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Democrazia, democratico, democraticamente: termini usati e abusati da molto tempo e oggetto di polemiche spesso buffe fra chi rinfaccia l'un l'altro di essere o agire "anti".
Vediamo così le forze politiche di sinistra accusare la destra di essere antidemocratica e di attentare alla democrazia per le pratiche politiche che quella attua, e la destra rivendicare il diritto propriamente democratico a rappresentare la volontà degli elettori, finalmente liberatisi di quel consociativismo che aveva di fatto bloccato il regime, rendendolo perciostesso antidemocratico.
Fumo: gli uni e gli altri sciacquandosi la bocca di democrazia ne hanno mostrato nei fattii la vera natura di forma di governo dello stato borghese, con tutto ciò che questo comporta. E cioè:
- dominio incontrastato delle logiche capitalistico-borghesi sulla massa dei cittadini dal punto di vista ideologico e politico;
- dominio incontrastato di quelle stesse logiche nella conduzione dello stato e degli affari politici.
Ormai fiumi di letteratura scorrono nelle librerie e nelle edicole ad illustrare le varie forme che tale dominio assume nei diversi campi. Basteranno alcuni cenni riassuntivi.
Corruzione...
È stata abbattuta la cosiddetta Prima Repubblica nella quale, dice la destra, la corruzione e la estorsione da parte dei partiti nei confronti dei poveri imprenditori erano ormai divenute sistemi normali di amministrazione della cosa pubblica. La corruzione è un fatto reale, ma come giustamente osserva qualcuno, l'idea che il sindaco di un comune ricatti le imprese multinazionali è credibile come il ricatto che potrebbe esercitare sul gestore di una catena di ipermercati la vecchina che volesse del polmone gratis per i suoi gatti. (1)
In altri termini, i grandi imprenditori continueranno a comprarsi la linea politica di governi e amministrazioni, così come fanno in tutti gli stati, magari portati ad esempio dai nostri "moralizzatori".
D'altra parte, e ancor prima di esaminare i fenomeni di insieme sul piano complessivo della fenomenologia borghese, cioè della formazione sociale capitalistico-borghese, è sufficiente a proposito di corruzione, una osservazione quasi banale, articolata su pochi elementi.
- Chiunque procacci un affare a una azienda ha il diritto, spesso sancito dalla legge, a una ricompensa, chiamata elegantemente provvigione, più rudemente mazzetta, nella misura del 10-15 per cento dell'ammontare dell'affare medesimo.
- È luogo comune nelle formazioni capitalistiche che colui che, potendo arricchire, non arricchisce è fesso e che scopo principale dell'esistenza del cittadino è dotarsi dei mezzi per consumare quanto più possibile.
- Su questa medesima linea qualunque favore fatto a chiunque non sia un congiunto stretto (e a volte anche in questo caso) tende a essere monetizzato, venduto come una qualunque merce.
Perché mai il cittadino che si ritrova a svolgere funzioni di governo e/o amministrative dovrebbe uscire dalla norma e negarsi le provvigioni per gli affari che procura o per i favori che fa?
Perché ricopre una funzione pubblica, risponde il solito idealista; una funzione dalle caratteristiche "superiori" che in quanto tale deve essere svolta in modo...superiore e comporta vincoli morali ineludibili.
È vero: anche nella legge morale della borghesia è scritto che il politico amministra l'interesse della collettività mettendo questo al di sopra di tutto.
In una legislazione perfetta, la volontà privata o individuale deve essere nulla; la volontà del corpo, propria del governo, assai subordinata e per conseguenza la volontà generale o sovrana sempre predominante e costituente la regola unica di tutte le altre. (2)
Ma... Questo poteva valere agli albori dello stato borghese (e anche allora in realtà le cose andavano in modo leggermente diverso) quando la borghesia assegnò allo stato il compito di amministrare i suoi interessi generali come classe attraverso la mediazione fra le diverse stratificazioni sociali e della stessa classe borghese, astraendo dagli interessi del singolo capitalista e garantendo quindi il libero gioco della concorrenza.
Lo scopo di affermare lo stato della borghesia contro le vestigia del feudalesimo nell'assolutismo era allora prevalente e doveva necessariamente prevalere anche l'etica che scaturisce dallo slancio rivoluzionario.
Da allora la concentrazione è avanzata fino al monopolio e alle multinazionali. E ciò ha comportato lotte asperrime fra le stesse frazioni borghesi, combattute mediante confronti di forza finanziaria, innanzitutto ma anche politica e fisica. Vale la pena ricordare la nascita del fascismo : espressione prima della piccola borghesia urbana e dei potentati agrari, si trasformò, appena al potere, in agente politico del grande capitale monopolistico ed espressione degli interessi di questo, fino a quando al grande capitale andò bene così - salvo buttarlo a mare per abbracciare la democrazia cristiana, al mettersi male del conflitto.
Lo stato si rafforza dunque dunque, come espressione degli interessi delle forze dominanti della stessa borghesia, che si muovono al di fuori dei "vincoli morali" (al di sopra pensano loro) e che comprano normalmente i rappresentanti del potere politico.
Il contesto delle elezioni democratiche
D'altra parte le stesse elezioni sono un vero e proprio mercato in cui la combinazione vincente è fatta prima di tutto di potere economico - condizione prioritaria della stessa presenza sul mercato - e, in subordine, gli altri fattori quali la attrattività della merce esposta, la capacità di presentarla in modo adeguato alla vendita, la simpatia del venditore.
È sempre stato così: quel che è cambiato è la scena del mercato, le sue forme.
Agli albori del mercato elettorale, presupposto che lo stato è strumento della classe dominante, è la borghesia che praticamente in esclusiva si riserva il diritto di decidere chi debba governare. Il suffragio universale, poiché giudicato pericoloso dalla borghesia, diviene obiettivo di rivendicazione da parte del movimento operaio.
La contesa sul suffragio universale fra movimento socialista e borghesia è tale da offuscare, il dato di fondo, esplicitato dai fondatori del socialismo scientifico, cosicché si scambia quella contesa come il punto focale della lotta proletaria: dare il voto alle masse proletarie significa porre le basi di un passaggio pacifico al socialismo.
É lo stesso Engels a scrivere, nella Critica al Programma di Erfurt:
Si può immaginare che la vecchia società possa svilupparsi nella nuova per via pacifica, in paesi nei quali la rappresentanza popolare ha concentrato in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di fare ciò che si vuole quando si ha dietro di sé la maggioranza del popolo, in repubbliche democratiche come la Francia e l'America... (12)
A queste frasi si sono furbescamente aggrappati gli intellettuali funamboli dello stalinismo, o neo-socialdemocrazia, per sostenere di tutto: dalle vie nazionali al socialismo, alle bischerate sulla democrazia di tipo nuovo.
Engels evidentemente sbagliava. Ma attenzione, non perché era sbagliato il metodo che applicava e da lui istituito insieme a Marx, ma perché in quegli specifichi scritti polemici lo abbandonava.
Non interessa qui fare l'esegesi dei testi, cara a volte ai funamboli perché favorevole alla attribuzione a chiunque di qualunque idea; più solidamente, basta ricordare l'esame tipicamente marxista della trasformazione del potere formale in potere reale del capitale, nelle sue formazioni sociali.
Se la borghesia francese inglese e americana avevano organizzato lo stato democratico, è perché la loro formazione sociale era sufficientemente matura per questo, vale a dire che in quelle formazioni sociali, e più che in Germania, la sussunzione dell'individuo al capitale era sufficientemente avanzata da assicurare incontrastato il dominio ideologico e politico conseguente al dominio economico e sociale (rimandare al principio, per i marxisti banale, enunciato nella Ideologia tedesca circa le idee dominanti che sono le idee della classe dominante).
Questo rendeva impossibile la conquista della maggioranza per via democratica, da parte del programma socialista. Quanti avessero conquistato la maggioranza l'avrebbero fatto a scapito del programma stesso; assumendo e facendo propria cioè l'ideologia borghese e un programma politico-economico compatibile con la conservazione del capitale. I casi dei laburisti inglesi, dei socialisti in Francia, dei socialdemocratici in Germania sono, ci pare adeguatamente significativi.
Già vent'anni dopo lo sfortunato scritto di Engels era infinitamente più chiara la verità dei principi enunciati da Marx ed Engels: stato di classe; dominio reale del capitale; sussunzione del cittadino alle regole della formazione sociale di appartenenza; rottura di tutto ciò, e affermazione del programma comunista, solo nei momenti rivoluzionari e nel corso della rivoluzione stessa (in cui il proletariato abbandona per sempre la vecchia merda - Marx).
Il mercato elettorale
Dai primi decenni del secolo, nelle formazioni sociali metropolitane la contesa politica istituzionale è fra quanti dispongono di mezzi finanziari e organizzativi per presentarsi sul mercato elettorale. E già allora questo comportava o grandi mezzi finanziari e il controllo politico di istituzioni quali la chiesa, le scuole, i giornali, oppure una macchina organizzativa sufficientemente grande e oliata da contrastare efficacemente tali istituzioni e tale potere.
Grande organizzazione significa grandi numeri di uomini e donne attratti dal programma politico o dalla ideologia supportata da quella organizzazione. É questa dunque una condizione impossibile per il programma rivoluzionario che:
- è esterno alle istituzioni politiche borghesi e a esse nemico
- in quanto momento politico di negazione dell'esistente, è estraneo al suo muoversi e necessariamente "confinato" ad avanguardie più o meno esigue, comunque impossibilitate alla competizione elettorale.
É possibile invece a quanti, abbandonato il programma rivoluzionario, si fanno mediatori degli interessi immediati del proletariato all'interno delle istituzioni. La rappresentanza politica all'interno di istituzioni per loro natura di mediazione non può che essere appunto di mediazione. E lo stato borghese, non a caso definito dopo Rousseau contrattualistico, media appunto fra le diverse stratificazioni sociali per garantire la continuità della formazione borghese, fondata sul modo di produzione capitalistico, non certo per consentire il superamento proprio e del modo di produzione stesso.
La competizione politica avveniva comunque sul terreno del confronto del cittadino con i programmi e le idee politiche che si esprimevano nella società, una società "semplice", in cui il singolo è immerso senza mediazioni tecnologiche, mediante il confronto diretto con altri individui nella collettività di lavoro o ricreativa, al bar al circolo o in qualunque altra situazione in qualche modo collettiva.
Era allora importante per le forze politiche essere presenti in quelle situazioni collettive, per condurre la battaglia con le armi di cui disponevano. Il clientelismo diretto, (una scarpa prima del voto, l'altra dopo) proverbiale a Napoli, comportava disponibilità finanziarie enormi, non a caso provenienti spesso dal di fuori della organizzazione politica stessa: i milioni di dollari americani alla Dc servivano anche a questo, oltre che alle altre più raffinate forme di clientelismo e a tessere la trama di alleanze e complicità con le più diverse istituzioni. La "battaglia delle idee" della sinistra comportava invece avere molti attivisti - operativi sul territorio e supportati da sedi, pubblicazioni, manifesti - e forme più moderne di clientelismo, una volta assicuratesi alcune amministrazioni locali.
Oggi il mercato elettorale è ulteriormente mutato, a seguito di importanti mutamenti avvenuti nell'assetto della vita civile, a loro volta determinati dalle profonde innovazioni tecnologiche.
La televisione (notizie e spettacoli a casa), indipendentemente dai giudizi di valore non solo ha di fatto eliminato dalla pratica e dalle aspirazioni delle grandi masse il teatro e il cinema, ma ha ridotto grandemente gli spazi di vita sociale e collettiva. Da ideale mezzo di avvicinamento fra l'individuo (o il nucleo familiare) e il resto del mondo, si è trasformata immediatamente in rappresentazione domestica del "resto del mondo", capace di sostituirlo.
Le proiezioni anche meno fantastiche e a tempi medio-brevi dicono di una riduzione addirittura dello spazio di vita collettiva nel lavoro stesso. Il telelavoro svolto a casa davanti alla tastiera di un personal computer telematicamente collegato al centro è una possibilità reale fin da ora per moltissimi uffici (la quasi totalità dei servizi) ed è già attuata da diverse aziende americane, scandinave e tedesche (la IBM tedesca occupa col televaoro, dal 1991, 450 persone, per ora prevalentemente programmatori, ma è pronta ad estendere l'iniziativa ad altre funzioni e figure).
I mutamenti del mercato
Tutto questo comporta il venir meno della condizioni di cui si diceva sopra del confronto diretto fra cittadini, della discussione anche accesa sui diversi modelli di vita, sui diversi modi di "giudicare il mondo" e infine sulle diverse linee e proposte politiche.
Il cittadino si ritrova così tagliato fuori anche sul piano formale dai circuiti di elaborazione della politica. Se prima poteva in qualche modo influire quantomeno sul modo di presentarsi del programma politico da lui sostenuto, perché tale sostegno lo dava in modo più o meno attivo negli ambiti di vita collettiva e sociale, oggi le idee, il programma di azione politica, e l'immagine del partito sono confezionate al di fuori o al di sopra di lui, che è chiamato a operare una scelta nel confronto solitario fra lui e ciò che appare e vien detto dallo schermo o ciò che dicono gli illustri personaggi intervistati sulla stampa che trova in edicola o che gli viene recapitata a casa.
Sono buffe le polemiche - giust'appunto televisive - sull'impatto elettorale della televisione: se la televisione e la presenza continua in essa renda voti o meno.
Sono buffe, o meglio idiote, perché lungi dall'affrontare il nodo di fondo, si scatenano alla superficie. Il punto non è se la presenza di tizio o del movimento caio sul teleschermo renda o no voti in proprozione alla sua lunghezza; il fatto, relativamente nuovo, è che la gran massa dei cittadini non ha più altri riferimenti sul mondo esterno e la politica che la televisione. E questo vale anche in negativo. L'evidente ostracismo della televisione nei confronti di un movimento altrimenti resosi visibile, può rendere altrettanto bene o addirittura di più. É il caso della Lega e del suo successo perché la Lega si era ben resa visibile altrimenti, inondando di manifesti le città del Nord e dispiegando una potenza organizzativa ben supportata da finanziamenti e “dazioni” della piccola e media borghesia del Nord (e non solo, stando ai processi in corso). L'essere praticamente bandita dalla televisione, bene o male amministrata dai lacché del regime vigente, alla Lega ha reso in immagine forse più di quanto le avrebbe reso una assidua presenza ai barbosissimi dibattiti televisivi.
Non per questo è comunque scomparso il clientelismo elettorale: ha solamente cambiato forma e... nome. L'uomo politico, direttamente delegato o meno dal suo partito, si propone sul mercato come il difensore nelle diverse sedi istituzionali (comune, regione provincia, parlamento) di interessi specifici di un gruppo: siano i pescatori d'acqua dolce o gli imprenditori di un certo settore, i cittadini "stanchi della microcriminalità nei quartieri" o i medici ospedalieri; promette loro di rappresentarne e difenderne i piccoli interessi una volta eletto. Dopo di che dovrà mantenere rapporti con quell'elettorato. Ebbene le democrazie più avanzate, e anche più marce, come quella Usa, hanno dato un nome a questo intrattenimento di rapporti fra l'eletto e gli interessi che rappresenta: il lobbying. La lobby è il gruppo di persone organizzato per mantenere questo rapporto e eventualmente instaurarne di nuovi per influenzare le scelte politiche.
É evidente che la pressione delle lobby è qualcosa di più quando si tratta del grande capitale nazionale. In questo caso più che di lobby si deve parlare di ordini pressoché diretti impartiti da sempre alle forze politiche che amministrano lo stato.
Nel momento in cui si rende necessaria alla grande borghesia, agente del grande capitale, una certa misura di politica economica o comunque di importanza strategica, non c'è lobby che tenga. Un esempio semplice. significativo e attuale.
La lobby dei commercianti è fra le più forti in Italia: tre milioni di punti vendita fanno dei bottegai una "parte sociale" di indubbia rilevanza elettorale e di parlamentari eletti coi voti dei bottegai sono piene le aule. Ma quando, per ragioni di bilancio e conseguentemente di alta politica o alta mediazione sociale, si è palesato opportuno introdurre lo scontrino fiscale e la cosiddetta minimum-tax, gli strilli e la pressione politica dei commercianti non sono valsi a bloccare la misura.
Poi la medizione si è abbassata di livello. Soddisfatti apparentemente i lavoratori, stufi di pagare da soli le tasse in modo scandalosamente palese, si è potuto mediare all'interno del fronte borghese e venire incontro alle lobby della piccola borghesia, che dicevano "se con lo scontrino fiscale si combatte la nostra evasione, la minimum-tax è una misura vessatoria; molti di noi lavorano al di sotto di quella soglia ed è ingiusto che paghino per redditi che non conseguono".
Qui ci stavano proprio tutti: i bottegai e i professionisti (che lo scontrino peraltro non sono tenuti a rilasciare e presso i quali la Guardia di Finanza non vigila per controllare se hanno rilasciato fattura). Risultato: la mininum-tax è stata abolita. La mediazione interborghese ha avuto successo.
Un mediatore che non c'è più
Abbiamo accennato sopra alla mediazione interna alle istituzioni scelta come terreno di azione delle forze riformiste di origine operaia. Il Pci aveva assunto, sin dalla dalla nascita della Repubblica questa funzione, a complemento di quella ben precedente di strumento italiano della politica estera dell'Urss controrivoluzionario di Stalin e successori.
Il Pci aveva cioè ricoperto il duplice e scomodo ruolo di rappresentante degli interessi immediati della classe operaia all'interno dello stato democratico, di cui si proponeva come legittimo amministratore, e di agente politico del fronte imperialistico avverso a quello di appartenenza dell'Italia.
Quest'ultima sua funzione è la ragione per la quale è stato tenuto fuori dalla stanza dei bottoni a tutti i costi: miliardi di dollari Usa alla Dc e Gladio; stragi ricorrenti e gestione occulta del terrorismo fino alla eliminazione di Moro.
Di questa difficoltà si era già reso conto Berlinguer: era inutile proporsi come il più avveduto amministratore della democrazia borghese, il più efficace garante della conservazione nella pace sociale - allentando anche non poco la funzione di rappresentante istituzionale degli interessi operai - se rimaneva impressa nella borghesia nazionale e negli animi filo-atlantici l'immagine di un Pci filo-russo.
Di qui il primo "strappo".
Ma non poteva ancora bastare: il rappresentante degli interessi operai, ché tale ancora si pretendeva, invitava gli operai ai sacrifici, limitandosi a implorare che anche la borghesia e la piccola borghesia facessero la loro parte, mentre dava il sostegno diretto al loro governo.
Queste erano pesanti picconate alla figura e alla funzione stessa del Pci quale soggetto politico del lavoro nella mediazione fra lavoro e capitale.
Poi la potenza sovietica è implosa e l'Urss è esploso. Il Pci, autore dello strappo preventivo, poteva a ben ragione accodarsi alla cagnara borghese sulla "morte del comunismo".
Il processo rivoluzionario verso il comunismo era stato fermato e invertito in Russia con il sostegno e la solidarietà del Pci dalla seconda metà degli anni 1920, ma Stalin e tutti i suoi partiti (ecco il dramma storico) avevano operato in nome e con le parole de comunismo. Il loro prodotto è fallito e hanno nuovamente e "coerentemente" mentito dichiarando la morte del comunismo.
Era giocoforza: con il comunismo doveva morire anche la sua base di determinazione storica, la lotta di classe e tutto ciò che a essa è correlato. Il Pci, nel frattempo diventato Pds, non si tirava indietro, anzi si spingeva ancor più "avanti" fino a negare l'esistenza stessa delle classi, ormai assimilate a stratificazioni sociali mutabili secondo i criteri di classificazione adottate, secondo la più scema sociologia di stampo americano.
Risultato: il lavoro si ritrova privato anche della sua rappresentanza politica istituzionale nel rapporto con il capitale, conservativo del rapporto stesso.
Certo il Pci si è rotto all'atto di formazione del Pds ed è nata Rifondazione comunista. Ma si tratta di un movimento residuale, e non si stupisca il lettore. Rifondazione ha raccolto di fatto i nostalgici del vecchio Pci e tutti i rottami alla deriva del sessantottismo, ma non ha compiuto né una revisione critica del percorso storico dei Pc e dell'Unione sovietica stessa, né ha reagito adeguatamente alla negazione della lotta di classe e della classe da parte del Pds.
In Rifondazione a questo proposito si dice di tutto e il contrario di tutto: se la componente trotskista si richiama ancora confusamente all'antagonismo delle classi, le componenti verdi lo ignorano del tutto per richiamarsi al diritto dei cittadini contro le incongruenze, le contraddizioni e la pericolosità del "modello di sviluppo", e la componente vetero-picista finge di far da sintesi del tutto in un pastrocchio di idee confuse che mette a base della prospettiva di una "alternativa democratica", secondo la vecchia logica del 50% più uno.
Non è certo rieditando gli atteggiamenti, le "tattiche" e qualche "ideale" del Pci anni 1950-60 che è possibile riproporsi come rappresentanza politica del lavoro negli anni 1990.
Il risultato sopra detto resta dunque invariato.
Scomparsa della classe?
La dissoluzione della classe nella cittadinanza borghese è così giunta alla sua forma più compiuta; si è compiuto cioè il processo avviatosi al momento stesso dell'imporsi del modo di produzione capitalista sulla formazione sociale, della sussunzione della massa dei membri della società alle regole di vita, alla ideologia, alla scala dei valori sociali e civili espresse dal capitale e dalla sua classe dominante. É un processo proprio alla dialettica della storia reale, individuato già da Marx (3), che nel suo svolgersi concreto nel mondo della sovrastruttura ha trovato fra i suoi soggetti agenti i partiti riformisti, parassiti del movimento operaio sin dai suoi primi passi e riprodottisi per successive generazioni fino a oggi, quando - compiuto il processo - sono venuti meno.
Vien dunque da chiedersi se questo processo ormai compiuto nelle formazioni sociali metropolitane invalidi la tesi della lotta di classe e le prospettive che ne conseguono.
Rispondiamo subito: no, perché le classi e la lotta di classe sono dati strutturali, caratterizzanti cioè la struttura, ovvero il modo di produzione, della società, mentre i fenomeni della "sussunzione", il dissolversi della classe nella cittadinanza borghese, lo strapotere ideologico della borghesia, sono propri alla sovrastruttura e destinati a mutare anche bruscamente nei frangenti drammatici, o alle svolte brusche della struttura stessa.
In altri termini, se è vero che fotografando la formazione sociale metropolitana attuale si evidenzia la scomposizione della classe nei suoi singoli elementi costitutivi che si riconoscono essenzialmente come cittadini della formazione sociale data (borghese), è anche e ancor più vero che rimane l'antagonismo oggettivo fra capitale e lavoro ed esso può sempre riemergere nelle coscienze dei membri della classe quando le svolte brusche della struttura indeboliscono e dissolvono i vincoli che fino ad allora avevano tenuto assieme la formazione sociale stessa. Ma la riprova empirica della permanenza della lotta di classe la si ha nel furioso attacco che il capitale sta conducendo contro il lavoro, che la borghesia sta conducendo contro i lavoratori. Il fatto che questi non reagiscano adeguatamente, perché disarmati sotto ogni riguardo, non significa che non esista l'attacco medesimo.
Il dato è semplicemente trascurato da chi, infervorato dalle sue proprie esibizioni letterarie sui moti sovrastrutturali della formazione sociale, perde di vista la loro natura, sovrastrutturale appunto, per dichiarare che è:
l'umanità nel suo insieme che è sfruttata, così che risulta più che mai aberrante l'espressione:sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. (4)
Non ci possiamo qui perdere nelle elucubrazioni metafisiche dell'autore di simili tesi sul capitale che si costituisce in "comunità materiale e arriva a superare il valore e la legge del valore" o che "una volta pervenuto all'autonomia il capitale è la 'forma reificata' in movimento", o sul capitale che si sarebbe "autonomizzato" nei confronti della sua base socio-economica... (5)
Ci accontentiamo di demolire la tesi dell'umanità intera sfruttata e della fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
- La estorsione di plusvalore, che sussiste indipendentemente dall'apparente "superamento del vecchio equivalente generale - l'oro" , è di per sé sfruttamento e il plusvalore è estorto al proletariato a profitto della borghesia e degli altri strati sociali (piccola borghesia nel suo insieme) che partecipano alla spartizione del plusvalore stesso.
- Se la formazione sociale fosse interamente e a pari titolo sussunta al capitale, sarebbe la formazione nel suo insieme ad affrontare i problemi quotidiani di bilancio degli stati. Così palesemente non è: una parte sociale attacca furiosamente l'altra e - guarda caso - proprio la parte che quotidianamente vive per un salario commisurato al valore medio della forza lavoro.
- Se nelle formazioni metropolitane il processo di integrazione ideologica della classe al capitale appare ancora il dato dominante perché si è accompagnato con un sostanziale elevarsi dei livelli di vita del proletariato stesso anche mediante la sua integrazione ai meccanismi del credito, ciò non vale più e sicuramente non in quei termini nelle formazioni sociali della periferia imperialista, dove negli ultimi vent'anni è cresciuto a dismisura il dislivello anche negli standard di vita fra il proletariato e le masse di lavoratori marginali e la borghesia parassita.
- La crisi del ciclo di accumulazione, per quanto abbia eroso gli "spazi di libertà del capitale" e sostanzialmente il saggio medio di profitto, non è giunta ancora (inizia ora forse) a intaccare seriamente i suddetti livelli di vita proletari e dunque quel qualcosa "da perdere" che tiene ancora lontani i proletari dalle loro prospettive e funzioni storiche. Ma nulla esclude, anzi tutto preannuncia, che gli attuali equilibri possano saltare proprio a seguito dell'a-fondo dell'attacco capitalista.
L'errore di questo intellettuale divenuto ideologo (ovvero cattiva coscienza) della piccola borghesia radicale provenendo da una malseguita scuola bordighiana, è il simmetrico opposto di coloro che vedono solo i movimenti strutturali, la dinamica dei dati relativi ai processi di accumulazione dimenticando tutto il resto dell'apporto marxista. Entrambi abbandonano il metodo. Non più rapporto dialettico fra struttura e sovrastruttura nel determinarsi non meccanicistico e a volte imprevedibile degli eventi storici, quindi, ma - a partire dalle lezioni marxiane di quello, male apprese - solo struttura o solo sovrastruttura.
Lasciamoli pure al loro destino contrapponendo laa ben più realistica prospettiva:
- La generica integrazione ideologica della classe si è accompagnata alla ben più materiale scomposizione della classe stessa a seguito della rivoluzione tecnologica ancora in corso. La rivoluzione del microprocessore che si è determinata in coincidenza con la messa in moto delle controtendenze alla crisi di ciclo e come forma di una delle medesime controtendenze (spasmodica ricerca dell'aumento di produttività, al di sopra dell'aumento della composizione organica) ha comportato uno sconquasso nelle figure tradizionali di classe operaia e una loro pesantissima sconfitta. (6)
- Scomposizione non è sparizione (l'ovvio talvolta deve essere ribadito). Prelude invece a una ri-composizione, oggettiva che è la indispensabile base della ricomposizione soggettiva.
- La ricomposizione soggettiva non trovando più le condizione istituzionali di una sua espressione (il "partito dei lavoratori")potrà avvenire solo attorno all'espressione degli interessi storici (dunque anti-istituzionali, rivoluzionari) della classe stessa. Quando? Nei momenti in cui il programma rivoluzionario trova le condizioni per il suo diffondersi e impiantarsi nella classe: i momenti di collasso della formazione sociale e se quel programma è rappresentato, sostenuto e diffuso da un adeguato nucleo organizzativo.
- In caso contrario, il possibile e prevedibile collasso della formazione sociale capitalistica, sfocia in altro, certamente controrivoluzionario e conservativo del modo di produzione capitalistico e della sua formazione sociale.
La democrazia borghese
Abbiamo visto che la democrazia borghese consiste di un mercato elettorale in offerta ai cittadini, dal quale è scomparsa la rappresentanza dei cittadini-lavoratori salariati.
I suoi sacri originariamente enunciati principi di libertà, fratellanza e uguaglianza vengono normalmente, istituzionalmente, naturalmente calpestati.
Tutte e tre i principi valgono non in assoluto, ma di fronte alla legge (il sovrano di Rousseau). In apparenza e per quanto basta a Berlusconi o a D'Alema è così. In realtà così non è. Rivediamo dunque la realtà di quei principi.
Libertà
La libertà resta una parola senza senso fintanto che il soggetto-uomo è espropriato del lavoro, che è l'attività caratterizzante la sua specie e sulla quale si è basato il processo di civilizzazione.
L'operaio in realtà è schiavo del suo oggetto L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime [...] in modo che, quanto più l'operaio produce, tanto inferiore è la quota che del prodotto complessivo consuma; quanto più crea dei valori e tanto più egli è senza valore e senza dignità; quanto più il suo prodotto ha forma e tanto più l'opeaio perde le connotazioni di produttore; quanto più è spirituatlmente ricco il lavoro e tanto più impotente diventa l'operaio e tanto più l'operaio è divenuto senza spirito e schiavo della natura. (7)
Nell'alienazione dell'oggetto del lavoro si riassume soltanto l'alienazione, l'espropriazione dell'attività stessa del lavoro. In che cosa consiste ora l'espropriazione del lavoro?
Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non avolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. [...] Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risulta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere,il lavoro è fuggito come una peste. [...] Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle sue funzioni umane (il lavoro) si sente solo pià una bestia. Il bestiale diventa umano e l'umano il bestiale.
Il mangiare il bere il generare, ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi ed unici. (8)
Citate le fonti e le linee guida è inutile dilungarsi: la base reale della libertà borghese è la negazione oggettiva della libertà dell'uomo lavoratore.
La "libertà" di scelta politica si esplica al di fuori delle funzioni caratterizzanti la specie uomo, come espressione di quell'uomo alienato (senza valore, senza dignità e imbarbarito) e momento delle sue funzioni "bestiali", odiernamente chiamate "del tempo libero".
Nessuna meraviglia se a centinaia di migliaia (se non a milioni) i lavoratori italiani hanno votato Berlusconi e quelli inglesi avevano votato Tatcher e quelli francesi Balladour.
Ma il capitale aliena anche il capitalista, e da qui partono i deliri idealisti alla Camatte sulla collettività contro il capitale. Se questo non comporta la fantastica possibilità di uno schierarsi del capitalista contro il capitale, comporta invece che il capitalista, alienato dal suo essere uomo per assumere quale unica ragioni di vita il profitto e l'accumulazione, si ritiene, ed è "libero" di stravolgere il rapporto uomo/natura e gli equilibri ambientali, condizione di vita della specie.
Neghiamo con ciò la libertà? No, semplicemente le rendiamo il suo significato realmente umano. Al suo regno l'uomo deve ancora pervenire.
Nell'ambito della produzione,
la libertà può soltanto consistere in questo, che l'uomo socializzato, i produttori associati, regolano lo scambio materiale con la natura in maniera razionale, assoggettandolo al loro comune controllo invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità. (9)
Uguaglianza
Di fronte a qualunque legge il lavoratore salariato sta in rapporto diverso dal borghese, imprenditore o parassita. E la diversità non sta tanto (anche se non manca) nel momento sanzionatorio della legge, ma nel diverso impatto che la legge ha sulla figura sociale.
Consideriamo le leggi a difesa della proprietà. É evidente che queste sono leggi a difesa di chi è proprietario e se apparentemente tutti sono proprietari di qualche cosa, i "pesi" sono enormemente diversi. Il proprietario del miniappartamento, di un auto, un frigo e un televisore è diverso e pesa diversamente di fronte alla legge, del proprietario di pacchetti azionari e/ o di vasti terreni edificabili o edificati e di tutto ciò che a tale proprietà è connesso. Saranno anche uguali di fronte al giudice, come cittadini, ma aventi peso specifico molto diverso. Non è populismo demagogico rilevare quel che è sotto gli occhi di chiunque: il proletario o sottoproletario che ruba a un privato una macchina per rivenderla è punito diversamente e in tempi diversi dal borghese che ruba ai suoi dipendenti quella parte di salario che va sotto il nome di contributi (per non parlare di quando ruba allo stato...). É la legge stessa a stabilire la differenza: uno è furto l'altro è violazione amministrativa; l'uno è punito penalmente, l'altro è sanzionato amministrativamente (cioè multato, quando lo è).
La legge a difesa della cosiddetta libertà di stampa vale per tutti: la condizione reale perché si possa stampare è però enormemente diversa fra chi ha i mezzi e chi i mezzi non li ha. Un singolo capitalista può permettersi di stampare tutte le fesserie che vuole in piena libertà. Ma il suo impiegato non lo può fare, sebbene la legge glielo consenta.
E potremmo andare avanti. Ma concludiamo - tanto per l'attualità - con le leggi più "generali". Tutti sono uguali, per esempio, di fronte alla legge finanziaria dello stato, cioè tutti la devono rispettare e assoggettarsi. Ebbene, l'imprenditore che non vede il suo futuro legato alla pensione di anzianità e vede assegnate tot centinaia o migliaia di miliardi al "sostegno alla esportazione", cioè alle imprese per incentivarne gli affari all'estero, avrà con la Finanziaria un rapporto... affettivo diverso dal suo dipendente al quale la Finanziaria promette di tagliargli la pensione. A parte il lato "affettivo", oggettivamente la Finanziaria pesa in modo estremamente diverso sui due soggetti.
In linea generale e di sintesi, possiamo dire che non esiste né uguaglianza né fratellanza nella società in cui una classe detiene i mezzi di produzione (materiale e intellettuale) e un altra classe su quei mezzi, o "attorno" a quei mezzi, eroga la propria forza lavoro per trarne un salario, cioè il prezzo della forza di lavoro stessa sul mercato.
L'uguaglianza è altro. Non è l'idealistica uguaglianza di capacità, cultura, intelligenza eccetera di cui vaneggiano certuni sinistri, sedicenti rivoluzionari. É più concretamente (per quanto lontano sia ancora il suo conseguimento) l'uguaglianza di ruolo nel processo di produzione, ovvero nel rapporto che la specie uomo intrattiene con la natura. É uguaglianza di classi ovvero scomparsa delle classi.
L'uguaglianza perseguita dal movimento comunista è quella delle condizioni reali in cui ciascun individuo abbia i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni ... individuali, perciostesso diverse dall'altro.
La trasformazione delle forze (rapporti) personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa l'idea generale, ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto se stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni. (10)
Oltre la democrazia borghese
La democrazia borghese è l'organizzazione della separatezze degli individui dalle forze produttive e degli individui fra loro. (11) Separatezza è contrapposizione: la democrazia borghese è lo strumento della mediazione e al contempo di conservazione della separatezza.
La rivoluzione comunista ricompone la comunità dell'uomo fuori dal rapporto di capitale, sul terreno dell'uomo stesso: non ha bisogno delle forme borghesi della democrazia perché è vera democrazia.
Il proletariato, avviando la rivoluzione comunista, nega, distrugge le forme della "democrazia" e instaura la sua "dittatura". Spieghiamo le virgolette.
Abbiamo visto che l'insorgenza rivoluzionaria si può determinare solo quando la società collassa, quando crollano cioè sotto l'urto materiale della crisi economica e sociale i legami ideologici, politici, psicologici che a quella formazione legavano gli individui e quando i proletari ricostituiscono la propria comunità di classe (si ergono a soggetto di storia sulla base del programma storico rivoluzionario). La borghesia è anch'essa alle corde, smembrata nelle sue componenti e indebolita.
Fatta l'insurrezione c'è da gestire e più ancora da riorganizzare la produzione, da riorganizzare la società, costruire solide basi per l'avanzata della rivoluzione sociale stessa.
Sarebbe più che idealistico, scemo, pensare che la comunità intera sia proiettata al futuro. La borghesia tiene molto alla sua vita di proprietaria, per quanto "alienata", dei mezzi di produzione e trova facilmente alleati nei suoi clienti di sempre: è un pericolo che va soppresso. Lo stato proletario a questo serve e per questo lo chiamiamo senza infingimenti dittatura: dittatura sulla borghesia fino alla sua scomparsa come classe. Ed è per questo che la dittatura proletaria è sempre stata considerata dal marxismo (certo non dallo stalinismo e dai suoi corifei) un semi-stato: perché è destinato all'estinzione.
Il semi-stato proletario tende all'estinzione nel momento stesso in cui si costituisce perché è espressione dell'ultima classe, che non ha nessuno da sfruttare e che, proprio a partire dalla sua ricomposizione e con la riorganizzazione della produzione per l'uomo, ricompone la comunità dell'uomo.
La comunità dell'uomo non chiede più il governo degli uomini stessi, ma delle cose, della produzione, del rapporto con la natura; non ha più bisogno dunque dello stato.
Rimandiamo alle opere classiche di Marx ed Engels per l'argomentazione del venir meno del governo degli uomini, a parar le lagne dei filistei sul crimine, gli obblighi sociali, le regole della famiglia e quant'altro.
Ma per il tempo che vive il semi-stato, come è retto?
La democrazia operaia verso il comunismo
Con il governo associato dei produttori organizzati nei consigli rivoluzionari (li si chiami come si vuole: Soviet, Consigli dei lavoratori, Consigli operai...).
La Comune fu per Marx la forma finalmente svelata della dittatura proletaria; con tutti i suoi limiti era ancora generica. Il 1905 russo e più ancora il '17 precisarono meglio come la classe si organizza quanto si eleva a soggetto. I grandi seppur impotenti e isolati episodi di lotta proletaria, di nuovo hanno dato eclatanti conferme: in Italia nel 1920, in Germania nel 1923 e poi ancora nel 1953, in Ungheria 1956, in Polonia 1977 e 1980, in Iran 1979. Altre conferme indirette ne abbiamo avute e ne abbiamo un po' dappertutto quando settori di classe cercano di muoversi fuori e contro i sindacati e le compatibilità: la classe si ricostituisce sul terreno dello scontro con il capitale dandosi i propri organi di espressione e di lotta (assemblee, consigli...). Questi possono trasformarsi negli organismi del potere proletario medesimo e quella è la condizione del successo e dell'avanzata della rivoluzione comunista. Diciamo possono, vale a dire sotto certe condizioni le quali non promanano dal livello di collera dei lavoratori o dalla inconciliabilità oggettiva degli interessi fra capitale e lavoro. Tutti gli episodi citati illustrano drammaticamente le alternative, sempre possibili: il defluire dell'onda sulle spiagge della trattativa o il suo imbrigiamento nelle paludi del compromesso col capitale o la sconfitta militare
Perché i consigli di lotta si trasformino in consigli di potere è necessaria l'univoca determinazione dei consigli stessi sul programma rivoluzionario; occorre che in essi si sia affermato come linea direttiva (dirigente) il programma della rivoluzione comunista. In breve occorre che in essi il partito politico (ora si) di classe abbia conquistato la direzione.
Senza ipotecare il futuro, le condizione della rivoluzione - dietro tutte le complessità specifiche di tempo e di spazio e le molte connesse alla storia, alla cultura, alle preesistenti forme politiche del luogo, e posta la vittoria militare - sono fondamentalmente due:
- la permanenza del partito alla direzione del movimento quale espressione della determinazione di classe a proseguire e a liberarsi delle scorie del passato:
- la permanenza e la operosità dei consigli quali organi del potere e base univoca della pur necessaria centralizzazione del semi-stato.
Ripetiamo: le forme specifiche possono variare nello spazio e nel tempo, ma quelle due condizioni devono restare oggettivamente il fondamento dei processi in atto.
Espandendone i significati e studiandone le relazioni si scopre che la direzione del partito quale espressione della volontà della classe ad andare avanti esclude in partenza la dittatura del partito. La dittatura della classe esercitata dal partito è una "formula breve" che non porta alla equazione "dittatura di classe = dittatura di partito" altri che gli ideologi della logica formale. Il partito è alla direzione del semi stato nel senso che i consigli esprimono i migliori quadri comunisti agli organismi della centralizzazione esecutiva. Attraverso quali meccanismi? É ovvio, talmente ovvio che spiace ai cultori del salto fantastico dagli abomini presenti alla normalità umana del comunismo affermato: attraverso il meccanismo delle elezioni dirette da parte delle assemblee consiliari.
La storia e l'esperienza quotidiana dei militanti dice che la direzione x o y si esprime nel fatto che l'assemblea accetta e adotta le indicazioni e le risoluzioni (le mozioni) promananti da x o y e le accetta e adotta attraverso il meccanismo di una testa un voto.
Non si va concretamente, storicamente oltre la democrazia borghese eliminando per decreto il meccanismo "una testa un voto", quantunque questo esprima ancora nelle forme la separatezza degli individui della collettività.
Concretamente e storicamente si avanza distruggendo le basi di determinazione della separatezza, il modo di produzione e la formazione sociale capitalistica. E si comincia proprio col ricostituire materialmente la comunità di classe nell'esercizio del potere. É all'interno della comunità del lavoro, dei lavoratori, e solo lì che varrà il principio una testa un voto, risiedendo in quella la sovranità del potere.
Estendendosi, più o meno gradualmente, quella comunità all'intera società, si estingue la necessità medesima del voto politico. Il governo non è più atto di sovranità e potere sugli uomini, ma sulle cose. Lo stato non è più stato il governo non è più governo e cessa le sue funzioni anche il partito.
Con l'atto rivoluzionario dell'instaurazione del semi-stato i principi di libertà uguaglianza e fratellanza da una parte cessano la funzione mistificante assegnata loro dalla borghesia che li affermò contro i rapporti di dipendenza personale dell'epoca feudale e assolutistica ma in rapporto al potere che essa aveva conquistato per sé. D'altra parte assumono il loro vero significato umano nella concretezza di una società che ha rotto le catene del lavoro salariato.
Quei "sacri principi" abbiamo visto esser stati affermati da una classe - che doveva portare a perfezione i rapporti di sfruttamento fino alla spersonalizzazione dello sfruttatore nell'anomimato del capitale - e strumentalmente alla sua scalata sociale come classe sfruttatrice. Gli idealisti di tutti i tempi e di tutte le risme hanno visto e vedono quei principi come conquista del loro demiurgo, il pensiero puro, l'idea, e di quegli uomini-eroi che l'hanno singolarmente incarnata. La scuola è la medesima della religione cristiana: il verbo che si fa uomo.
Per noi marxisti quei principi segnano sì una tappa del pensiero dell'uomo ma come riflesso del suo essere e dei suoi interni rapporti. La libertà dell'individuo da qualunque vincolo di dipendenza personale fu la condizione dello sviluppo della borghesia da una parte e della creazione del proletariato dall'altra. Il resto vien di conserva. Ma la libertà dell'uomo dal lavoro alienante, la riconquista cioè all'individuo del lavoro come momento del suo essere sociale e della completezza di sé nel e oltre il lavoro è ancora da conquistare.
É questa la libertà che rivendica il movimento comunista e che darà solo la società comunista.
Mauro Jr Stefanini(1) Vedi Le Monde Diplomatique di Ottobre all'articolo La politique pervertie par le milieux d'affaires.
(2) J.J. Rousseau Il contratto sociale, Libro terzo, capitolo II.
(3) Vedi in particolare K. Marx- F. Engels L'Ideologia tedesca I Feuerbach, Editori Riuniti, 1972, pagg. 6-70.
(4) Cfr. J. Camatte Errance de l'umanité. Conscience répressive. Communisme" in Invariance serie II, n.3 dicembre 1973, ora in Verso la comunità umana Jaca Book, 1978, pag. 319.
(5) Ibid pag. 370.
(6) Vedi a questo proposito Il rapporto fra capitale e lavoro nel processo di crisi in Italia in Prometeo 5 e Dopo la ristrutturazione la nuova composizione di classe. Verso la ripresa delle lotte proletarie in Prometeo 6.
(7) Rivisitazione di Marx. Manoscritti economici filosoifici del 1944 Editori riuniti, 1963, pagg.193 e seguenti.
(8) Cfr. ibidem, pag. 197.
(11) Marx Il capitale Libro terzo. Cap. 48, (Editori Riuniti, 1972, pag. 232).
(10) Marx L'ideologia tedesca, op.cit. Pagg. 54-55.
(11) Vedi Individuo e relazioni su questa rivista, brano dell'Ideologia tedesca di Marx ed Engels.
(12) Engels in Critica del Programma di Erfurt, ma occasionalmente ripreso da Gruppi "La teoria marxista dello stato", p.153.
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