Gli operai bambini

Il capitale distrugge il domani dell’umanità

Si macellavano fanciulli interi per averne solo le dita delicate, come nella Russia meridionale si macella il bestiame ovino e bovino solo per averne la pelle e il sego. (1)

Così Marx, con questa terribile metafora, sintetizza le condizioni dei piccoli filatori di seta, costretti a turni di lavoro massacranti nell’Inghilterra di un secolo e mezzo fa. Ma nonostante siano passati tanti anni, quelle infamie non appartengono al catalogo delle cose d’altri tempi, imbarazzanti ricordi degli albori del capitalismo, perché sono ancora ben presenti e, anzi, hanno assunto una dimensione planetaria.

La borghesia, di solito, nasconde e falsifica con tutto lo strapotere dei suoi mass media la realtà, ma di tanto in tanto è costretta a farne emergere gli aspetti più ripugnanti, non per eliminarli, perché non può e non vuole, ma per cercare di controllarli e impedire che, in un modo o nell’altro, inceppino e turbino il regolare funzionamento del suo mondo. I grandi organismi internazionali non hanno altro scopo, e l’UNICEF è uno di questi: proprio sulla condizione dei bambini che lavorano ha organizzato ad Oslo, dal 27 al 30 ottobre scorso, una conferenza internazionale sul lavoro minorile assieme al BIT (Ufficio internazionale del lavoro) a cui hanno partecipato molte Organizzazioni non governative (ONG). Il quadro che ne esce è più che desolante, una nuova scontata conferma che sebbene gli anni passino, "la natura del capitalismo è sempre la stessa, tanto nella forma non sviluppata del capitale quanto nella sua forma più sviluppata", (2) e che il riformismo non solo è fondamentalmente impotente a risolvere alcunché, ma è semplicemente dannoso.

Secondo dati diciamo ufficiali (il numero esatto è quasi impossibile da stabilire), i bambini che lavorano sono, in tutto il pianeta, 250 milioni circa; il 61% in Asia, il 32% in Africa e il 7% in America Latina. (3) Di questi, grosso modo il 5% lavora alle dirette o indirette dipendenze delle grandi multinazionali che hanno delocalizzato alcune (o tutte) lavorazioni nei "Paesi in via di sviluppo", altrimenti detti, con linguaggio marxista, la periferia capitalista. Così, in Indonesia, in Pakistan, in Brasile, il capitale transnazionale "celebra le sue orge" e rinverdisce i fasti della sua giovinezza, costringendo milioni di ragazzini e bambini a tessere dall’alba al tramonto tappeti per l’esportazione, a cucire, con le loro piccole dita, palloni di cuoio, a produrre scarpe da ginnastica che fanno tanto "tendenza" tra la gioventù narcotizzata dell’“Occidente”. Infatti, il 99% delle scarpe prodotte dalla Nike proviene dall’Asia (M.E., cit.) e in particolare dall’Indonesia, dove la paga oraria si aggira, per quello che possono valere le statistiche ufficiali, sulle 350 lire l’ora. Sia per assicurarsi la regolarità delle consegne che per comprimere il "costo del lavoro", le grandi società come Nike, Adidas, Reebok, tanto per fare qualche nome, appaltano a imprese locali la confezione del prodotto e le licenze vengono rinnovate mensilmente (Avvenimenti, cit.); va da sé che questo scatena una concorrenza feroce tra le ditte appaltatrici, i cui costi sono pagati, naturalmente, dalla forza lavoro e, in particolare, da quella minorile. I settemila bambini che lavorano nel distretto di Sialkot in Pakistan, producono il 75% dei palloni di cuoio del mondo, la cui esportazione rende un miliardo di dollari l’anno (M.E., cit.). Non è facile, con i pochissimi dati a disposizione, calcolare quanto sia il plusvalore estorto a questi piccoli operai, ma sicuramente dev’essere molto elevato, se, per fare un altro esempio, a Novo Hamburgo, capitale del settore calzaturiero del Brasile, su 35.000 operai, 12.000 sono bambini. Venduti dalle famiglie poverissime e comprati da padroni senza scrupoli, costretti a lavorare in condizioni schiavistiche, ricercati per l’agilità delle piccole mani che gli adulti ovviamente non possono avere, preferiti per la docilità con cui si piegano alle angherie del padrone, i bambini operai spesso non hanno "né ferie, né un giorno di riposo e non possono neppure andare al bagno durante le ore di lavoro" (Avvenimenti, cit.); è del tutto ovvio, allora, che:

I rischi per la salute fisica e mentale sono elevati. Esposti a prodotti chimici nocivi [per es., il benzene e la colla delle scarpe - ndr], forni ad alte temperature, macchinari spesso più grandi di loro [...] sottoposti molto più della media ai rischi di infortuni, questi bambini tendono a crescere meno velocemente dei loro coetanei studenti e con danni fisici irrimediabili.

M.E., cit.

Sembra di leggere le inchieste borghesi sul lavoro minorile citate da Marx, le quali denunciavano il netto scadimento fisico dei giovani proletari destinati alla leva militare, rispetto ai tempi preindustriali, eppure, a quanto si diceva all’inizio, è storia dei nostri giorni.

E oggi come allora, l’interessamento da parte del "canagliume dei fabbricanti" alla sorte di milioni e milioni di piccoli schiavi salariati non è dovuto alla loro [delle canaglie citate, n.d.r.] cattiva coscienza o a improvvisi slanci umanitari, ma più semplicemente ai sacri diritti del portafoglio. L’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), riunitasi a Singapore nel dicembre ‘96, ha suo malgrado strappato i veli allo squallido e ipocrita pietismo borghese, sottolineando (e lamentando) che "il lavoro minorile appare come un fatto distorsivo della concorrenza e questa a sua volta ne è un fattore moltiplicatore", per cui USA e Francia hanno detto senza mezzi termini che "è l’ora di globalizzare non solo i vantaggi ma anche i costi sociali" (M.E., cit.). È esattamente quello che rilevava Marx a proposito del riformismo borghese:

Due sono le circostanze determinanti delle leggi sulle fabbriche: primo, l’esperienza, sempre ripetuta, che il capitale appena soggiace al controllo dello Stato soltanto in alcuni singoli punti della periferia della società, si rifà tanto più smodatamente negli altri punti; secondo, l’invocazione dei capitalisti stessi per avere eguaglianza nelle condizioni della concorrenza, cioè limiti eguali allo sfruttamento del lavoro. (4)

E questi limiti eguali o, meglio, non limiti, sono la ricetta miracolosa con cui le organizzazioni internazionali del capitale, che differiscono da una qualsiasi altra associazione gangsteristica quasi solo per il diverso campo d’azione, fingono di voler risolvere il problema. La loro sicumera è tale che ci si chiede se per caso non stiano facendo il verso a sé stesse. Se ci sono tanti bambini che vengono bestialmente sfruttati, la soluzione bisogna trovarla nella "ulteriore liberalizzazione e la crescita economica messa in moto", come afferma il direttore del WTO Renato Ruggiero (M.E., cit.). Peccato però che siano proprio la "ulteriore liberalizzazione" (chiamata anche globalizzazione), la ricerca sfrenata di manodopera sempre più a buon mercato e sempre più flessibile in ogni angolo del pianeta, tra le primissime cause di questa vergogna; è la stessa OCSE, che non può certamente essere sospettata di nutrire simpatie anticapitaliste, ad ammetterlo per bocca di un suo funzionario: "Il fatto, per esempio, che il mercato tessile sia diventato più globale e competitivo ha certo peggiorato le cose per esempio in Bangladesh" (M.E., cit.), dove il 30% della popolazione attiva è costituito da ragazzini tra i 10 e i 14 anni. In realtà, dunque, la cosiddetta globalizzazione ha anche lo scopo tendenziale di livellare verso il basso le condizioni di lavoro della classe operaia, di mettere in concorrenza tra di loro gli operai del mondo intero; non è certamente una cosa che si può fare dall’oggi al domani, ma il processo è già in corso e il meccanismo ben oliato. Sono gli stessi sindacati a tirare in ballo la globalizzazione, la concorrenza internazionale, la competitività dell’azienda da difendere per giustificare accordi e contratti che ogni volta impongono gravissimi passi indietro ai lavoratori salariati. Si fanno i contratti di solidarietà, altrimenti il padrone licenzia, si accettano le gabbie salariali e i patti territoriali per scongiurare la "delocalizzazione" della fabbrica in Albania, in Romania o in Thailandia. Insomma, si asseconda il sogno di ogni capitalista di avere un Pakistan in azienda o, in mancanza di ciò, tanti Pakistan attorno a casa. La borghesia italiana, da questo punto di vista, non è seconda a nessuno: da sempre l’italico suolo è stato il regno del lavoro minorile, delle ragazzine costrette a confezionare abiti o scarpe in fetide stanze per 50-60 ore settimanali a 200/500 mila lire al mese, come a Lizzanello o Gravina di Puglia; anche qui non si tratta di vecchie storie da anni cinquanta, ma di cronaca quotidiana, meridionale soprattutto, ma non solo, se in provincia di Rovigo uno dei tanti padroncini del Nord - Est ha cercato di imporre un accordo aziendale che contemplava il lavoro di ragazzi al di sotto dei quattordici anni. La stessa sconcia polemica scatenata qualche mese fa su Affari & Finanza de la Repubblica, che contestava le cifre della disoccupazione giovanile nel meridione, a suo dire troppo alte, contiene probabilmente un briciolo di verità, ma solo perché quelle cifre nascondono spesso una realtà ancora più terribile, fatta di giovanissimi reclutati dalla mafia e di un numero imprecisato ma molto consistente di casi alla Lizzanello. In ogni modo:

nella sola provincia di Reggio Calabri si calcola che 15 mila ragazzi al di sotto dei 14 anni siano impegnati stabilmente nell’agricoltura [e che, globalmente, in Italia] quasi mezzo milione tra gli 8 e i 13 anni lavorano in diversi settori. (5)

Se dunque il lavoro minorile è parte integrante del patrimonio genetico del capitale, i tentativi della borghesia per addolcire questo suo poco presentabile aspetto sono sempre gli stessi e ancora una volta oscillano tra il tragicomico e l’umanitarismo vile e impotente. Se ciò di cui si sta parlando non fosse tremendamente serio, si potrebbero liquidare con una risata i cosiddetti "codici di comportamento volontario" firmati di Nike e Reebok a "protezione" (!!!) dei minori di 14 anni, i quali prevedono che i salari debbano "essere non inferiori al minimo ufficiale o al compenso prevalente nel settore. Viene inoltre vietato l’uso di lavoro forzato e limitata la settimana lavorativa a non oltre le 60 ore" (M.E., cit.). È una confessione neanche troppo indiretta che i bambini percepiscono salari da fame, normalmente sotto ai già bassissimi "compensi prevalenti nel settore" o che sgobbano come veri e propri schiavi ben più di sessanta ore settimanali; ma l’oscar dell’ipocrisia lo conquistano quando delegano a sé stesse o a ispettori "indipendenti"... pagati da loro stesse, il compito di vigilare sull’applicazione di quel codice.

Non molto meglio vanno le cose con l’altra faccia della borghesia, quella umanitaria, anche concedendo, in parte, la sua buona fede. Tra UNICEF e ONG è tutto un fuoco d’artificio di pie illusioni che durano al massimo lo spazio di un mattino. Lo stesso obiettivo della conferenza di Oslo, eliminare lo sfruttamento minorile nel giro di quindici anni, parte da un presupposto completamente sbagliato, in quanto identifica lo sfruttamento solamente con le forme più brutali di esso, quando invece ogni lavoro salariato è per sua natura sfruttato: che si eserciti in quindici o otto ore (o 35...) non cambia la sostanza della cosa, anche se cambia certamente la "pena del lavoro". Ma, sia detto per inciso, è proprio questo concetto che è praticamente scomparso dalla mente e dal cuore di gran parte del proletariato. Non è raro, infatti, che un operaio o un impiegato, specialmente se giovani, si sentano sfruttati solo se il padrone li costringe a lavorare oltre l’orario normale oppure li truffa sui contributi; per questo insistiamo che uno dei compiti primari del partito rivoluzionario oggi è quello di "reimportare" nella classe la coscienza di essere sfruttati in quanto salariati. È un riflesso del pensiero borghese, il quale non sa, non può e non vuole riconoscere nel modo di produzione capitalistico la sola radice della devastazione psico - fisica di milioni di piccoli esseri umani. Solo un cretino chiederebbe al carnefice di proteggere la propria vittima, ma il cretinismo (parlamentare, legalitario, ecc.) è per l’appunto un tratto caratteristico del riformismo. Non si spiegherebbero altrimenti gli inviti alla cautela, per non turbare i mercati, rivolti dall’UNICEF a chi vorrebbe minacciare sanzioni alle imprese più coinvolte nello sfruttamento dei fanciulli, ripiegando invece sulle solite proposte di innocue conferenze e codici internazionali, i quali, però, hanno il piccolo difetto che dovrebbero essere fatti rispettare da quegli stessi governi che sono lì proprio per amministrare al meglio gli interessi del capitale, nazionale e transnazionale, dal brutale padroncino di "boite" di tappeti su su fino ai "rispettabili" vertici di una Adidas qualunque. Anzi - e risentiamo la vecchia musica "Old England" - secondo Save the Children, i primi a essere danneggiati da controlli seri sarebbero i lavoratori, perché i padroni spaventati se ne andrebbero dove controlli non ne esistono affatto; quindi, per il bene dei bambini operai e nel rispetto del mercato, molto meglio puntare sugli incentivi alle imprese: solo così si potrà arrivare, secondo quell’ "oscura genìa di riformatori", ad apporre il marchio no sweat (niente sfruttamento) sulla merce del domani. D’altronde, non è la stessa logica carognesca dei sindacati di casa nostra? Invece di scatenare lotte senza quartiere contro il padronato che da Nord a Sud ricorre sistematicamente al lavoro nero, accettano e difendono a spada tratta la generalizzazione legalizzata del lavoro nero con i contratti di emersione o di riallineamento, facendo precipitare verso il basso anche i salari di chi prima lavorava in condizioni "normali". (6) Ma non vorremmo ripeterci.

Certo che il capitale ne ha fatta tanta di strada in questi ultimi duecento anni: le decine di migliaia di fanciulli operai delle Manchester di allora sono diventate oggi decine di milioni, e per un Iqbal Masih, assassinato a dodici anni dai suoi sfruttatori, chissà quanti altri ce ne sono negli sterminati East End del mondo (7) in attesa di qualcuno che dia voce alla loro storia e alla loro rabbia. C’è chi vorrebbe fare del 16 aprile una giornata internazionale di commemorazione del piccolo Iqbal, ucciso in quel giorno del ‘95, e di tutti gli operai bambini, ma il proletariato non ha bisogno di pelose commemorazioni, di cui borghesi e riformisti immancabilmente si appropriano ritorcendogliele contro. Il proletariato ha bisogno di liberarsi da settant’anni di stalinismo, dal riformismo vecchio e nuovo, riprendendo a lottare sul serio oltre le barriere di etnia, età, sesso, religione, e, allo stesso tempo, di ricongiungersi con quel "qualcuno" che altri non è che il suo partito di classe, alimentato e rafforzato dalle sue lotte: solo così potrà liberare sé stesso e l’umanità intera dalla dilagante barbarie capitalista.

Celso Beltrami

(1) K. Marx, Il Capitale, Libro I, Einaudi, 1975, pag. 356.

(2) K. Marx, cit., pag. 349, nota 152.

(3) Vedi il Manifesto del 28-10-’97, Avvenimenti n. 41 del 29-10-’97, Mondo Economico n. 27 del 7-7-1997.

(4) K. Marx, cit., pag. 600.

(5) Rispettivamente Avvenimenti, cit. e il Manifesto del 26-10-1997.

(6) Il Manifesto del 16-11-’97, a proposito di un caso analogo a quello di Lizzanello scoperto a Cisternino in provincia di Brindisi, riporta l’opinione di un sindacalista della CGIL, fonte non sospetta, dunque, il quale sostiene che “in realtà sono magari le aziende che erano regolari a chiedere gli sconti [del contratto di riallineamento, ossia un salario al 65% di quello contrattuale - ndr], per la concorrenza di quelle con lavoro nero, piuttosto che queste ultime che accettano di mettersi in regola”.

(7) "L’East End di Londra è una palude sempre più estesa di perenne miseria, di disperazione, di fame, quando c’è disoccupazione; di degradazione fisica e morale, quando c’è lavoro [...] La legge che riduce il valore della forza - lavoro al prezzo dei mezzi necessari di sussistenza, e l’altra legge che riduce di regola il suo prezzo medio al minimo di questi mezzi di sussistenza, queste leggi agiscono su di essi [gli operai - ndr] con la forza irresistibile di una macchina automatica, che li schiaccia tra i suoi ingranaggi" (F. Engels, Prefazione del 1892 a La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori riuniti, 1973, pag. 37).

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.