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Pubblichiamo alcune riflessioni di un compagno lettore che toccano, in sintesi ma non superficialmente, questioni fondamentali per la prospettiva rivoluzionaria, anche se, come nel primo pezzo, possono sembrare – ma solo sembrare – secondarie: si sa che in certe circostanze, la forma è anche sostanza.
RIFLESSIONI AD MINCHIAM?
Il fenomeno dei personalismi piccolo-borghesi all’interno dell’area internazionalista, soprattutto in seguito ai processi controrivoluzionari del Novecento, rappresenta una delle principali cause di frazionamento sterile e paralisi politica. Invece di una coerenza organizzativa fondata su principi, teoria e prassi rivoluzionaria, ci si trova spesso davanti a un panorama frammentato, dove gruppi e micro-sette nascono e muoiono nel nome non della necessità storica, ma dell’ego individuale travestito da ortodossia.
Molti militanti, spesso provenienti da un retroterra culturale piccolo-borghese, incapaci di una vera rottura con la loro formazione sociale, sublimano i propri fallimenti personali o frustrazioni esistenziali nell’attività politica, trasformando l’organizzazione rivoluzionaria in una sorta di terapia personale. Questo atteggiamento produce una dinamica distruttiva: ogni divergenza teorica o tattica viene assolutizzata, ogni conflitto assume un tono moralistico, ogni compromesso viene vissuto come un tradimento. Così si sviluppano le scissioni feticistiche, le "scomuniche", la farsa del gruppo perfettamente puro che si pone come unica avanguardia, incapace però di agire nella realtà.
Tutto ciò accade mentre la storia incalza. Le condizioni materiali del capitalismo globale, la crisi ecologica, le guerre interimperialiste e l’atomizzazione sociale chiederebbero un’applicazione furiosa, rigorosa e collettiva alla prassi rivoluzionaria. E invece, in troppi casi, si assiste a una ritualizzazione sterile dell’attività politica, dove il confronto interno è sostituito da guerre d’ego e la costruzione organizzativa da un autismo ideologico.
In sintesi: il problema non è la divergenza, che è naturale e spesso necessaria, ma la sua gestione nevrotica e personalistica. Occorre una rottura esplicita non solo con la società borghese, ma anche con le forme mentali e comportamentali che essa imprime nei soggetti. La rivoluzione non è un’estensione dell’io: è la sua negazione storica.
L IMPERIALISMO MODO DI ESSERE DEL CAPITALISMO
L’idea che la vittoria dell’imperialismo più debole possa favorire il processo rivoluzionario è una posizione che ha avuto una certa influenza nei movimenti comunisti del Novecento, in particolare tra alcune correnti della sinistra comunista. Essa parte da una logica dialettica: indebolire l’imperialismo dominante, quello più sviluppato e più efficiente nel controllo economico, militare e culturale, significherebbe aprire una crisi più ampia nel sistema capitalistico globale, e quindi creare condizioni più favorevoli per l’azione rivoluzionaria del proletariato.
Tuttavia, questa tesi presenta limiti teorici e pratici evidenti.
In primo luogo, essa sottovaluta il carattere sistemico dell’imperialismo. Ogni polo imperialista, sia esso dominante o marginale, agisce per la riproduzione del capitale su scala globale. La logica imperialista non si attenua col diminuire della forza, semplicemente si manifesta con minori mezzi. Pensare che un imperialismo più debole possa offrire uno sbocco alla lotta di classe significa confondere debolezza militare o economica con debolezza strutturale del dominio borghese, che invece può essere anche più feroce laddove lo Stato è più instabile.
In secondo luogo, l’idea di sfruttare la vittoria dell’imperialismo più debole per far avanzare la rivoluzione implica un rapporto passivo e indiretto tra proletariato e rivoluzione stessa. È come se l’iniziativa rivoluzionaria non dipendesse dalla forza politica e organizzativa della classe lavoratrice, ma da un gioco di equilibri geopolitici. Questo è un ribaltamento del materialismo storico, che pone al centro i rapporti sociali e di produzione, non la scacchiera delle potenze. La rivoluzione, invece, può emergere solo come espressione autonoma della lotta di classe proletaria, non come effetto collaterale di una guerra tra Stati.
In terzo luogo, questa posizione rischia di scivolare in una forma di campismo mascherato, in cui si finisce per giustificare o legittimare la vittoria di uno schieramento imperialista in funzione di un presunto vantaggio tattico. La storia ha mostrato, ad esempio, come la vittoria dell’URSS nella Seconda guerra mondiale, pur rappresentando la sconfitta del nazifascismo, non abbia portato ad alcuna reale avanzata rivoluzionaria su scala globale, anzi, ha spesso consolidato regimi autoritari e compromessi, a capitalismo di Stato, che hanno soffocato il movimento operaio sotto il tallone di ferro della borghesia di stato.
Infine, occorre considerare il costo umano e sociale di queste guerre tra potenze. Pensare che milioni di morti, deportazioni, devastazioni e crisi umanitarie possano essere strumenti indiretti della rivoluzione significa disumanizzare la prospettiva rivoluzionaria stessa, riducendola a calcolo strategico. La rivoluzione comunista non può fondarsi sul sangue versato tra le nazioni, ma sull’organizzazione cosciente della classe lavoratrice contro tutte le guerre imperialiste.
In conclusione, l’idea che sia utile, ai fini della rivoluzione, la vittoria dell’imperialismo più debole è una visione meccanicistica, geopoliticizzata e pericolosamente eterodiretta della lotta di classe. Essa sposta l’iniziativa rivoluzionaria fuori dalla classe, e la colloca in un terreno, quello dello scontro tra Stati, che è intrinsecamente borghese. La vera alternativa rimane quella di opporsi a tutti gli imperialismi, trasformare ogni guerra in guerra di classe, e costruire, qui e ora, l’autonomia politica del proletariato internazionale. In breve, costruire/sviluppare l'organo indispensabile della lotta di classe, senza il quale mai il proletariato potrà archiviare questa società disumana: il partito rivoluzionario a scala mondiale.
M
PS Banalmente, si potrebbe semplicemente premettere che il capitalismo più forte, essendo più forte, probabilmente vincerebbe la guerra...
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