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Home ›Le stragi infinite della borghesia
La borghesia ha sempre subordinato la salute e la vita della classe lavoratrice al profitto e solo accanite lotte ormai plurisecolari, condotte a prezzo di grandi sacrifici, hanno cercato di porre un freno, mai risolutivo né definitivo, all'uso spietato della forza-lavoro da parte del capitale.
Anche le innovazioni tecnologiche hanno avuto – come conseguenza secondaria - un ruolo nella limitazione della strage incessante e nel consumo sfrenato di vite proletarie nelle fabbriche e in qualunque altro luogo in cui si estorce plusvalore, ma, ancora una volta, in maniera parziale e temporanea. Anzi, più spesso, la nuova tecnologia, sottomessa alla valorizzazione capitalista, perpetua in forme “rinnovate” l'aggressione alle condizioni psico-fisiche dei lavoratori (maschi e femmine) compresa nel DNA del rapporto di sfruttamento, su cui poggia la società di classe.
Ogni tanto, se “l'incidente” coinvolge più lavoratori ed è particolarmente efferato – come nel caso del bracciante indiano lasciato a morire dissanguato dal padrone in provincia di Latina – esso si guadagna le prime pagine dei mass media, condite dall'ipocrita, ripugnante compianto della borghesia e dei suoi pennivendoli.
Ad essi si affiancano le forze sindacali che, nel migliore dei casi (si fa per dire) possono solo limitare più o meno significativamente alcuni effetti non collaterali dello sfruttamento capitalistico sulla salute della classe lavoratrice. Ma i pannicelli caldi del collaborazionismo sindacale sono impotenti a sradicare una volte per tutte la pratica dei sacrifici umani quotidianamente celebrata sull'altare del profitto. Al contrario, l'organica collaborazione con il nemico di classe gioca un ruolo non secondario nella difesa della società borghese. Uno degli aspetti più negativi del sindacalismo è quello di inoculare la menzogna che, in ultima analisi, gli interessi della classe operaia (intesa in senso lato) e quelli dei padroni - per natura opposti e inconciliabili – siano componibili nel cosiddetto “bene del Paese”, che lo sfruttamento sia identificabile solo nelle sue forme più brutali e, per così dire, spudorate – per es., l'inosservanza dei contratti di lavoro - quando invece è la sostanza del lavoro salariato, indipendentemente dal livello retributivo o dal rispetto del “diritto del lavoro”, nel diffondere l'illusione che il capitalismo sia addomesticabile.
Anche il sindacalismo “radicale”, benché certamente più combattivo di quello “maggioritario”, e per questo anche oggetto alla repressione dello stato borghese, non va oltre il terreno economicistico, quello della compravendita della merce forza-lavoro, mirando solo a strappare condizioni migliori in tale contrattazione. Ovviamente, non diciamo che la cosa in sé sia disprezzabile, anzi! – chi dice il contrario, mente – ma questo è per noi solo il primo passo di un percorso politico che deve mirare al superamento rivoluzionario del capitalismo; invece, per il sindacalismo “alternativo” i proclami anticapitalisti sono semplicemente ginnastica verbale che, per certi aspetti, ricorda il vecchio massimalismo di un secolo fa: non viene mai data né si lavora concretamente per una prospettiva politica volta ad archiviare il capitale e la sua società. Nessuna prassi sindacale – anche quando è lotta vera – tanto meno quella incentrata sull'aperta, sistematica collaborazione di classe, può rendere più umano un sistema sociale basato sulla disumanità, e che per questo deve essere cancellato dalla faccia della Terra. Le morti legate all'attività lavorativa ne sono una prova, una delle tante.
Nonostante i grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, anzi, anche per questo, il numero dei decessi, degli infortuni e di chi si ammala a causa del lavoro non è diminuito: al contrario, nell'ultimo quarto di secolo è continuamente aumentato, ben più, percentualmente, della crescita della forza lavoro (per lo più salariata) prodotta dalle delocalizzazioni nella “periferia”, frutto degli investimenti del capitale “Occidentale” o comunque in gran parte straniero. D'altra parte, i capitali internazionali che si sono diretti in Asia, America Latina ecc., sono stati attratti non solo dai salari molto più bassi, addirittura irrisori, rispetto al “centro”, ma anche dall'assenza delle più elementari norme sulla sicurezza, oltre che da un dispotismo padronale spesso illimitato, o quasi.
Secondo alcuni studi1, nei primi vent'anni di questo secolo, a livello mondiale la forza-lavoro industriale è cresciuta del 40% circa, quella dei servizi grosso modo del 60%, ma il numero delle morti per cause correlate al lavoro è praticamente triplicato. E' quello che emerge dai rapporti dell'ILO. Nel 1999, «ogni anno si registra più di un milione di decessi legati al lavoro, mentre centinaia di milioni di lavoratori nel mondo intero sono vittime di incidenti e sono esposti a materiali pericolosi nell'esercizio della loro professione»2. Sei anni dopo, un altro documento della stessa agenzia, che fa della collaborazione tra lavoro e capitale – ossia della sottomissione del primo al secondo – la sua ragione d'essere, calcola che le persone decedute siano 2,2 milioni, precisando un dato, per noi ovvio, che quelle cifre sono largamente sottostimate3. Portava l'esempio di alcune statistiche ufficiali secondo le quali nel 2002 i morti per cause di lavoro nella repubblica ceca erano 231, quelli dell'India, la cui forza lavoro era cento volte più numerosa, 222.
Se non si fatica a credere che le statistiche indiane o di altri paesi “emergenti” sono praticamente inservibili, anche quelle dei paesi cosiddetti avanzati sono da prendere con beneficio d'inventario, per i criteri spesso superficiali e lacunosi con cui vengono effettuate le rilevazioni; non da ultimo, per la cronica mancanza di personale ispettivo che faccia rispettare in maniera meno estemporanea le leggi teoricamente a tutela della forza-lavoro.
Diciotto anni dopo, sempre l'ILO indica in quasi tre milioni le morti direttamente causate dal lavoro, solo in minima parte riconducibili agli “incidenti”: «La maggior parte di questi decessi legati al lavoro – 2,6 milioni di vittime – è dovuta a malattie professionali […] gli infortuni sul lavoro rappresentano ulteriori 330.000 decessi. Le malattie circolatorie, le neoplasie maligne e le malattie respiratorie figurano tra le prime tre cause di morte correlate al lavoro. Insieme, queste tre categorie rappresentano oltre tre quarti della mortalità correlata al lavoro»4. Se si escludono i decessi, «l'OIL stima che 395 milioni di lavoratori in tutto il mondo abbiano subito infortuni sul lavoro non mortali»5. Notare che si parla di infortuni: le patologie senza esito mortale causate dall'estorsione di plusvalore sono almeno il doppio.
Tra coloro a cui viene estorto il plusvalore, bisogna includere anche quei soggetti - centinaia di milioni – definiti dalle statistiche istituzionali “indipendenti” o “autonomi”, perché in moltissimi casi, tanto nella “periferia” quanto nel “centro” sono di fatto inseriti nel processo di valorizzazione del capitale e differiscono solo formalmente dalla forza-lavoro ufficialmente salariata.
L'aumento delle ore lavorate è tra i fattori principali della crescita dei decessi e delle patologie, e questo vale sia per le regioni delle “delocalizzazioni” che per quelle di più vecchia industrializzazione, dove, se mai, le nuove tecnologie hanno un peso maggiore nel minare la salute della classe lavoratrice. Queste tecnologie, che secondo la propaganda borghese avrebbero migliorato sensibilmente la vita delle persone dentro e fuori il lavoro, in realtà tendono a risucchiare spazi sempre più grandi della giornata extra-lavorativa nei meccanismi di valorizzazione capitalista, con il conseguente aumento delle malattie cardiovascolari e mentali legate allo stress di un tempo di lavoro “infinito”. Ancora una volta, lasciamo parlare l'ultra-riformista ILO: «La generalizzazione del telelavoro, delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, così come la recrudescenza degli impieghi flessibili, temporanei o indipendenti, hanno accentuato la tendenza a lavorare per lunghe ore. Essa ha anche portato alla cancellazione delle frontiere tra tempo di lavoro e periodi di riposo»6.
La pandemia di covid, come ben sappiamo, ha accelerato questi processi, oltre a provocare la morte di tanti lavoratori costretti a lavorare nelle fabbriche, nei magazzini ecc., a spostarsi su mezzi pubblici sovraffollati come sempre, senza beneficiare di quelle misure protettive basilari che avrebbero almeno attenuato il rischio di contagio. Per inciso, in Italia il tasso di infezione e quindi di morte legato al lavoro era tra i più alti d'Europa, il 19,4%, contro il 3% della Finlandia7.
Altri elementi, figli degli sconvolgimenti prodotti dal processo di accumulazione negli ultimi decenni, hanno pesanti ricadute sulla forza-lavoro.
La catastrofe climatica in cammino mette a rischio la salute di miliardi di lavoratori8, ma anche il degrado sociale, figlio della crisi pluridecennale del capitale, colpisce settori di forza-lavoro con manifestazioni un tempo impensabili: si moltiplicano le aggressioni al personale sanitario o a quello dei trasporti pubblici, divenuti il parafulmine di un malessere sociale profondo ma incapace di dirigersi sul vero responsabile – la borghesia - di una vita così piena di frustrazioni e difficoltà da essere svuotata di senso.
Che dire, poi, delle molestie sessuali e degli stupri subiti in primo luogo – ma non solo – dai settori più deboli del proletariato femminile, cioè le donne migranti, commessi da padroni che possono contare su un'impunità quasi certa?
L'aumento delle morti e delle patologie legate al lavoro, proporzionalmente più grande dell'aumento quantitativo della classe lavoratrice, è una delle manifestazioni tra le più drammatiche della crisi del ciclo di accumulazione – causata dal declino del saggio di profitto – che si trascina da mezzo secolo e che spinge a intensificare lo sfruttamento in tutte le sue forme, eliminando quegli ostacoli che possono frenarlo, tra cui le misure che salvaguardano – più poco che tanto – la salute psico-fisica della nostra classe. Non è un caso che la pratica del subappalto completamente deregolamentato, con tutto quello che comporta in termini di salario, brutalità e dispotismo padronali - prassi abituale nella “periferia” - sia incoraggiata da leggi che si diffondono sempre più anche nel “centro”, dove, per altro, è sempre esistita.
Sono decenni che la borghesia attacca la nostra classe, la “working class”, spingendola in una condizione di grave debolezza.
Ristrutturazioni, cioè forte ridimensionamento delle grandi concentrazioni operaie in “Occidente”, risorte però spesso in dimensioni ancora più grandi in Asia, America Latina ecc.; la precarietà dilagante ossia la sottoccupazione, i bassi salari, molto spesso anche al di sotto del valore della forza lavoro - insufficienti ad arrivare a fine mese – la predazione del salario indiretto e differito, vale a dire lo “stato sociale”; il sindacalismo “maggioritario”, a cui aderisce il grosso della forza-lavoro sindacalizzata, integrato da molto tempo nelle istituzioni borghesi; quello “alternativo” inchiodato su un intervento puramente economico-normativo, che esercita un radical-riformismo dal respiro cortissimo, ma che trova spazi per recuperare – non senza lotte – un livello di sfruttamento “medio” in quei settori di proletariato in cui per anni il padronato ha spadroneggiato, oltre la stessa legalità borghese, imponendo condizioni di lavoro semi-schiavistiche. Di questo è fatta la debolezza proletaria.
Ma è fatta anche, e non certo per ultimo, dalla mancanza di un punto di riferimento politico organizzato – il partito rivoluzionario internazionale – con radici nella classe o almeno nei suoi elementi più sensibili e combattivi. Lo stalinismo e poi il suo crollo hanno dato un contributo incalcolabile nel rendere le avanguardie comuniste “clandestine” alla classe. Il loro sviluppo, il loro radicamento nel loro habitat naturale, il proletariato, è l'obiettivo irrinunciabile se si vuole farla finita con la strage senza fine sul posto di lavoro, con le guerre dell'imperialismo, con la distruzione dell'ecosistema: in breve, con la società borghese.
cb
Note
1Vedi, per esempio, Kim Moody, Les mondes du travail à l'échelle mondiale, Echanges, n. 185, hiver 2023-24. I dati sono sostanzialmente simili ad altri studi, meno o per niente militanti, tra cui quelli dell'ILO (Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia dell'ONU).
2_Le BIT estime à plus d'un million par an le nombre de décès d'origine professionnelle_, 12 aprile 1999, in www.ilo.org, sezione in francese.
3_Le nombre de décès liés au travail est largement sous-estimé_, 18 settembre 2005.
4_Quasi tre milioni di lavoratori muoiono ogni anno a causa di infortuni sul lavoro e malattie professionali,_ sezione italiana dell'ILO, 27 novembre 2023.
5Ibidem.
6_Selon l'OIT et l'OMS le longues heures de travail peuvent augmenter le nombre de décès dus aux maladies cardiaques et aux AVC_ [episodi vascolari cerebrali], 17 maggio 2021.
7_Les lesions et les maladies liées au travail et le COVID-19_, journal de recherche syndicale, 2021/Vol 10/N0 1-2.
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