I capitali contro il capitale

Immagine - Grafico 1 - Evoluzione degli investimenti diretti all’estero dei paesi OCSE

La convinzione che il crollo dell’Urss abbia significato anche il crollo del marxismo-leninismo ha, recentemente, dato la stura a una ubriacatura neo-liberista che interpreta tutte le modificazioni nel mondo della economia come l’espressione di una tendenza al prevalere delle leggi del libero mercato in contrapposizione al monopolio sia pubblico che privato.

Questa convinzione è diffusa talmente che ormai non c’è questione a cui non si risponda con la parola magica “liberalizzazione”. C’è troppa disoccupazione? Ed ecco che la liberalizzazione del mercato del lavoro, ovvero l’abolizione di ogni tutela per i lavoratori, vi porrà rimedio. È alto il debito pubblico? La privatizzazione dei servizi pubblici e la loro immissione sul libero mercato ne aumenterà l’efficienza e farà diminuire i costi. Tre quarti dell’umanità muore di fame? Basta assicurare libertà di movimento ai capitali e tutto si risolverà. Come per Pangloss - il volterriano precettore di Candido- anche per costoro questo è il migliore dei mondi possibili: scoppiano crisi che, in men che non si dica, mettono in ginocchio interi continenti e si dice che poteva essere ancora peggio se non si fosse data retta ai suggerimenti dei mercati. E purtroppo finora c’è un proletariato che come Candido è disposto a crederci e tanti falsi Candido che fanno finta di crederci, soprattutto nei partiti e fra gli intellettuali che fino a ieri si dicevano marxisti.

In realtà il capitalismo è sempre uguale a se stesso e non sta facendo altro che riorganizzarsi in chiave di auto conservazione secondo le linee di sviluppo dettate dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.

Tutte le trasformazioni del modo di esistenza del capitalismo sono essenzialmente il prodotto di questa legge che è definita da Marx “tendenziale” perché nel suo manifestarsi attiva “delle influenze antagonistiche, che contrastano o neutralizzano l’azione della legge generale”. (1)

Poiché, per effetto della legge, la massa del profitto globale rispetto al capitale sociale tende a ridursi, ogni capitalista, se non vuole cambiare mestiere, cerca di accrescere sia la sua quota rispetto alla massa totale del profitto prodotto, sia di aumentare il saggio del plusvalore. In quest’ultimo caso, seppure inconsapevolmente, egli contribuisce a incrementare oltre che la sua quota di profitto anche la massa del profitto totale.

Tanto lo spostamento di quote del profitto totale verso il singolo capitalista che l’incremento del saggio del plusvalore si sostanziano mediante il processo della concentrazione dei mezzi di produzione e della centralizzazione dei capitali che rende possibile l’impiego nella produzione di capitali sempre più grandi; cosa che ha consentito il costante accoglimento nei processi produttivi dello sviluppo tecnologico, la nascita della grande industria e la produzione industriale di massa.

Grazie allo sviluppo tecnologico e al conseguente innalzamento della produttività del lavoro, i capitali più grandi hanno potuto vendere le loro merci a prezzi superiori ai loro reali valori determinando cosi lo spostamento a loro favore di quote crescenti del plusvalore globalmente estorto; altresì il ricorso a tecnologie sempre più avanzate ha favorito la nascita costante di nuovi settori produttivi, l’allargamento della base produttiva e con esso quello dell’area di estorsione del plusvalore.

Questo processo favorendo la costante modificazione della composizione organica del capitale, pur agendo come fattore antagonistico alla caduta tendenziale del saggio del profitto, non elimina le contraddizioni che lo generano ma le ripropone su scala sempre più ampia. Tendenza e controtendenza vengono così a esprimersi in un movimento contraddittorio la cui risultante è la trasformazione del modo di esistenza del sistema capitalistico senza che, dato il permanere della contraddizione, muti la sua natura. Continua, pertanto, la formazione di quote di capitale supplementare che non producono una massa di profitto supplementare o la producono in misura ridotta. Dal movimento di questi capitali alla ricerca di una adeguata remunerazione derivano prima il colonialismo e poi l’imperialismo.

Uno dei meriti più grandi di Lenin è stato, senza dubbio, l’aver posto le leggi della concentrazione-centralizzazione e quindi, seppure implicitamente, la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto alla base del passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico e dal colonialismo all’imperialismo senza ritenere perciò che la contraddizione di fondo che alimenta il processo venisse attenuata o addirittura superata.

Così, mentre per Kautsky il capitalismo monopolistico sarebbe approdato a una sorta di ultra-imperialismo che, superando l’anarchia dei rapporti di produzione borghesi, avrebbe governato l’economia mondiale in modo armonico e razionale per il bene dell’umanità; per Lenin, l’Imperialismo, come prodotto del capitalismo monopolistico, avrebbe portato alla accentuazione delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico su scala mondiale e con essa della violenza, sia economica che politico-militare, esercitata dai più forti per accaparrarsi, proprio mediante l’esportazione del capitale in eccesso ovvero del capitale finanziario, quote crescenti di extra profitto.

Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è divenuta caratteristica l’esportazione di capitale.

Non è nostra intenzione operare qui una rilettura di Lenin e delle sue tesi sull’imperialismo poiché non ci sfugge, data la necessità di operare per estrema sintesi, il pericolo di darne una lettura formale che potrebbe condurre, con il supporto di alcuni dati statistici, alla errata conclusione che la fase imperialistica è stata superata visto che gli Stati Uniti, la maggiore potenza economica, finanziaria e militare della terra sono divenuti, nel corso degli anni ‘80, importatori netti di capitali.

Qui ci interessa sottolineare che anche le più recenti modificazioni intervenute nel sistema economico mondiale sono per intero riconducibili nell’ambito del processo di concentrazione-centralizzazione del capitale segnando senza dubbio una nuova fase, ma non il superamento delle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione del capitale.

La Ristrutturazione degli anni settanta

La crisi del saggio medio del profitto che si manifestò nei primi anni settanta può essere assunta, senza che ci si possa accusare di compiere particolari forzature, come lo spartiacque che segna la chiusura della fase ascendente del ciclo di accumulazione del capitale apertosi con la fine della seconda guerra mondiale.

L’allora presidente degli Stati Uniti Nixon quando assunse la storica decisione di denunciare gli accordi di Bretton Woods e di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro non immaginava neppure lontanamente che stava dando il via a uno dei più giganteschi processi di trasformazione che avesse conosciuto il modo di produzione capitalistico in tutta la sua storia. Egli pensava di poter porre rimedio alla crisi, che attanagliava il capitalismo statunitense utilizzando la propria supremazia per spostare verso l’economia statunitense quote significative del profitto globalmente prodotto, nella convinzione che, una volta superata la fase di crisi, tutto sarebbe tornato come e meglio di prima. Si apriva invece una fase di profondi sconvolgimenti che in poco più venti anni avrebbero cambiato la faccia del mondo e spinto i rapporti di dominio imperialistici fino alle estreme conseguenze.

Inizialmente l’accelerazione impressa dagli stati Uniti alla dinamica del capitale su scala mondiale si è esercitata soprattutto sui paesi europei e il Giappone. Mediante l’aumento del prezzo del petrolio e di tutte le materie prime voluto e provocato dagli Usa, europei e Giapponesi dovettero pagare una vera e propria tangente al grande fratello giustificata politicamente dal fatto che quest’ultimo provvedeva a proteggerli da eventuali attacchi dell’orso sovietico.

Giapponesi ed europei, per recuperare competitività e margini di profitto puntarono tutto sulla crescita della produttività del lavoro e avviarono un poderoso processo di ristrutturazione dei loro apparati produttivi.

In questa fase, che è durata fino ai primi anni ottanta, in apparenza, non si ebbero significative modificazioni nei rapporti interimperialistici e nei movimenti dei capitali sul mercato internazionale. Uno studio sul rapporto fra crescita del Pnl e investimenti diretti all’estero dei paesi OCSE, negli anni settanta, evidenzia una sostanziale continuità che permane fino a tutto il 1977. Anche il rapporto fra la crescita del Pnl e gli scambi internazionali totali, comprensivi sia delle importazioni che delle esportazioni, non presenta particolari discontinuità. (3)

Se si osservano poi le evoluzioni dei rapporti di scambio fra paesi industrializzati e paesi cosiddetti in via di sviluppo, si rileva addirittura, a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, nel corso degli anni settanta, un miglioramento dei terms of trade (ragioni di scambio) a favore di questi ultimi del 7 per cento. (4)

Erano anni in cui si pensava che l’incremento della produttività del lavoro derivante dalla ristrutturazione avrebbe consentito il recupero dell’incremento dei costi per l’acquisto del petrolio e delle materie prime. Altresì, l’accresciuta ricchezza dei paesi produttori di materie prime, faceva ritenere che essi avrebbero potuto costituirsi come una nuova domanda per le merci dei paesi industrializzati. La ristrutturazione, quindi, pur comportando, nell’immediato, la perdita di un elevato numero di posti di lavoro, alla fine avrebbe condotto a una espansione complessiva del sistema in modo tale che la crescita della domanda mondiale, favorendo l’allargamento della base produttiva, avrebbe prodotto anche l’aumento del plusvalore globale; e l’accresciuta competitività avrebbe assicurato alle grandi imprese industriali dei paesi maggiormente industrializzati l’accaparramento di una quota aggiuntiva del profitto globalmente prodotto. Era la riproposizione del modello di sviluppo del capitalismo monopolistico nella sua fase espansiva e nei rapporti internazionali la riproposizione dello schema dei rapporti esistenti fra Usa ed Europa e fra Usa e Giappone, all’insieme dei paesi industrializzati con i paesi esportatori di petrolio e di materie prime e in generale con i paesi cosiddetti in via di sviluppo. Si dimenticava, però, che l’affermazione di questo modello era costato ben due guerre mondiali e si era avvalso della nascita di nuovi settori produttivi a elevato contenuto di capitale variabile quali il settore automobilistico e il suo indotto; quello elettrico ed elettromeccanico e quello chimico nonché del progressivo impoverimento di un’area crescente del pianeta. Inoltre, sfuggiva completamente che:

  1. la ristrutturazione incrementava la crescita del capitale costante rispetto a quello variabile in un’area, quella dei paesi industrializzati, in cui tale rapporto mostrava già i segni della saturazione tanto che la caduta del saggio del profitto si era manifestata in termini assoluti;
  2. l’automazione dei processi produttivi mediante l’impiego della microelettronica era cosa completamente diversa dalla meccanizzazione e dall’automazione elettromeccanica in quanto non si accompagnava con la nascita di nuovi settori produttivi e la creazione di nuovi posti di lavoro, ma dava luogo solo alla loro sistematica distruzione.

Già nei primi anni ‘80 i segnali che qualcosa non tornava cominciavano a farsi sentire. Gli Stati Uniti, nonostante avessero goduto degli enormi vantaggi derivanti dall’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime e spostato verso il finanziamento della loro economia la gran parte della massa dei petrodollari, soprattutto quelli della borghesia mediorientale, si ritrovano già nel 1982 nel pieno di una nuova e profonda recessione e l’insieme dei Pvs compresi quelli produttori di petrolio e di materie prime con in testa il Mexico sono travolti da una tremenda crisi debitoria che non supereranno mai più.

Parte così una nuova fase nella gestione della crisi che ormai è sempre più chiaramente di ciclo e come tale destinata a provocare profondi sconvolgimenti nell’assetto del capitalismo mondiale.

La globalizzazione industriale

Contrariamente alle aspettative, la ristrutturazione basata sull’introduzione di tecnologie sostitutive di manodopera senza la nascita di nuove attività produttive compensative, anziché rilanciare Il cosiddetto “circolo virtuoso” che era stato alla base del poderoso sviluppo dell’economia mondiale nella prima fase del capitalismo monopolistico, lo interrompe. Per la prima volta gli investimenti supplementari anziché dar luogo a una espansione della base produttiva e a una crescita totale della forza-lavoro impiegata nei processi produttivi, ne determinano la riduzione sia relativa che assoluta.

Venendo meno la possibilità di incrementare la massa del plusvalore e del profitto totale per mezzo dell’allargamento della base produttiva, si è scatenata la rincorsa forsennata alla riduzione del valore della forza-lavoro mediante l’incremento spettacolare della sua produttività e la riduzione dei salari reali. Grazie ai progressi della microelettronica, sia per quanto riguarda le telecomunicazioni che l’organizzazione dei cicli produttivi, il pianeta è stato di fatto unificato. La semplificazione delle mansioni e la possibilità di comunicare in tempo reale da e per ogni angolo della terra, hanno offerto al capitale la possibilità di trasferire ovunque interi cicli produttivi.

Se queste basi, negli anni 80, è partita a livello mondiale, una seconda fase del processo di ristrutturazione che ha visto il movimento dei capitali subire su scala planetaria un’accelerazione senza precedenti. Così se dal 1914 al 1968, come aveva constatato l’economista Wilkins studiando le imprese multinazionali statunitensi, (4) l’investimento diretto all’estero, in rapporto al Pnl, si era mantenuto costante risultando pari al 7,3 e al 7,5 per cento rispettivamente; a partire dal 1985 gli investimenti diretti all’estero conoscono una crescita spettacolare. Come si può rilevare, sia osservando il grafico n 1 che confrontandolo con i grafici 2 e 3, tutti relativi agli investimenti all’estero dell’intera area OCSE, la crescita è rilevante sia in termini assoluti che rispetto a quella del Pnl e degli scambi di beni e servizi che peraltro risulta piuttosto fiacca quando non del tutto inesistente.

Le aree maggiormente interessate al fenomeno sono quelle dove esistono particolari incentivi pubblici e lo stato agevola l’intervento del capitale estero con sostegni all’esportazione, contributi a fondo perduto ecc.; ma soprattutto le aree come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong-Kong ( i cosiddetti Nic asiatici) dove:

il mercato del lavoro è libero in generale e, in particolare, dal divieto di licenziare e dal pagamento di liquidazioni, che aumentano il costo del lavoro analogamente alle norme sul salario minimo e agli schemi di sicurezza sociali, ivi assenti. (5)

La Corea del Sud, per esempio, ha:

il primato mondiale nelle ore settimanali lavorate ( 52 in generale e oltre settanta nei settori tessile e del legno) e negli incidenti mortali sul lavoro (2236 persone) in rapporto al totale dei lavoratori e che è stato introdotto appena nel 1988 un sistema pensionistico nazionale. (6)

Ma, come quella degli anni 70, anche questa nuova fase del processo di ristrutturazione non riapre il “circolo virtuoso” dell’economia mondiale. Gli investimenti all’estero danno luogo allo spostamento da una parte all’altra del pianeta di alcuni segmenti produttivi, ma non a uno sviluppo autonomo dei paesi destinatari quale presupposto per un allargamento complessivo della base produttiva e della massa del plusvalore estorto su scala mondiale. Cosi se è vero che:

a Singapore lo Stato ha stimolato un processo di industrializzazione subordinato agli investimenti diretti dall’estero,

è anche vero che:

alla fine degli anni ottanta le imprese estere controllavano il 70 per cento della produzione manifatturiera, la metà della manodopera occupata e l’80 per cento delle esportazioni del paese. (7)

E proprio per quella parte della produzione che nei paesi maggiormente industrializzati, nello stesso periodo di tempo, ha conosciuto un forte ridimensionamento.

La quota del settore tessile, abbigliamento, calzature e prodotti della pelle, tradizionalmente importante per l’Italia, aumenta di tre punti percentuali fra il 1969 e il 1979 per ridiscendere al livello iniziale nel 1989 (15 per cento), mentre diventa quasi insignificante negli altri quattro paesi [Germania, Gran Bretagna, Francia e Giappone - ndr]. (8)

Quello che si produce a Singapore, insomma, non viene più prodotto in Germania; ma poiché a Singapore un operaio lavora per due, quando non del tutto per tre operai di uno qualsiasi dei paesi maggiormente industrializzati, ne deriva una riduzione totale dei posti di lavoro e una tendenza al ribasso del salario medio su scala mondiale. In tale contesto ogni unità di capitale supplementare che viene a formarsi incontra sempre maggiori difficoltà a realizzare combinazioni produttive adeguatamente remunerative, pertanto o fugge dalla produzione o si muove alla ricerca di forza-lavoro sempre meno costosa.

In entrambi i casi la contraddizione non solo non viene superata, ma tende ad approfondirsi. Per questa ragione una quantità crescente di capitali ha spostato la propria attività dai paesi maggiormente industrializzati verso quelli di media o più recente industrializzazione caratterizzati dalla abbondante presenza di manodopera a bassissimo costo.

Quella stessa tendenza alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto che già Marx aveva indicato quale causa dello sviluppo del commercio estero sta, in definitiva, conducendo a una sorta di globalizzazione della produzione capitalistica basata sull’impoverimento progressivo del proletariato mondiale e sullo sviluppo delle più violente forme di supersfruttamento che il modello di sviluppo fordista della precedente fase del capitale monopolistico sembrava avesse superato per sempre.

In questi ultimi anni il fenomeno, che prima risultava limitato ad alcuni paesi asiatici e sudamericani, grazie alla caduta del muro di Berlino e al crollo dell’Urss, sta interessando anche tutta l’Europa orientale e la stessa Urss. Ci informa il Corriere della Sera del 25 maggio 1995, in una sua inchiesta sulla Germania, che, nonostante nella parte orientale del paese il salario medio sia del 30 per cento più basso che in quella occidentale:

il capitale renano continua a scavalcare l’ex Ddr per investire in Cekia, Polonia e Ungheria, dove i bassissimi salari compensano largamente il deficit di produttività.

La Fiat Auto ha prodotto nel 1994 due milioni e 200 mila auto con 123 mila dipendenti. Nel 1989 fabbricava 45 mila macchine in più con 134 mila persone. Il totale è il risultato di una somma algebrica perché all’estero ( Brasile, Argentina Polonia e Turchia N.d.R.) , grazie all’acquisizione di nuovi impianti, i dipendenti sono aumentati da 17 mila a 38 mila. In Italia, invece, scendono dai 117 mila del 1989 agli 85 mila del 1994. (9)

E facendo la somma algebrica si ricava che in Fiat sono stati persi complessivamente 11 mila posti di lavoro; ma quel che più conta è che l’operazione, puntando sulla delocalizzazione della produzione in paesi con manodopera a bassissimo costo:

ha consentito di abbattere drasticamente il punto di break even. In altre parole, oggi alla Fiat Auto è sufficiente produrre e vendere un milione e 400 mila vetture all’anno per chiudere in pareggio prima [...] ne occorrevano un milione e 900 mila. (10)

Nel caso Fiat appena citato, è nitidamente sintetizzata tutta la nuova fase del capitalismo monopolistico. Data l’impossibilità di incrementare in patria il saggio del plusvalore, la produzione viene delocalizzata in aree dove la forza-lavoro costa meno e fin qui siamo nello schema che potremmo definire classico; ma a differenza che in passato l’esportazione di capitale non genera né una crescita della produzione né della forza-lavoro impiegata, anzi entrambe diminuiscono; pertanto la compensazione alla caduta del saggio del profitto può realizzarsi quasi esclusivamente aumentando il grado dello sfruttamento del lavoro e favorendo, sia in patria che all’estero, la tendenza alla riduzione del salario al di sotto del suo valore “ossia - per precisare con Marx - al di sotto del valore della forza-lavoro”. (11)

La globalizzazione produttiva chiude, quindi, la fase del capitalismo monopolistico in cui gli extra-profitti provenienti dall’esportazione dei capitali consentivano il mantenimento in patria di condizioni salariali più elevate e che avevano consentito la nascita e la crescita di quell’aristocrazia operaia su cui si è fondata la programmazione monopolistica della produzione. Oggi, potendo essere prodotto a Varsavia o a Buenos Aires ciò che viene prodotto a Milano, non vi è più ragione che giustifichi politiche di alti salari fra l’altro rese impossibili anche dal fatto che ormai la concorrenza internazionale, vista la diffusione delle nuove tecnologie e la unificazione del mercato del lavoro su scala planetaria, si gioca quasi unicamente sulla riduzione del costo del lavoro.

La Globalizzazione finanziaria

Il fatto che le ristrutturazioni degli anni settanta e ottanta non abbiano prodotto l’allargamento della base produttiva come condizione per una corrispondente crescita della massa totale del plusvalore ha reso sempre più problematico, per una massa crescente di capitali, il loro impiego nel mondo della produzione a saggi di profitto soddisfacenti.

Nel grafico n 4 la curva dell’investimento diretto all’estero è stata scomposta in modo da poter distinguere fra gli investimenti di portafoglio e quelli più propriamente diretti. Per investimenti di portafoglio, secondo la classificazione dalla Banca Mondiale comunemente accettata, si intendono tutti quegli investimenti effettuati in imprese estere che non superano la soglia del 10 per cento del loro pacchetto azionario. Vengono, invece, classificati più propriamente diretti quegli investimenti che, superando la soglia del 10 per cento, si ritiene abbiano come scopo quello di influenzare in maniera duratura la gestione dell’impresa oggetto dell’investimento.

Nel grafico, come si vede, la curva significativa è quella relativa agli investimenti di portafoglio e sta a rappresentare il peso crescente assunto...

dalla detenzione di attività finanziarie, qui di titoli azionari di imprese (nell’industria, nei servizi o nel settore bancario e finanziario) la cui acquisizione è fatta in una prospettiva di profittabilità immediata e la cui volatilità è estremamente grande. (12)

In verità, gli anni ottanta, ancor più che dall’esportazione di capitali alla ricerca di un mercato del lavoro particolarmente favorevole, sono stati caratterizzati, in piena sintonia con l’analisi di Lenin, dall’esplosione dell’esportazione del capitale finanziario alla ricerca de rendite di natura speculativa.

Illuminante in tal senso è il mutamento intervenuto nella gestione del credito ai paesi in via di sviluppo (Pvs) da parte delle banche, e in particolare di quelle statunitensi, a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Dopo essere riuscite a rastrellare i petrodollari accumulati dai paesi produttori di petrolio, a seguito del primo shock petrolifero, con l’asserzione che:

il riciclaggio di fondi fra i paesi produttori di greggio e gli altri avrebbe potuto essere realizzato solo dai paesi capitalistici sviluppati mentre esso non avrebbe funzionato per i paesi in via di sviluppo... (13)

Le banche si posero al centro di un gigantesco giro di capitali che consentiva loro di realizzare lauti profitti senza muovere un dito. In considerazione del fatto che - come ebbe modo di affermare qualche tempo dopo l’allora presidente della Banca dei regolamenti internazionali, Fritz Leutwiler- “la domanda di credito nei paesi industriali non era molto vivace” (15) e sostenendo la tesi che:

senza un aumento degli aiuti i Pvs non avrebbero approfittato della ripresa economica mondiale, giacché essi non sarebbero stati in grado né di dirottare rapidamente la destinazione delle loro esportazioni, né di fare largo ricorso al riciclaggio dei capitali a tassi di mercato. (14)

Praticarono una politica di intensa crescita dei prestiti bancari ai Pvs. In conseguenza di questa politica, alla fine del 1982 l’indebitamento complessivo dei Pvs risultava pari a 749 miliardi dollari “con un aumento vertiginoso del 475 per cento rispetto alla fine del 1973”. (16)

La parte del Leone la fecero le banche commerciali statunitensi che tradizionalmente contribuivano già per il 40 per cento del totale al finanziamento bancario dei Pvs. Basti pensare che:

in rapporto al capitale proprio i crediti [ai Pvs - ndr] erano rimasti stazionari fino al 1979, ma nei tre anni successivi questo rapporto salì bruscamente, tanto che alla fine del 1982 i crediti ai Pvs erano pari al 220 per cento del capitale proprio delle maggiori 9 banche statunitensi, contro il 166 alla fine del giugno del 1979, e al 150 per cento del capitale delle successive 15 banche, rispetto al 108 di tre anni prima. (17)

Ciò che più conta però e che questa politica produsse conseguenze opposte a quelle sperate. I Pvs nel volgere di pochi anni anziché agganciarsi alla ripresa internazionale e contribuire così al ripristino del cosiddetto “circolo virtuoso”, determinato dal rincorrersi in senso espansivo di tutte le variabili macroeconomie, andarono incontro a un catastrofico fallimento dovuto all’incredibile incremento del costo del debito.

La recessione generalizzata dei primi anni ottanta e la connessa caduta dei prezzi delle materie prime produssero una forte contrazione dei ricavi dei Pvs. Contemporaneamente, i tassi di interesse nominali e reali balzarono all’insù, premendo sulle risorse finanziarie dei Pvs fino a che essi non furono più in grado di adempiere ai loro impegni finanziari, provocando la crisi debitoria internazionale del 1982. (18)

Nel 1974, secondo una ricerca della Banca Mondiale, le uscite dei Pvs per rimborsi in conto capitale e per il pagamento degli interessi erano pari rispettivamente a 8 e 4,2 miliardi di dollari, contro entrate per prestiti di 25,1 miliardi di dollari. Nel 1982, contro entrate per prestiti pari a 119,3 miliardi di dollari, si hanno pagamenti in conto rimborso capitale e rimborso interessi rispettivamente di 82,4 e 71,4 miliardi di dollari con un saldo netto negativo pari a 34,5 miliardi dollari.

Il cappio stretto al collo dei Pvs è talmente stretto che essi diventano di fatto esportatori netti di capitali. Da un punto di vista formale questi dati smentirebbero l’analisi di Lenin che fa coincidere l’imperialismo con, appunto, l’esportazione del capitale finanziario; ma solo da un punto di vista formale poiché in realtà questa “esportazione” è tale solo contabilmente, mentre, nella sostanza, è il rientro della rendita finanziaria, generata dall’esportazione del capitale finanziario, verso le banche della metropoli imperialista. È niente altro che la sostanza dei coupon, delle cedole con cui i rentiers, così efficacemente descritti da Lenin, realizzano i loro profitti senza muovere un dito.

Lenin probabilmente non avrebbe mai potuto immaginare che l’esportazione di capitale finanziario avrebbe dato luogo a una rendita così grande; ma ciò, in definitiva, è solo la conferma dell’attualità delle sue analisi.

La crisi debitoria provocata dalla crescita spaventosa della rendita venne tamponata.

Tramite il Fmi, ai Pvs, per poter ricontrattare i pagamenti sul servizio del debito divenuti insostenibili, furono poste condizione capestro che possono essere sintetizzate dal rapporto fra debito ed esportazioni che nel 1982 risultava pari, secondo calcoli dello Fmi, al 121 con una punta del 270 per cento per i paesi dell’America Latina.

Ciò vuol dire che le aree della periferia capitalistica non solo non poterono costituirsi come domanda aggiuntiva capace di assorbire le merci e i capitali supplementari provenienti dalla metropoli, contribuendo così, come era nelle aspettative, all’allargamento della base produttiva e della massa del plusvalore, ma dovettero ridurre le loro importazioni e impegnare tutte le loro esportazioni solo per far fronte al servizio sul debito estero. Il tasso di incremento delle loro importazioni, negli anni ottanta rispetto agli settanta, passa così, dall’8 al 3 per cento. (19)

A pagare il conto è stato il proletariato internazionale e si inaugurò una sorta di nuova era caratterizzata dalla dittatura totale dei “mercati finanziari”.

Le politiche di riaggiustamento imposte ai Pvs si tradussero in un taglio netto della spesa sociale e dei salari cosicché furono “i salariati dei paesi debitori a sopportare il peso maggiore dovendosi accontentare di redditi reali molto bassi” (20) e quelli della metropoli costretti a subire anche essi, di fatto, una riduzione dei salari, visto che gli stati dei paesi metropolitani furono costretti a intervenire a sostegno delle banche per evitarne il fallimento scaricandone i costi sulla fiscalità generale.

Contrariamente a quanto si può pensare le attività legate alla speculazione finanziaria, dopo la crisi debitoria del 1982, non si contrassero, ma conobbero una spettacolare crescita che ha portato nel giro di dieci anni a un totale sconvolgimento dei mercati finanziari fino al punto che le attività speculative sono diventare il punto di riferimento dominante nell’economia mondiale.

A partire dal crac finanziario messicano del 1982 le banche commerciali dei paesi Ocse e in particolare quelle statunitensi, per il timore di essere coinvolte in un gigantesco fallimento a catena, interrompono i prestiti ai Pvs, pertanto gli sbocchi per i capitali eccedenti si restringono, né la stagnazione dell’economia mondiale favorisce il loro impiego nel mondo della produzione. Nel frattempo, negli Stati Uniti per finanziare la ristrutturazione del loro apparato militare e negli altri paesi capitalistici avanzati per attutire gli effetti disastrosi della ristrutturazione industriale, parte la crescita esponenziale del debito pubblico. Ricordiamo che negli Stati Uniti, per esempio, il debito pubblico è passato dai 906 miliardi, del 1970 ai 4061 miliardi di dollari del 1992 e il costo del servizio sul debito federale dal 1980 al 1990 è cresciuto del 7,4 per cento.

Gli Stati Uniti per finanziare il debito pubblico, a causa della scarsa propensione al risparmio ivi esistente e al fatto che erano anche i maggiori percettori della rendita finanziaria internazionale, trovarono conveniente praticare una politica di alti tassi di interesse che ben presto si estese al resto del mondo e l’emissione dei titoli pubblici divenne l’alcova per una massa crescente di capitali.

Gli alti rendimenti dei titoli di stato e la liberalizzazione dei mercati finanziari, introdotta soprattutto da Gran Bretagna e Stati Uniti, produssero un effetto trainante per tutto il mercato finanziario internazionale avviando quel processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale che da allora non ha conosciuto soste di sorta.

Il mercato è stato invaso da una marea di nuovi prodotti finanziari.

Le note di garanzia ( Note Issuance Facilities), le eurocarte commerciali, le euronote a medio termine e altri accordi non garantiti per il collocamento di titoli monetari sono le innovazioni finanziarie rilevate con maggiore accuratezza... fra il 1983 e il 1985 le note di garanzia sono venute assumendo un peso crescente nella concessione di prestiti e crediti internazionali: in soli due anni la quota delle Nif è passata dal 6 al 7 per cento; successivamente le Nif hanno perso di importanza a favore di un un’altra innovazione finanziaria, le eurocarte commerciali, apparse sul mercato internazionale nel 1985, ma diventate subito molto richieste dagli operatori; insieme le due innovazioni finanziarie in questione rappresentavano allora sul totale generale degli strumenti finanziari una quota superiore al 24 per cento. Due anni dopo era la volta delle euronote a medio termine, che nell’arco di quattro anni diventavano l’innovazione finanziaria più importante,

mentre si registra la diminuzione dei crediti bancari tradizionali e la crescita delle emissioni obbligazionarie, che passano rispettivamente, fra il 1983 e il 1991, “dal 44 al 22 per cento e dal 50 al 62”. (21)

Il risultato complessivo è un’espansione senza precedenti del mercato azionario e obbligazionario con una forte crescita della azioni emesse da società estere.

Alla fine del 1992, i finanziamenti internazionali netti (crediti bancari, obbligazioni internazionali ecc.) registrati dalla Banca dei regolamenti internazionali raggiungono i 4.940 miliardi di dollari contro i 1230 miliardi di dollari alla fine del 1982. I mercati borsistici sono entrati in questo processo solo più tardi, ma, dopo qualche anno, la crescita delle azioni emesse dalle società estere è superiore a quelle delle azioni emesse dalle società residenti. (22)

Sempre in questi anni salgono alla ribalta anche strumenti finanziari più propriamente speculativi quali gli swaps sui saggi di interesse e sulle valute, le futures e le opzioni.

Mentre per gli swaps, la Banca di Inghilterra, l’unica che ha provato a quantificarli, non fornisce cifre, ma parla semplicemente di una crescita considerevole, per le futures e le opzioni esistono i dati della Banca dei regolamenti internazionali che ci dicono che il volume delle contrattazioni, fra il 1979 e il 1989, è passato, rispettivamente, da 10 a 230 milioni e da valori trascurabili a 62 milioni all’anno.

A differenza dei precedenti prodotti finanziari, il cui sviluppo si giustifica anche con la volontà di aumentare la sicurezza degli investimenti finanziari, questi ultimi sono prodotti ad alto rischio mediante i quale si può realizzare un profitto o una perdita non mediante l’effettivo trasferimento di titoli di credito o in valuta, ma scommettendo sulle variazioni al rialzo o al ribasso dei saggi di interesse, dei corsi dei titoli sia pubblici che privati o dei corsi dei cambi. In verità, non è che ci sia granché di nuovo in ciò, questi prodotti altro non sono che lo sviluppo delle operazioni che da sempre alimentano il cosiddetto gioco di borsa. Quel che è rilevante è, comunque e che hanno assunto dimensioni prima impensabili.

Il fatto è che le crescenti difficoltà che incontra il processo di accumulazione capitalistica spinge i capitali in cerca di profitti a correre rischi sempre più grandi abbandonando il mondo della produzione e avventurandosi nel mare magno della speculazione finanziaria.

In ultima analisi, quello che l’espansione delle innovazioni finanziarie mette in luce non è soltanto la securitization dei mercati finanziari internazionali, quanto la crescente finanziarizzazione dell’economia mondiale, che è anche il riflesso della perdita di slancio delle attività economiche reali. (23)

Dalla tabella 1, infatti, si rileva che la crescita delle transazioni finanziarie sul mercato internazionale è ormai completamente slegata dalla crescita complessiva dell’economia come dimostra la divaricazione esistente fra essa e quella del Pnl dei paesi considerati.

Ancora più illuminante è la tabella 2. Da essa si evince che non solo vi è una forte divaricazione fra la crescita del Pnl e quella della compravendita dei titoli azionari e obbligazionari esteri (tab. 1), ma che vi è anche una divaricazione fra i flussi commerciali (scambi di merci e servizi) e gli scambi sui mercati dei cambi.

... È stato stimato che il totale delle transazioni legate agli scambi di merci rappresentano appena il 3 per cento del totale delle transazioni quotidiane sul mercato dei cambi che superano (secondo l’ultima inchiesta realizzata dalla Banca dei regolamenti internazionali) i mille miliardi di dollari al giorno. (24)

Secondo le stime eseguite sempre dalla Banca dei regolamenti, nei primi mesi del 95, l’ammontare delle transazioni sui cambi è stato valutato pari a 1300 miliardi di dollari al giorno.

In teoria lo scambio di valute dovrebbe facilitare lo scambio delle merci, ma se ciò non avviene è evidente che siamo in presenza di uno scambio di capitale monetario contro capitale monetario. La forma classica della valorizzazione del capitale D-M-D' tende a essere superata da quella D-D', ovvero si ha - parafrasando Sraffa - produzione di capitale finanziario per mezzo di capitale finanziario senza la mediazione del processo di produzione e commercializzazione delle merci.

Ora poiché l’extra-profitto che questi capitali realizzano non è altro che una quota del plusvalore e il plusvalore, in quanto lavoro non retribuito, non può che provenire dalla produzione, la possibilità di sopravvivenza di questi capitali è data dalla loro capacità di imporre, nella ripartizione del plusvalore mondialmente prodotto, le proprie esigenze; la loro sopravvivenza dipende cioè dal loro grado di centralizzazione. Per questa ragione capitali sempre più grandi si sono spostati e continuano a spostarsi nella sfera delle attività finanziarie e hanno dato luogo alla nascita di colossi che controllano ormai l’intera economia mondiale. Basti pensare che mentre dagli anni trenta fino a tutti gli anni settanta, i cosiddetti Big Three, ovvero le tre più grandi imprese del mondo erano tre case automobilistiche: le statunitensi General Motors, Chrysler e Ford; oggi sono tre fondi pensioni anche essi statunitensi: Fidelity Investiments, Vanguard group e Capital Research & Management. Il potere accumulato da questi società finanziarie è immenso e travalica di gran lunga quello dei singoli stati che di fatto hanno perduto negli ultimi dieci anni qualunque capacità di controllo dell’economia mondiale.

Di fronte alla potenza di questi mastodonti della finanza - scrive I. Ramonet su Le Monde Diplomatique dello scorso maggio - gli stati hanno scarsissime possibilità di intervento. Lo ha dimostrato, in particolare, la crisi del Messico, esplosa nel dicembre 1994. Quanto possono pesare le riserve in valuta degli Stati Uniti, della Germania, del Giappone della Francia, dell’Italia, del Regno Unito e del Canada messi insieme - quelle dei sette paesi più ricchi del mondo - di fronte alla forza d’urto finanziaria dei fondi di investimento privati, per lo più anglosassoni o giapponesi? Non molto. A titolo d’esempio, basti pensare che per compiere il più importante sforzo finanziario della storia economica moderna in favore di un paese - il Messico - i maggiori stati del pianeta ( tra cui gli Stati Uniti), sono riusciti a mettere insieme 50 miliardi di dollari. si tratta certo di una somma considerevole. Ma i tre maggiori fondi pensione americani, i Big Three del momento, controllano da soli 500 miliardi di dollari.

Il mondo della finanza è ormai diventato una vera e propria industria e viene considerato dagli economisti borghesi come se fosse un campo specifico di produzione di plusvalore. Ma, come abbiamo visto, la sua strepitosa crescita è dovuta unicamente alla necessità di accrescere il potere del capitale finanziario, nella spartizione del plusvalore.

La globalizzazione finanziaria ha portato questa capacità al grado più elevato mai conosciuto. La “ritenuta sul plusvalore” ha la forma immediata di un prelevamento sul profitto industriale. Ma le imprese, in particolare quelle più grandi, hanno i mezzi per trasferire il peso di questi prelevamenti sui salari. (25)

Ed è qui che la globalizzazione finanziaria si integra con quella della produzione. L’una diviene il supporto e la condizione di esistenza dell’altra e viceversa. La Fiat, per esempio, ha recentemente ammesso di aver realizzato, nel corso del 1994, extra-profitti per oltre 450 miliardi di lire (secondo alcuni osservatori in realtà i miliardi sarebbero stati 800) sfruttando la tendenza al ribasso del cambio della lira contro il marco.

L’intreccio di interessi che si viene a formare alimenta un vertiginoso e incessante movimento di capitali su scala planetaria. Ventiquattro ore su ventiquattro azioni, obbligazioni, swaps su titoli e su interessi, passano di mano correndo da un angolo all’altro del pianeta. Nessuno, banche centrali o governi che siano possono fronteggiarli: i rapporti di forza sono decisamente impari. Contro il miliardo e 300 milioni di dollari che possono essere mobilitati dalle grandi società multinazionali, le banche centrali ne possono mettere in campo poco più di 350 miliardi di dollari. Anche il capitalista collettivo per eccellenza, lo stato, che fin qui, in quanto interprete più coerente della conservazione capitalistica, si era posto al di sopra dei capitali individuali per frenarne l’anarchia suicida, è a sua volta superato. Paradossalmente, al più alto grado di concentrazione e centralizzazione dei capitali, anziché corrispondere un capitalismo razionale ed equilibrato come pensavano i Hong-Kong e gli Hiferding, corrisponde il massimo del caos.

Poiché - si leggeva sul Financial Times del 30 settembre 1994- sono loro che manovrano i miliardi e miliardi di capitali che transitano da un paese all’altro ogni giorno, i mercati finanziari sono diventati al tempo stesso, il gendarme, il giudice e la giuria dell’economia mondiale, cosa che non può non essere inquietante, data la loro propensione a vedere gli avvenimenti e le politiche attraverso le lenti deformanti della paura e della cupidigia.

Più il capitale nella sua totalità avrebbe bisogno di incrementare la produzione per poter far fronte alla quote crescenti di extra-profitto che su essa gravano, più il movimento dei capitali finanziari la strozza.

L’analisi leninista, che prevedeva la crescita del capitale finanziario e delle forme di appropriazione parassitaria, ne esce sostanzialmente confermata. La globalizzazione, cui si debbono i fenomeni, quale l’importazione di capitale finanziario da parte della metropoli imperialistica, che formalmente la contraddicono, in realtà è l’espressione più compiuta della fase monopolistica del capitale.

Taluni autori, come per esempio C. A Michaelet nella sua opera già citata, pensano invece che:

la realtà attuale [...] dovrà essere qualificata come realtà in formazione. Le condizioni di un’estensione planetaria integrale del modo di produzione capitalistico, sulla base della mondializazzione totale di tutte le forme del capitale, sono certo più avanzate che nel 1914 [...] ma siamo ancora lontani dal modello di riferimento del libro II (del Capitale di K. Marx).

Se così fosse la globalizzazione dovrebbe implicare una nuova fase di sviluppo dell’economia nel suo complesso e il ridimensionamento della attività parassitaria del capitale finanziario entro margini, fisiologici. Osserviamo, invece, che la globalizzazione, sia della produzione che finanziaria dà luogo a fenomeni che spingono in senso opposto. La prima, basandosi sulla svalutazione permanente della forza-lavoro, oltre che a determinare la rottura del modello fordista basato sulla crescita dell’aristocrazia operaia e della domanda complessiva, ha portato i livelli di competitività impensabili e certamente contraddittori con il monopolio che del rallentamento della concorrenza fa la sua arma più efficace. La seconda, pur implicando, come abbiamo visto, una spinta poderosa alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali, per il fatto che indebolisce l’azione dello stato mirante a stabilizzare i saggi di interesse mediante il controllo della massa monetaria, ha fatto del caos una costante dell’economia mondiale.

La conseguenza è che quell’anarchia dei rapporti di produzione capitalistici, che si riteneva fosse stata superata proprio grazie al modello fordista e alla gestione keynesiana delle variabili macro-economiche fondamentali, torna a dilagare come e più di prima. Si assiste così al paradosso di un sistema che mentre persegue, mediante il monopolio, il massimo della razionalità porta l’irrazionalità al suo grado più elevato: tutti contro tutti; ogni capitale contro tutti i capitali; i capitali contro il capitale.

È il segno che il sistema regredisce; che ha compiuto interamente il suo ciclo e non ha storicamente più nulla da dire. Nondimeno potrà durare ancora a lungo poiché Il suo abbattimento non è la risultante matematica delle contraddizioni del mondo dell’economia; ma è opera del proletariato che prende coscienza che questo non è il migliore dei mondi possibili.

Grafico 2 - Evoluzione degli scambi totali (importazioni e esportazioni di beni e servizi) dei e fra i paesi OCSE
Grafico 2 - Evoluzione degli scambi totali (importazioni e esportazioni di beni e servizi) dei e fra i paesi OCSE

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Grafico 3 - Evoluzione del PNL dei paesi OCSE
Grafico 3 - Evoluzione del PNL dei paesi OCSE

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Grafico 4
Grafico 4

I grafici n. 1, 2 , 3 e 4 sono stati elaborati su dati OCSE tratti dal libro La mondialisation du Capital di François Chesnais Ed. Syros Parigi 1994.

- 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992
Usa 9,3 9,4 11,8 15,9 20,8 36,4 71,7 86,1 85,3 104,3 92,1 98,8 109,3
Giappone n.d. n.d. n.d. n.d. 25.0 62,8 163,7 147,3 128,5 156,7 120,7 92,9 72,2
Germania 7,5 7,8 12,5 16,0 20,7 33,9 45,6 55,2 60,7 67,3 61,1 59,2 90,8
Francia n.d. n.d. 8,4 13,8 14,0 21,4 28,0 37,3 34,6 51,6 53,6 78,9 122,2
Italia 1,1 1,4 1,0 1,4 1,9 4,0 6,9 8,1 10,3 17,6 26,6 60,4 118,4
G.B. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. 366,1 648,9 830,1 642,6 766,6 689,0 1016 n.d.
Canada 9,6 8,0 7,4 10,5 15,8 26,7 40,5 58,9 39,1 54,5 64,1 81,4 111,2
Tab. 1 - Operazioni transnazionali su azioni e obbligazioni in % Pnl - Fonte: Banca dei regolamenti internazionali, 62 rapporto annuale 15 giugno 1992 - Da F. Chesnais 0p. cit. pag. 209 - (n.d.: non disponibile)

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PNL dei paesi Ocse 1,95
Flussi commerciali 2
Transazioni sul mercato dei cambi 8,5
Flusso Ide (investimenti diretti all’estero) 3,5
Tab. n 2 - Valutazione comparata della crescita (dal 1980 al 1988) dei flussi commerciali, finanziari, degli investimenti diretti all’estero e del Pnl dei paesi Ocse (coefficienti moltiplicatori) - Fonte: C. Serfati (1994) elaborazioni dati Gatt, BrI e Ocse - Da F. Chesnais op.cit. pag. 210
Giorgio Paolucci

(1) Marx, il Capitale , libro terzo, Cap. 14 ed. Einaudi.

(2) Lenin, L’imperialismo, editori Riuniti, Roma 1973, p. 98.

(3) Elvio Dal Bosco, L’Economia mondiale in trasformazione, Il Mulino, p. 71.

(4) Charles-Albert Michaelet, ed.Rinuiti, 1978, p. 31.

(5) Bela Belassa, The Lesson of East Asian Devolopment, da E. Dal Bosco.

(6) Ibidem, p. 73.

(7) Ibidem, p. 74.

(8) Ibidem, p.19.

(9) L’Espresso n 29,/95, Cantarella dei due Mondi.

(10) Ibidem.

(11) Marx, op. cit. libro terzo cap. 14.

(12) Françoise Chesnais, La Mondialisation du Capital, ed. Syros, Parigi 1994, p. 43.

(13) E. Dal Bosco op. cit. p. 79.

(14) Ibidem.

(15) Ibidem.

(16) Ibidem, p. 75.

(17) Ibidem, pp. 79-80.

(18) Ibidem, p. 75.

(19) Ibidem, p. 70.

(20) Ibidem, p. 81.

(21) Ibidem, pp. 28-29.

(22) F. Chesnais, op. cit. p. 208.

(23) E. Dal Bosco, op. cit. p. 32.

(24) F. Chesnais, op. cit. p. 209.

(25) Ibidem, pp. 211-212.

(26) La dizione Paesi in via di sviluppo, è stata usata per evitare una contrapposizione con le numerose citazioni di autori borghesi che avrebbe potuto rendere più difficoltosa la fatica del lettore. Per ulteriori chiarimenti vedi Prometeo n 7.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.