Premessa

Cinquant'anni fa, l'11 luglio 1945 a Casale Monferrato nel Piemonte, cadeva assassinato da sei colpi di rivoltella sparatigli a bruciapelo da uno sconosciuto, il nostro indimenticabile compagno Mario Acquaviva.

Pochi mesi prima, un altro combattente internazionalista, Fausto Atti, veniva trucidato nella notte del 27 marzo a Trebbo (Bologna) da un gruppo di partigiani delle formazioni staliniste.

Entrambi questi eroici compagni erano militanti comunisti fin dal Congresso di Livorno del gennaio 1921, alla fondazione del P.C.d'Italia. Successivamente, contro il passaggio della direzione del partito nelle mani di Gramsci, prima, e di Togliatti poi, e contro la degenerazione internazionalmente imposta dallo stalinismo, avevano aderito alla Sinistra comunista italiana. Gli stessi mandanti di questi crimini, seguendo la miglior tradizione degli assassini politici, tentarono alla fine degli anni Settanta di commemorare Mario Acquaviva come un "martire antifascista e democratico" e non - quale in realtà egli fu - un valoroso e implacabile combattente contro la mistificazione della democrazia borghese antifascista, lo sfruttamento capitalista e il tradimento controrivoluzionario dello stalinismo. Le proteste della vedova, della figlia e nostre, impedirà la realizzazione di un progetto, avanzato nel Consiglio Comunale di Asti dai rappresentanti del Psdi e del Pli, per la dedica di una via a Mario Acquaviva (vedi Battaglia comunista, n. 3 e n. 6 - 1979).

Agli inizi degli anni Novanta, con il coinvolgimento delle masse proletarie in una generale crisi di valori, memorie e coscienza di classe, abbiamo assistito alla orchestrazione di una campagna ideologica antiproletaria, centrata sulla denuncia (e in alcuni casi l'autoconfessione) di episodi di cronaca nera manifestatisi durante la lotta partigiana antifascista. Da entrambe le parti - borghesi ed ex-stalinisti, partiti della Liberazione e dell'arco costituzionale, destre comprese - si è però mantenuto il più prudente silenzio su quelle persecuzioni e su quegli specifici omicidi politici che, mascherati da resa dei conti con presunti "provocatori fascisti", hanno in realtà colpito militanti della causa rivoluzionaria del proletariato. Ne sono la prova gli episodi che illustreremo nel corso di questa nostra ricostruzione storica.

L'accostamento di questi delitti con l'identico "trattamento" che gli sgherri della socialdemocrazia riservarono a rivoluzionari del calibro di Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht, non è casuale. Il clima politico era rispettivamente quello del primo e del secondo dopoguerra, con la tipica situazione di crisi profonda, economica e sociale, con le masse proletarie sottoposte a condizioni di esistenza disastrose. È in queste situazioni che la classe operaia - prima tradita e poi illusa di risolvere i suoi problemi con la guerra e quindi trascinata al macello - viene drammaticamente disillusa dai fatti e si dispone a reagire. Ed è in questa situazione che le forze rivoluzionarie, prima isolate, ritrovano spazio di movimento e riallacciano i legami interrotti con le masse proletarie, estendendo la propria influenza e tornando a minacciare la conservazione capitalista.

Le forze della guerra vedono dunque indeboliti e frustrati i propri mezzi di lotta politica; non hanno briciole da elargire, non hanno più tante parole da usare che non siano già state bruciate dai fatti contrari. È il momento in cui "devono" ricorrere alla forza, all'intervento violento per mettere a tacere i rivoluzionari: la galera o l'omicidio. Nel caso di Liebnecht e della Luxemburg, e poi di Acquaviva e Atti, l'unico modo per farli tacere era ucciderli. E sono stati uccisi.

Le condizioni storiche

L'analisi della situazione politica venutasi a creare nel secondo dopoguerra fu dalla Sinistra comunista italiana chiaramente sviluppata nella clandestinità ed espressa sugli organi del rifondato Partito di classe (novembre 1943). Quel Partito Comunista Internazionalista nel quale Fausto Atti e Mario Acquaviva militavano in prima fila (vedi in proposito il n. 6 dei "Quaderni di Battaglia comunista", dedicato a "Il processo di formazione e la nascita del Partito Comunista Internazionalista").

Lo sganciamento della borghesia dal fascismo non poteva essere seriamente operativo che col parallelo allacciamento della socialdemocrazia al proletariato nel momento in cui questo, libero dalla oppressione dello Stato fascista, si sarebbe scagliato contro le impalcature sociali e organizzative di questo Stato. [La manovra dell'antifascismo] dava sfogo all'istintivo impulso del proletariato di liberarsi del suo giogo, deviandone l'azione armata verso il miraggio di una libertà che in realtà era solo la libertà della borghesia di poter risorgere.
Il successo dell'operazione, con il complesso rovesciamento di posizioni operato nelle coscienze del proletariato, lo si deve alla funzione svolta dai partiti nazional-comunisti e socialisti promotori della crociata per la liberazione del suolo patrio da tedeschi e fascisti.
In questa atmosfera di guerra santa, borghesi aperti e nazional-comunisti gareggiarono nell'armare la mano e lo spirito dei proletari contro i fascisti in camicia nera.
[L'esaltazione e l'annebbiamento dei cervelli, in un proletariato a cui era stato fatto credere che la soppressione dei fascisti sarebbe stata la fine dell'oppressione borghese] durò ancora per poco, quel tanto che i borghesi stimarono opportuno, prima di riprendere a giocare in pieno il loro ruolo di oppressori.

Battaglia comunista, novembre 1947

L'ideologia nazionalistica e interclassista della Resistenza ha accompagnato un movimento che nel suo calderone politico fu tutto - da guerra d'Indipendenza a Risorgimento nazionale - fuorché una rivoluzione, per di più condotta da un partito, il Pci, che si candidava a "salvare l'Italia con l'alleanza di tutte le forze nazionali, con una attività positiva e costruttiva" (Togliatti).

Tutti uniti sotto il tricolore contro i "traditori fascisti della patria", indicati come la causa unica delle miserie e sciagure del popolo italiano: solo a queste condizioni e verso questi obiettivi le formazioni partigiane potevano e dovevano muoversi.

In questa prospettiva - e senza alcun riferimento né tattico né strategico - nessun senso politico di classe poteva avere l'azione contro singoli ex fascisti, quando tutto l'apparato del Pci era impegnato nel circoscrivere, minacciare e colpire chiunque osasse contrapporre al collaborazionismo per il ripristino della democrazia borghese la necessità di una alternativa di classe. Contro chiunque osasse denunciare la degenerazione controrivoluzionaria subita dal "partito nuovo" di Palmiro Togliatti.

Fascismo e democrazia si scambiavano, dopo vent'anni, il ruolo di salvatori della patria, fallito il tentativo dello stesso Togliatti, nel 1936, di riunire in un solo fascio e in un'unica marcia tutti i "figli della Nazione italiana, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti". E fu proprio Stalin a ordinare ai suoi accoliti l'unità democratica antifascista, e a inviare nel 1944 il fedele Togliatti a Salerno, nel Sud "liberato" dagli alleati militari del Cremlino, con precise direttive di alleanze politiche costituzionali. Atteggiamento che si rafforzerà dopo un incontro con Churchill a Mosca nell'ottobre 1944, e durante il quale avvenne l'assicurazione russa per una Italia inserita nella zona di influenza angloamericana.

È un fatto che nessun accordo preventivo, fino alla metà del 1945, fissava le zone di occupazione di americani e sovietici per l'Italia nord-orientale: la vicinanza dei partigiani di Tito rappresentava un pericolo di instabilità, anche se già nel 1944, fra stalinisti italiani e iugoslavi, i primi si erano opposti a ogni iniziativa dei secondi, nel nome dell'unità nazionale.

Le squadre d'epurazione del Pci

In questo scenario internazionale, la violenza dello squadrismo dei miliziani del Pci contro "i rottami dell'opposizione bordighiana" (così erano definiti i compagni della Sinistra comunista italiana) andava evidentemente ben oltre la difesa di un interesse di bottega politica, e riguardava la funzione e il ruolo storico che il nazional-comunismo stalinista era chiamato a svolgere al servizio della controrivoluzione e per lo strangolamento del movimento proletario. Per Togliatti, fin dagli anni Trenta,

i bordighisti-trotzkisti devono essere allontanati spietatamente senza ritardo, e denunciati politicamente come agenti del nemico, in modo che le masse li respingano come la peste. Fedeli ai doveri che abbiamo verso la Nazione, noi ne difendiamo gli interessi, nella linea del pensiero e dell'azione di Stalin.

Così la sterzata nazionalistica e guerrafondaia di Togliatti a Napoli nel '44 ("alla necessità bellica dobbiamo subordinare ogni questione interna, anche quella dell'epurazione") rimetteva in riga quanti erano fermi su posizioni più intransigenti verso il governo Badoglio e il Re, e dava il via alla eliminazione di ogni tentativo di opposizione classista.

Il vento del Nord fischiava, ma per noi, "disgregatori e provocatori al soldo della reazione", aumentavano calunnie, intimidazioni e violenze, e la classe operaia veniva consegnata alla legale repressione poliziesca dello Stato, completamente disarmata non solo delle armi materiali riconsegnate agli "alleati", ma soprattutto di quelle teoriche del marxismo, ben più importanti e fondamentali.

Intanto, entro i colli fatali dell'Urbe si restauravano le leve tradizionali del potere borghese e riprendevano gli intrighi delle sue fazioni, approfondendo nelle masse i primi sconforti per il fallimento di quelle aspettative di rinnovamento respinte dal governo Bonomi, con la sua adunata di notabili e santoni di un particolare conservatorismo meridionale, clientelare e inetto. Con il capolavoro della famosa amnistia, la tanto attesa epurazione antifascista si risolveva in una farsa politica, alla quale si possono far risalire molti strascichi di odio e vendetta fra la popolazione. E col ritorno di prefetti, questori e funzionari dei vecchi apparati repressivi e burocratici si preparava la reazione poliziesca di Scelba, che dal '46 in poi colpì migliaia di operai e contadini.

Era il ministro di Grazia e Giustizia, lo stalinista Palmiro Togliatti, a invocare "una energica azione della polizia, e un estremo rigore della autorità giudiziaria onde assicurare una pronta ed esemplare repressione, con procedure con istruzione sommaria o a giudizio per direttissima". Assicurandosi così la piena legittimazione a occupare il proprio posto tra i Padri fondatori della Patria.

Grazie alla legislazione fascista mantenuta in vigore dai democratici liberatori, la maggior parte dei fatti compiuti dai partigiani durante la Resistenza diventavano "atti criminali di ribelli", giudicati spesso dalla magistratura sulla base di rapporti di accusa redatti dalla Polizia della Repubblica di Salò. Criminali e seviziatori fascisti ritornavano in libertà lasciando il posto nelle patrie galere a chi, non rassegnandosi al crollo di illusioni e speranze alimentate dal Pci, reagiva con rabbia e disperazione al nuovo clima di pacificazione sociale interclassista. E si incriminavano proletari innocenti, come i nostri compagni di San Polo, rinchiusi alle Murate di Firenze nel 1946 per un delitto da loro non commesso (l'assassinio di uno dei più facinorosi fascisti della Toscana), falsamente accusati da elementi dell'ambiente nazional-comunista fiorentino. L'episodio, con la montatura tentata a danno del nostro partito indicato quale mandante politico, seguiva quello del massacro di 53 fascisti nelle carceri di Schio nel giugno 1945, e anch'esso attribuito dal quotidiano picista, l'Unità, ai "provocatori trotzkisti del P.C.Internazionalista". Nel frattempo, i veri colpevoli venivano fatti espatriare in Yugoslavia dal Pci e arruolati nella milizia politica di Tito.

La sistematica campagna di calunnie, delazioni e provocazioni contro la Sinistra comunista merita ampio spazio sul libro d'onore del Pci, dove l'opera di "un educatore democratico e un architrave della convivenza civile" - come fu definito Togliatti, il Migliore - si distinse nelle accuse agli internazionalisti di Battaglia comunista e di Prometeo quali agenti dell'Ovra e della Gestapo. Circolari e lettere, come quelle della Federazione milanese del Pci, invitavano i partigiani a "epurarci", e gli operai a "romperci il grugno": una serie di istigazioni criminose che culminerà nell'assassinio dei compagni Atti e Acquaviva. In sede di Comitato di Liberazione nazionale, gli esponenti del Pci richiesero addirittura...

di avere le mani libere per la liquidazione di Onorato Damen e dei suoi seguaci.

E dove non arrivò l'omicidio, il linciaggio politico-morale continuò (e continua tuttora) mentre con una prima spartizione del potere tra nazional-comunisti e democristiani si procedeva alla ricostruzione centralizzata e autoritaria della struttura "democratica" dello Stato, in perfetta continuità con i contenuti e lo spirito del fascismo.

Nel maggio del 1945, infine, anche per Togliatti era giunto il momento di "togliere le vecchie ciabatte" dei CLN, dopo che non erano mancati gli interventi e le misure di "raddrizzamento" verso i gruppi partigiani non allineati e concorrenziali, come quelli di Bandiera Rossa e Stella Rossa. Ricordiamo fra gli "irrecuperabili" il dissidente T. Vaccarella, assassinato in un agguato al Parco Solari di Milano nel giugno 1946.

Non dalla magistratura poteva certamente venire l'individuazione delle forze politiche che avevano armato i liquidatori di compagni e proletari, colpevoli di aver denunciato il tradimento stalinista; e neppure da chi, allora e in seguito, si destreggiava sul tenue filo di un'etica politica da sepolcri imbiancati nel misurare i delitti legali da quelli illegali.

Non è il nome dei sicari, ma quello dei mandanti politici che interessa i rivoluzionari marxisti, e il nostro partito lo ha immediatamente individuato e denunciato alla classe operaia: lo stalinismo che, come la socialdemocrazia nel primo dopoguerra, ha fatto dell'assassinio politico la sua arma migliore per sconfiggere il proletariato.

È quindi il capitalismo che in definitiva ha armato la mano sia del fascismo che dello stalinismo antifascista e democratico, per difendere il proprio dominio economico e sociale e per compiere la sua vendetta contro le masse operaie.

Riabilitare la memoria delle vittime della controrivoluzione e dei martiri per il comunismo non sarà mai una formalità riservata agli assassini o complici pentiti; sarà uno dei compiti che solo il proletariato potrà assolvere riprendendo la sua lotta rivoluzionaria contro il dominio del Capitale e della classe borghese, qualunque sia la banda politica che la rappresenta e più o meno dichiaratamente ne tutela gli interessi.

Lo scontro degli internazionalisti con lo stalinismo, e le sue vittime

Le persecuzioni e gli omicidi politici subiti dai comunisti internazionalisti: dall’assassinio di M. Acquaviva e F. Atti ai fatti di Schio e al processo di San Polo, le forze controrivoluzionarie del capitale e le armi dei sicari di Stalin contro i comunisti rivoluzionari.

Ricordando le figure di Mario Acquaviva e di Fausto Atti, additiamo il loro sacrificio eroico ai giovani proletari perché traggano da un così fulgido esempio ammonimenti e sprone per le dure battaglie che li attendono.

L'archivista di partito
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