toccato nel luglio 1995 (8).

Il rincaro delle materie prime ha caratterizzato gli ultimi due anni. Il costo delle materie prime per le imprese manifatturiere italiane è in rialzo nel 2022 del 27%, nel 2021 l’aumento era già stato del 70%, complessivamente si tratta di un raddoppio secco (9). Ma andiamo ad osservare più da vicino l’aumento dei costi delle materie prime e delle merci alla base dell’attuale movimento inflattivo.

La guerra e le sanzioni alla Russia incrementano l’aumento dei costi delle materie prime, materie prime che già rincaravano da prima. Russia e Ucraina inoltre sono importanti esportatori di cereali e beni alimentari di livello mondiale.

Attualmente (maggio 2022) il mercato mondiale di approvvigionamento alimentare sta vivendo: la paralisi del porto di Shangai (il più grande del mondo) dovuta al COVID; il blocco dei porti in Ukraina, con milioni di tonnellate di grano ferme nel Mar Nero; fenomeni ricorrenti di siccità e carestia senza precedenti, causati dal riscaldamento globale; un inflazione galoppante; l’impennata dei prezzi di petrolio e gas (10). Una vera miscela esplosiva figlia di questo irrazionale modo di produzione che, oltretutto, sta attraversando la sua più grave crisi bellica dalla Seconda Guerra Mondiale.

Nei confronti dell’Unione Europea l’Ucraina è il quarto maggior fornitore di cibo estero, fornisce il 50% del granoturco e il 25% degli olii vegetali e fertilizzanti.

Russia e Ucraina esportavano rispettivamente il 21% e il 10% del frumento tenero mondiale ed entrambe contano oltre il 25% delle esportazioni globali di grano. Quasi 50 paesi del mondo dipendono da loro per più del 30% delle proprie importazioni. I paesi maggiormente dipendenti dal frumento tenero ucraino sono: Egitto, Indonesia, Bangladesh, Turchia, Tunisia, Marocco, Yemen e Libano, paesi già duramente piagati da diversi tipi di problemi. L’Ucraina inoltre esportava il 15% del mais mondiale, usato sopratutto come mangime animale, con conseguente aumento dei prezzi delle carni. A marzo i prezzi dei cereali e delle principali derrate alimentari hanno toccato i massimi storici. Il rischio di crisi alimentari in diversi paesi del mondo è altissimo. Se in Europa alcuni prodotti possono essere sostituiti con altri, in Nord Africa e in Medio Oriente le conseguenze di questo fenomeno saranno devastanti con prevedibili forti ripercussioni sociali: già nel 2011 l’aumento del prezzo del grano fu la principale causa materiale di quelle rivolte di massa conosciute come Primavere Arabe (Rivolte del Pane), solo che oggi appare meno prevedibile la prospettiva di una successiva riduzione dei prezzi come avvenne dal 2012 al 2020.

Nel grafico l’andamento storico del prezzo del grano negli ultimi 80 anni (11).

A un mese dalla guerra in Ucraina, in Italia, le quotazioni del grano tenero erano cresciute del 33%, superando per la prima volta i 40 euro al quintale, il mais era aumentato del 41%, il prezzo del grano duro è quasi raddoppiato nel 2021. Il prezzo del pane è aumentato fino a oltre i 5 euro al chilogrammo mentre l’aumento del prezzo del mais incide sul costo della carne, il cui aumento va verso il 20%. Per i fertilizzanti l’urea è passata in un anno da 350 a 1.000 euro la tonnellata e il nitrato di ammonio da 200 a 1.000 euro (12).

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Secondo il World Food Program dell’ONU le persone che nel mondo soffrono la fame erano già passate dai 135 milioni di prima del COVID agli attuali 276 milioni, si prevede che nel breve periodo aumenteranno di almeno altri 50 milioni.

Nel grafico l’andamento dell’indice dei prezzi del cibo dal 1990, elaborato dalle Nazioni Unite.

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Un discorso analogo va fatto per numerose altre materie prime: il prezzo del carbone è cresciuto di tre volte in un anno, quello del ferro di due. L’embargo al carbone russo non potrà che peggiorare il quadro. Il prezzo del Nichel è più che triplicato, con impatto sulla produzione di elettrodomestici e batterie, e quindi di automobili elettriche. Scarseggiano titanio e cromo (13).

Il prezzo del petrolio greggio a metà maggio ha già superato i 110 dollari al barile ed è probabilmente in ascesa.

Nel grafico l’andamento del prezzo del barile di greggio dal 1946 (14).

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Per quanto riguarda la circolazione mondiale delle merci, nel tragitto tra Cina e Europa a causa delle sanzioni, circa un milione di container all’anno non potranno più transitare dalle ferrovie russe. L’alternativa è il viaggio via mare che aumenta i costi, dilata i tempi e intasa i già ingorgati flussi e canali commerciali via mare. I costi dei noli marittimi dalla Cina verso la California sono infatti schizzati alle stelle: il costo medio di spedizione da Shangai a Los Angeles di un container da 40 piedi tra il 2011 e il 2021 era di 3.500 dollari, oggi varia dai 18 ai 20mila dollari mentre dagli USA all’Europa il prezzo è passato dai 3.500 dollari ai 10/12mila. Questo prima del blocco del porto di Shangai (15). I tempi medi di transito oceanico delle navi porta-container negli ultimi due anni si sono costantemente dilatati: da Shangai ad Amburgo i tempi sono aumentati di 65 giorni rispetto a prima del COVID, di 41 giorni per Long Beach (16). Ne consegue una riduzione nella velocità di circolazione dei capitali e, quindi, una riduzione della loro profittabilità.

Le banche centrali, a partire dalla statunitense FED, iniziano a rispondere con il rialzo dei tassi di interesse

La FED americana, come le altre banche centrali, hanno fondamentalmente una sola arma per limitare l’inflazione: ridurre la massa monetaria aumentando il tasso di sconto del denaro. Successivamente alla crisi del 2008 il tasso di sconto è sempre stato (con rare eccezioni) molto basso, favorendo ridotti tassi di interesse sui prestiti e spingendo in tal modo all’aumento debiti privati e pubblici. Da questa situazione ne trasse vantaggio sopratutto la speculazione finanziaria a cui andarono gran parte dei capitali erogati durante il Quantitative Easing. La situazione potrebbe invertirsi: la FED ha già innalzato il tasso di un quarto di punto a marzo e di mezzo punto a maggio, portandolo all’attuale 1%. Una cifra tutto sommato ancora irrisoria, ma sono in programma nuovi rialzi. Il rialzo dei tassi ha due ordini di ricadute sull’economia, il primo è la contrazione dell’occupazione: denaro più caro significa nell’immediato meno prestiti e a tassi maggiori e quindi si riducono gli investimenti e cade il numero degli occupati, conseguenza che rischia di essere particolarmente pesante in una situazione occupazionale già deficitaria come l’attuale. La seconda conseguenza del rialzo dei tassi di interesse è la sua ricaduta sui debiti: sui debiti pubblici di molti stati, specie quelli più poveri del sud del pianeta, per i quali lo spettro di default finanziario è proporzionale al crescere della massa del loro debito e al rischio del rialzo degli interessi da pagare su di esso. Inoltre anche l’economia privata è sempre più fortemente indebitata: cittadini che hanno preso soldi in prestito per comprare casa (mutui) o quant’altro e che rischiano di essere letteralmente strangolati dal rialzo dei tassi di interessi (esattamente la dinamica che scatenò la crisi dei sub prime nel 2008).

Nel grafico l’andamento storico del Tasso di interesse della FED degli ultimi 30 anni (attualmente è all’1%).

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Per i mutui consideriamo che, solo negli USA, i prezzi delle abitazione sono cresciuti del 34% dallo scoppiare della pandemia mentre, per fare un singolo esempio, i debiti privati studenteschi, sempre negli USA, hanno raggiunto l’incredibile cifra di 1,8mila miliardi di dollari (17).

Il rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo è, nella maggior parte delle economie, ai suoi massimi dal post Seconda Guerra Mondiale. Secondo l’FMI il debito globale dei governi in rapporto al Prodotto Interno Lordo è attualmente al 97%, con un incremento del 20% solo in rapporto al 2017. Nelle economie avanzate il debito pubblico in rapporto al PIL è stato superiore al 120% nel 2020, con il debito lordo degli Stati Uniti al 134%. Se si include il debito del settore privato, allora il debito globale ha raggiunto il 290% del PIL nel 2021, con un aumento del 40% rispetto al 2001 (18).

Nel grafico il rapporto tra debito globale – escluse le attività finanziarie – e PIL mondiale.

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Lo spettro del rialzo dei tassi di interesse è un vero e proprio cappio che va a stringersi al collo di proletariato e della piccola e media borghesia indebitata (già colpiti dall’aumento dei prezzi al consumo), oltre che degli stati più poveri e con un alto livello di esposizione.

Un recente report della Deutsche Bank mette in guardia sul rischio di una nuova recessione legata al fatto che

Ci vorrà molto tempo prima che l’inflazione torni all’obiettivo della FED del 2%. Questo suggerisce che la banca centrale alzerà i tassi di interesse in maniera così aggressiva che questo colpirà l’economia (19).

Esattamente un anno fa scrivevamo:

Non è uno scenario fantascientifico valutare che la mancata soluzione del debito privato di famiglie e imprese (come nel caso dei subrime del 2008) potrebbe essere alla base di una prossima nuova crisi finanziaria. Mutui, fidi, crediti al consumo, credito alle imprese, crediti a breve ecc., sono tutte forme di indebitamento privato e sono le forme di indebitamento che sostengono numerosissime tra le piccole e medie attività che chiudono con i lockdown, e che potrebbero non riaprire più. Un’insolvenza debitoria di massa potrebbe innescare il meccanismo dell’esplosione di una nuova bolla finanziaria. D’altro canto questo è esattamente il rischio a cui si va incontro quando, per far fronte alle contraddizioni di oggi, si sceglie – e questo è avvenuto dai ‘70 in avanti – di procrastinare le crisi facendo ricorso all’indebitamento fino al collo per gli anni a venire: poi accade l’imprevisto e tutto il castello di carta può crollare di punto in bianco e qualcuno potrà finalmente aprire gli occhi ed esclamare: il re è nudo (20)!

La guerra in Ucraina è un “imprevisto” molto significativo in tal senso.

La situazione è potenzialmente devastante, la capacità capitalista di procrastinare nel tempo la crisi attraverso il debito e la speculazione potrebbe essere arrivata ad un punto critico.

La “fine della globalizzazione” indica il limite che potrebbe aver raggiunto una delle principali controtendenze che il capitale ha posto in essere – nell’ultimo mezzo secolo - alla caduta del saggio del profitto che lo perseguita: l’abbattimento del costo del lavoro, l’aumento dello sfruttamento e la delocalizzazione di settori produttivi nelle aree del pianeta dove il costo del lavoro è più basso. Il recente e inedito aumento dei costi delle materie prime e delle merci potrebbero essere l’indicatore di tale limite. Da un lato questo può tradursi nel più o meno immediato affamamento del proletariato delle aree più povere del pianeta (anche nella metropoli), dall’altro nel riprendere a correre dell’inflazione. L’opzione del rialzo dei tassi di interesse quale risposta all’inflazione ha a sua volta la doppia conseguenza di stringere il cappio al collo di chi (pubblico o privato) ha contratto debiti e di aumentare nell’immediato la disoccupazione. Il proletariato è la classe sociale che più di ogni altra viene chiamata a pagare tali costi e, sebbene sia rimasto finora passivo, è prevedibile che una tale, brusca, spinta verso il baratro sociale ed economico possa riattivare la sua capacità conflittuale. Tutto questo se le cose procedono come stanno andando, senza ulteriori aggravamenti, nella nefasta ipotesi che, invece, deflagri una nuova crisi finanziaria o che, con o senza di essa, la spinta alla guerra trovi un accelerazione il proletariato sarà chiamato a pagare non solo in termini economici, di disoccupazione e fame, ma anche di coinvolgimento sui fronti bellici. A questi enormi problemi storici l’organizzazione dei rivoluzionari è chiamata a dare delle risposte politiche.

I militanti internazionalisti devono avere la capacità di collegare immediatamente la denuncia di queste contraddizioni con la concreta prospettiva del superamento del capitalismo quale unico piano di risoluzione possibile.

Nell’affrontare la risposta comunista a tutto questo non possiamo che partire dalla debolezza – o assenza – di risposte che la nostra classe sta dando a tale aggressione. Pochi i movimenti proletari, le manifestazioni, gli scioperi. Incredibilmente la guerra in Ucraina non ha nemmeno alimentato quel movimento pacifista (pur sempre interno alla logica capitalista) che pure aveva dato segnali di vita in occasione dell’invasione USA di Iraq prima e Afghanistan poi. Tale sostanziale assenza del proletariato dalla lotta di classe da un lato permette alla borghesia – e alle diverse borghesie nazionali – di sviluppare indisturbata le proprie politiche senza che la classe avversaria (i lavoratori salariati) le metta mai i bastoni tra le ruote. Tutto viene accettato più o meno passivamente e questo è un dato di stabilità prezioso per la sopravvivenza del capitalismo. Una delle rare eccezioni a tale passività è stata, per esempio, la rivolta contro il carovita in Kazakistan del gennaio scorso, cruentemente repressa dalle forze speciali russe nel silenzio quasi generale dei media occidentali: quando si tratta di reprimere la classe lavoratrice la borghesia ritrova immediatamente compattezza perché sa che la lotta di classe proletaria è il fattore che potrebbe condannarla a morte. Anche la rivolta in Sri Lanka di questo mese di maggio (con incendi di ville e alberghi di lusso) è stata innescata dal caro vita ed è ancora in corso nel momento in cui scriviamo.

L’altra conseguenza della debolezza di classe è il suo riflesso nella marginalità e ristrettezza numerica delle forze politiche che, in qualche modo, ad essa si richiamano. Di anno in anno le forze della sinistra si sono ridotte e questo è avvenuto con maggiore significatività nei paesi come l’Italia dove la lotta di classe è stata ai livelli più bassi. Il comunismo internazionalista, che già partiva da una forza numerica piuttosto esigua, non ha potuto che subire il medesimo contraccolpo, effetto del riflesso delle dinamiche strutturali nella sfera della sovrastruttura che è uno dei principi su cui si fonda la lettura materialistica della storia.

Tale debolezza impone ai rivoluzionari un estremo realismo. Se da un lato le indicazioni generali della necessità della rottura rivoluzionaria, dell’imprescindibilità dell’operatività di un partito di classe affinché questa si realizzi, dell’importanza del rilancio della lotta di classe e del disfattismo rivoluzionario quale indicazione politica nella lotta alla guerra, sono elementi fondanti la prospettiva internazionalista, dall’altro emerge sempre più chiaramente la necessità di impegnarsi su piccoli obiettivi politici e organizzativi che permettano, passaggio dopo passaggio, di rinforzare l’attuale avanguardia di classe.

Pertanto i punti di orientamento che il partito si dà sono indicazioni generali che poi devono trovare nei concreti territori e ambiti di riferimento la strada per affermarsi in progettualità politica concreta. Tra questi crediamo abbia particolare importanza la promozione dei comitati: “Contro la guerra imperialista, per la guerra di classe(21) che vuole essere una risposta sul piano dell’azione alla nuova fase che questa guerra ha aperto, nuova fase che temiamo avrà sempre più la guerra guerreggiata come elemento centrale della dinamica sociale ed economica mondiale.

Si tratta pertanto, dove e come possibile, di porre in evidenza come l’aggravarsi delle condizioni economiche del proletariato sia strettamente legata alla guerra e come la guerra sia guerra del capitale, conseguenza della sua crisi storica. Se all’interno dei futuri episodi conflittuali agiranno avanguardie internazionaliste le parole d'ordine generali del disfattismo, della lotta a tutti i nazionalismi, al pacifismo, potranno trovare finalmente terreno fertile, traducendosi in pratica reale di disfattismo rivoluzionario, cosa che, evidentemente, le singole realtà militanti non possono realizzare in mancanza di una forza sociale che renda operativamente significative tali indicazioni.

Il pallino, in attesa che la classe si muova – processo che non può in alcun modo essere artatamente favorito – ritorna a ciò che, sulla base della propria piattaforma di orientamento politico e dell’analisi della fase attuale i militanti possono realizzare. Le forze politiche della sinistra “tradizionale” o si sono schierate apertamente sui fronti della guerra (chi con la “resistenza Ucraina”, chi appoggiando più o meno velatamente la Russia in funzione anti NATO e anti USA) e in ciò si sono apertamente collocate sui fronti della guerra, oppure pur difendendo una genuina posizione di opposizione al capitalismo e a tutti i fronti della guerra, pagano lo scotto di decenni di velleitarismo teorico-politico e di fallimento a catena di un progetto politico (più o meno ambizioso) dopo l’altro. A questi ambiti ha sempre avuto senso guardare per favorire un processo di chiarificazione politica e di aggregazione su chiare basi di classe, oggi lo ha più che mai. Pertanto si tratta di:

  • denunciare il collegamento esistente tra peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e crisi capitalista, fino alla guerra come sua ultima e più caratteristica risposta;
  • favorire momenti di confronto, discussione e aggregazione nei quali le posizioni politiche internazionaliste possano circolare, offrendo una solida ancora di riferimento al disorientamento che caratterizza gli elementi di classe più avanzati;
  • dare continuità e struttura al lavoro di analisi, studio, propaganda e organizzazione al fine di creare situazioni organizzate più o meno direttamente di partito, a seconda dei casi, all’interno delle quali nuovi compagni possano trovare più facilmente una propria collocazione e attività nella prospettiva di realizzare le condizioni necessarie al raggiungimento del fine che tutti noi, in quanto rivoluzionari, perseguiamo: il comunismo.
Lotus

(1) Nel momento in cui scriviamo è in discussione il sesto pacchetto che però stenta a decollare a causa del previsto progressivo embargo al petrolio e prodotti raffinati provenienti dalla Russia, iniziativa caldeggiata dagli USA, ma che vede le perplessità tedesche e la ferma opposizione ungherese.

(2) consilium.europa.eu

(3) consilium.europa.eu

(4) Cfr. thenextrecession.wordpress.com

(5) ilsole24ore.com

(6) Dati e grafici sull’inflazione sono disponibili sul sito inflation.eu

(7) it.tradingeconomics.com (consultato il 14/05/2022)

(8) it.investing.com

(9) Indice prometea-apia, corriere.it

(10) corriere.it

(11) macrotrends.net

(12) corriere.it

(13) corriere.it

(14) macrotrends.net

(15) corriere.it

(16) corriere.it

(17) thenextrecession.wordpress.com

(18) thenextrecession.wordpress.com

(19) edition.cnn.com

(20) leftcom.org

(21) leftcom.org

Mercoledì, June 1, 2022

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.