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Home ›Referendum: lotta di matite o lotta di classe?
Ci risiamo. L'8 e il 9 giugno si celebrerà nuovamente il rito del referendum, considerato l'espressione più diretta della volontà popolare, chiamata a esprimersi su questioni che toccano aspetti molto importanti della vita di milioni di “cittadini”. Ancora una volta, la mistificazione della bugiarda democrazia borghese verrà messa in campo per mascherare i rapporti sociali di classe, confondere e distogliere la coscienza proletaria da quelli che sono i veri strumenti di difesa/attacco contro un sistema di sfruttamento e di potere, che i referendum non vogliono abolire, ma tutt'al più addolcire. Eterna illusione del riformismo, che diventa ancora più inconsistente nella nostra epoca, caratterizzata dalla crisi profonda, strutturale del capitalismo, per cui i margini di miglioramento delle condizioni generali della classe operaia (intesa come lavoro salariato), vale a dire per un'attenuazione (limitata e temporanea) dello sfruttamento, sono pressoché inesistenti e, in ogni caso, sempre più ristretti. Avviene se mai il movimento opposto, cioè il padronato – anche e non da ultimo attraverso i suoi organismi statali – deve aggredire il lavoro salariato, per spuntare quei margini di profitto che gli permettano di sostenere una concorrenza sempre più aspra.
Com'è noto, i quesiti referendari sono cinque e qui li richiamiamo sinteticamente per punti, presi dal volantino informativo-propagandistico della CGIL, la principale promotrice dei referendum1. 1) “Stop ai licenziamenti illegittimi”, 2) “Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese”, 3) “Riduzione del lavoro precario”, 4) “Più sicurezza sul lavoro”, 5) “Più integrazione con la cittadinanza italiana”. In testa, c'è il ripristino del reintegro nel posto di lavoro, in caso di licenziamento dichiarato da un giudice illegittimo, come prevedeva l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (1970)2. In pratica, una botta al Jobs Act3 di Renzi – 2015 - quando guidava il PD e un governo di centro-sinistra, la stessa coalizione, grosso modo, che adesso recita il mea culpa – ma con ampie eccezioni... - e appoggia l'iniziativa sindacale.
I tre punti successivi si collocano nel solco del primo, per rendere un po' meno aspro il dispotismo padronale, senza mettere in discussione l'impianto complessivo del rapporto di sfruttamento e di dominio esercitato sulla forza lavoro, su cui si fonda la società borghese. Per esempio, nelle imprese con meno di 16 dipendenti, il licenziamento anche senza giusta causa va regolato meglio: si esclude il reintegro, ma “aumentiamo l'indennizzo sulla base della capacità economica dell'azienda, dei carichi familiari e dell'età della lavoratrice e del lavoratore”. In breve, se un padroncino, magari particolarmente carogna, riesce a dimostrare che la sua azienda ha scarsa “capacità economica”4, può cavarsela con un indennizzo da quattro soldi al licenziato. Lo stesso vale se chi è sbattuto fuori è giovane e non “tiene famiglia”: insomma, comprensione per chi ha subito il licenziamento, ma anche per l'azienda, perbacco!
Idem per quanto riguarda la precarietà: non si chiede la cancellazione di questa pratica, ma solo una limitazione delle forme più spinte. D'altra parte, la precarizzazione della forza lavoro da anni è diventata un pilastro irrinunciabile – per la borghesia – del rapporto di lavoro salariato (e finto autonomo), perché assieme alla riduzione del salario è una delle risposte più efficaci del capitale alla caduta del saggio di profitto, il fattore all'origine degli sconvolgimenti che investono la società mondiale da mezzo secolo in qua. Precarietà e bassi salari vanno quasi sempre insieme, anche se i secondi non sono necessariamente determinati dalla prima, come dimostra la tendenza pluridecennale alla diminuzione della quota salariale sul PIL in Italia, in Europa e nel mondo. Eliminare la precarietà dal rapporto capitale-lavoro significherebbe rendere ancora più acuta la malattia inguaribile di cui soffre il capitale – l'insufficiente saggio di profitto, appunto - amplificando e accelerando le spinte distruttive insite nel sistema. Né il sindacato né la sinistra borghese vogliono questo, il loro obiettivo è da sempre conciliare l'inconciliabile: borghesi e proletari, sfruttatori e sfruttati, come dimostra per l'ennesima volta il contenuto dei quesiti referendari.
Il discorso non cambia per la sicurezza sul lavoro: è vero che l'ulteriore liberalizzazione degli appalti ha reso volutamente più complicati i già scarsi controlli sulle imprese, per cui, di fatto, crea un ambiente più favorevole al cosiddetto incidente sul lavoro, ma anche prima di questa legge criminogena il numero di persone morte per il profitto si è sempre mantenuto alto, perché la riduzione delle spese per la sicurezza – banale sottolinearlo – pompa ossigeno nei polmoni affaticati della “redditività aziendale”.
Infine, la questione della cittadinanza degli immigrati ha sì un risvolto di classe, in quanto l'esclusione dagli stessi diritti borghesi di milioni di persone (in grande maggioranza proletariato) le rende più ricattabili da parte del padrone, però è vero, come dice strumentalmente il ciarpame fascistoide al governo, che il centro-sinistra avrebbe potuto, quando governava, abbreviare il percorso per l'acquisizione della cittadinanza, e non l'ha fatto. Ma, di questi tempi, un bacino di potenziali elettori non è da disprezzare, anche se non è detto che i “neo-cittadini” voterebbero in massa per il centro-sinistra.
In ogni caso, è chiaro che il referendum è uno strumento della CGIL e del centro-sinistra per cercare di riconquistare almeno parte di quel consenso politico-elettorale della classe lavoratrice, ampiamente perso, dilapidato dai loro numerosissimi misfatti commessi ai danni del proletariato, di cui il Jobs Act è un esempio. Tra parentesi, forse qualcuno ricorderà che, allora, la reazione del sindacato fu molto blanda, giusto per cercare di salvare, inutilmente, la faccia. Quello che non erano riusciti a fare i radicali nel 2000 col loro referendum liberista brutalmente anti-proletario, l'ha fatto quindici anni dopo un governo detto di sinistra, preceduto da un crescendo di leggi anti-operaie emanate da governi di ogni colore.
Il referendum è anche e non da ultimo un azzardo politico: visto l'astensionismo crescente negli anni, la vittoria sarebbe nel raggiungere il quorum, perché è probabile che vincerebbero i SI. In questo caso, le forze promotrici si intesterebbero il ruolo di concreti difensori della classe lavoratrice. In caso contrario, di sconfitta o di mancato raggiungimento del quorum - cosa tutt'altro che remota, visto il silenzio delle reti televisive, “pubbliche” e private – potrebbero dire che è stata la volontà democraticamente espressa dei cittadini a volere mantenere le cose come stanno, nonostante il loro impegno. Il governo, invece, si sentirebbe ancora più incoraggiato all'emissione dei suoi “decreti sicurezza”, delle leggi che estendono la precarietà e l'impunità padronale per gli omicidi sul lavoro, che danno una spinta in più all'impoverimento della classe lavoratrice, alla devastazione dell'ambiente, come il capitale comanda. In ogni caso, gli uni e gli altri avrebbero la coscienza (?) in pace, perché santa democrazia borghese ha fatto il suo corso.
Questo è il punto, il cuore dell'inganno: la democrazia borghese garantisce l'uguaglianza a tutti i “cittadini”, ma è un'uguaglianza puramente formale. Chi, del proletariato, andrà a votare ci andrà allo stesso titolo, per così dire, di un banchiere, di un industriale, di un ricco professionista, di chi evade quelle stesse imposte con cui i governi li sovvenzionano, li coprono di incentivi, di esenzioni contributive. Chiedere a un capitalista se è favorevole alle più varie forme di sfruttamento è non solo superfluo, ma una presa in giro per chi subisce lo sfruttamento. Noi, ovviamente, non siamo indifferentisti e capiamo bene che la “cittadinanza” proletaria che voterà lo farà per contrastare l'arroganza, l'impunità, la dittatura padronali, ma da comunisti è nostro dovere ribadire, anche a costo di essere tacciati – a torto – di estremismo inconcludente, che la matita copiativa non solo non può sostituire la lotta di classe, ma, appunto, fa nascere amare illusioni. Lo sottolineiamo ancora: la democrazia borghese è uno strumento per confondere, disorientare e spingere su un binario morto la volontà di lotta o il semplice istinto di classe del proletariato5. L'urna elettorale in cui si infila la scheda è l'urna funeraria della lotta di classe, quella vera: scioperi senza preavviso, oltre e contro la prassi concertativa o comunque rispettosa delle compatibilità capitalistiche tipica del sindacalismo; scioperi guidati da comitati eletti direttamente da chi sta lottando, che si sforzano di estendere ad altri settori di classe, nel territorio, le ragioni e la pratica della propria lotta contro altri rappresentanti del capitale. Solo così si può rispondere efficacemente all'aggressione padronale, che non sarà certo fermata né rallentata da una consultazione “democratica”, solo così si può creare quel “clima” in cui le sparute avanguardie rivoluzionarie possano fare nuovamente attecchire il programma non della limitazione della precarietà e dello strapotere padronale, delle discriminazioni antiproletarie, ma del superamento, una volta per tutte, del sistema sociale che di quello vive.
cb
1Ma anche il cosiddetto sindacalismo conflittuale sostiene il referendum: chi “criticamente”, come l'USB, chi “tra le righe”, come il SiCobas.
2Ricordiamo che l'applicazione dell'articolo 18 vale ancora per chi è stato assunto prima del 6 marzo 2015.
3C'è da dire, però, che l'eventuale vittoria dei SI, non ripristinerebbe l'articolo 18 com'era nella versione originale del 1970, perché già la riforma Fornero l'aveva parzialmente intaccato, restringendo i casi della sua applicabilità.
4Il che non è un ostacolo insormontabile, vista l'enorme evasione/elusione fiscale, peraltro incoraggiata dal governo.
5Peraltro, mai la borghesia ha rispettato l'esito dei referendum, se non lo gradiva. Ci sono le eccezioni di quelli indetti su questioni largamente e trasversalmente accettate dalla società, come il divorzio e l'aborto (anche se questo è tuttora fortemente ostacolato...) o frutto di più che legittime paure, come i referendum sul nucleare, tenuti poco dopo i disastri di Cernobyl e Fukushima; ma anche sul nucleare, la borghesia torna periodicamente all'attacco.
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