Le lotte degli operai coreani nella fase del capitale globale

Perché gli internazionalisti salutano i compagni proletari di Corea

Il 26 dicembre alle sei di mattina in una seduta parlamentare convocata clandestinamente dal presidente coreano Kim Young Sam, i soli deputati del suo partito di maggioranza, il New Korea Party, hanno votato una nuova legge sul lavoro. Il giorno dopo (il 27/12) scoppiava lo sciopero nazionale che al momento in cui scriviamo è ancora in corso. Si tratta della più grande ondata di scioperi in Corea del Sud dalla fine della seconda guerra mondiale.

La legge proditoriamente passata consente in sostanza i licenziamenti di massa da parte delle aziende, l’aumento dell’orario di lavoro e la sostituzione dei lavoratori in sciopero; rinvia inoltre al 2000 la possibilità che nelle aziende operino più organizzazioni sindacali.

È la Confederazione coreana dei sindacati (KCTU), non riconosciuta dalla legge ad aver lanciato l’iniziativa di sciopero generale il 27 alla quale si è subito associata (sotto la spinta della base di lavoratori) la riconosciuta e molto più controllabile Federazione dei sindacati coreani (FKTU).

Lo sciopero ha portato al fermo totale di 5 mila imprese coreane, compresa la Hyundai Motor e le altre cinque imprese automobilistiche, e i cantieri navali della Hyundai Heavy Industries; sono inoltre scesi in sciopero i lavoratori dei trasporti e gli ospedalieri.

Fra parziali rientri al lavoro nei servizi essenziali e nuove adesioni, lo sciopero dei lavoratori coreani è continuato sino al 31 dicembre, coinvolgendo 350 mila lavoratori, per riprendere subito dopo le feste di fine anno, nonostante le ripetute dichiarazioni da parte di ministri vari che “Il governo non tollererà per nessuna ragione questo sciopero illegale”.

Il 3 gennaio le industrie automobilistiche, i cantieri, diverse linee metropolitane in Seul e altre grandi città e centinaia di altre imprese erano ancora chiuse.

Sabato 4 gennaio, mentre ancora 40 mila operai erano in sciopero, una manifestazione in Seul reclamava l’abolizione della nuova legge.

Il diminuito numero di scioperanti alla ripresa è dovuto al fatto che la FKTU ha deciso di sospendere l’azione di sciopero fino al 12 gennaio con la scusa che “bisogna raccogliere le forze per impegnarsi in una azione sindacale di lunga durata” (frase familiare anche fra i nostri sindacalisti).

Ma già il 6 gennaio gli scioperanti erano risaliti a 190 mila in 150 aziende e a Seul oltre diecimila operai marciavano in una manifestazione duramente attaccata dalla polizia.

La gravità della iniziativa governativa e le sfacciate modalità in cui è stata assunta hanno ovviamente ravvivato l’opposizione parlamentare che si è affrettata a cercare di cavalcare lo sciopero in funzione antigovernativa. È solo apparentemente paradossale il fatto che il presidente Kim Young e il suo partito siano saliti al potere in nome di quella democrazia i cui ipocriti principi oggi calpestano. Se per tutti gli anni 80 e i primi 90 ha retto il solido compromesso fra padroni, governo e sindacati “per fare delle chaebols [le grandi holding industrial finanziarie coreane - ndr] industrie leader del mondo”, come piagnucolano oggi i sindacalisti, oggi il mantenimento delle posizioni comporta, lì come un po’ dappertutto, una ulteriore torchiatura del proletariato.

Va osservato a questo proposito che la forte presenza di capitale giapponese e americano è stata finora assicurata dai bassi livelli salariali corrisposti ad una forza lavoro istruita e qualificata. Ma la famosa globalizzazione che tanti sogni turba alla sinistra borghese, comporta anche che imprese e capitali possano delocalizzarsi verso situazioni ancor più vantaggiose dal punto di vista del costo del lavoro e/o dei vantaggi infrastrutturali. (Vedi altro articolo). Di qui la “necessità” di ulteriori giri di vite. Al proletariato coreano si chiede ora più “flessibilità” più disponibilità, cioè, ad entrare e uscire di fabbrica o a stare addirittura a casa, se la incessante ristrutturazione lo richiede. E pensare che la Corea era ed è fra i paesi emergenti citati come esempio a cui conformare anche salari e condizioni di lavoro del proletariato europeo e statunitense. Ora succede che in Corea, come altrove, le continue torchiature iniziano a risultare insopportabili alle masse operaie e che, dunque, debbono essere imposte a prescindere dalle chiacchiere sulla democrazia. Ma esse sono anche la condizione di sopravvivenza del capitale.

Questo la dice lunga sulle possibilità di vita delle ipotetiche alternative democratiche. Potrebbe dunque verificarsi, nell’oggettivo sconquasso determinato da questa possente ondata di scioperi, anche una variazione del quadro politico, ma è certo che qualunque nuovo schieramento politico, civile o militare, che dovesse emergere ripercorrerà le medesime linee di gestione del rapporto fra capitale e lavoro.

Così come l’Ulivo prodiano, con tanto di benedizione rifondazionista, sta facendo le stesse cose che faceva o rifarebbero Berlusconi e Fini.

Dalle informazioni di cui disponiamo e che vanno al di la’ delle smilze note della nostrana stampa borghese, lo sciopero coreano appare completamente dominato dai sindacati, legali o “illegali” che siano, evidentemente pronti a utilizzare il sostegno delle forze politiche di opposizione parlamentare (ovvero a farsi cavalcare da queste). Le dichiarazioni rilasciate dai leader sono tutte di segno meramente rivendicazionista senza nessun pur lontano accenno ai reali limiti del capitalismo. È cosa abbastanza ovvia, rafforzata dalla particolare situazione della Corea del Sud in perenne confronto con quella mostruosità del cosiddetto comunismo nord-coreano.

La frasetta “se quello di stampo sovietico era il comunismo, allora si sta meglio di qua” gioca laggiù un ruolo ancor più devastante sugli ideali di superamento di questo modo di produrre. Considerato che è proprio dei sindacati, di qualunque sindacato, essere sul terreno della contrattazione con il capitale - e non del suo abbattimento - i sindacati coreani tutto potranno fare salvo che contribuire allo sviluppo della lotta di classe in senso rivoluzionario.

Ma la lotta di classe, quella materiale quotidiana, rimane. I suoi punti alti - e questo è fra i più alti degli ultimi tempi e il più alto in Corea - restano dunque e comunque una occasione e una possibilità di enucleazione e sviluppo delle prime manifestazioni della “classe per sé”, le avanguardie rivoluzionarie. È dalle lotte materiali della classe che è sorta la necessità e possibilità della teoria rivoluzionaria nella testa dei primi “maestri”. Ed è dalle nuove esperienze di lotta di questo giovane proletariato che possono enunclearsi le prime avanguardie di classe, sulla linea di sviluppo delpartito internazionale del proletariato rivoluzionario.

In questo senso gli internazionalisti salutano l’eroica battaglia dei compagni operai coreani.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.