Il libro nero del comunismo

La Santa Alleanza della borghesia

Raramente nella storia, o forse mai, è accaduto che gli spettri degli sconfitti facessero tanta paura ai vincitori, a maggior ragione quando la vittoria sembrerebbe netta e perentoria, senza alcuna possibilità d’appello, come sta avvenendo oggi a proposito della presunta morte del comunismo. Dire tutto il male possibile di esso è diventato un articolo di fede per chiunque voglia essere un compito cittadino per bene, ossequioso delle regole democratiche e del mercato, pilastri della nostra splendida società (così ci dicono...) che, se non proprio perfetta, è comunque il limite estremo della storia umana.

Ma tanto accanimento contro un (presunto) cadavere non si spiega solo e non tanto con un desiderio di vendetta a lungo covato, in realtà brividi di inquietudine e di oscuro terrore continuano a turbare i sonni agitati della borghesia, la quale, dietro lo sguaiato ghigno di esultanza, sa bene che i miliardi di poveri, oppressi e sfruttati sono lì, ogni giorno che passa sempre di più, a minacciare - per ora solo potenzialmente - il suo dominio. Allora, se non può evitare che l’esplosivo sociale si accumuli sin nelle sue fondamenta, perché è proprio il modo di produzione capitalistico a generare la miseria, la fame, lo sfruttamento - di questo e solo di questo vive! - può però tentare di bagnarne le polveri, screditando in tutti i modi possibili chi, unico, è in grado di dare una prospettiva seria e concreta per la soppressione di una società tanto ingiusta.

È una specie di guerra preventiva, in cui la borghesia getta tutti i suoi ideologi, da quelli più biechi e rozzi nel loro cieco furore, a quelli più "raffinati" e culturalmente "avanzati", pullulanti come zanzare nella fetida palude della sinistra democratica. Lo sporco lavoro riesce tanto meglio se, come di regola accade, i facchini dell’anticomunismo (e chiediamo scusa ai facchini per il ripugnante accostamento) possono vantare una conversione ai sacri valori dell’impresa che li ha riscattati da un passato vergognoso di "comunisti". Poco importa se anche prima col comunismo avevano poco o nulla a che vedere, essendo stai seguaci, chi più chi meno, dello stalinismo, del maoismo, del movimentismo sinistroso ossia di tragiche caricature del marxismo (queste sono le vesti con cui il "comunismo" è stato visto da generazioni intere di uomini e donne), quello che importa è che quei loschi individui appaiano alla famigerata opinione pubblica in qualità di esperti della più tragica utopia che si sarebbe impadronita dell’umanità.

Stiamo ovviamente parlando de "Il libro nero del comunismo", (1) di cui abbiamo già sinteticamente detto (vedi Battaglia comunista n. 3/98), che, grazie a una martellante campagna pubblicitaria sta avendo un grande successo: sei edizioni in soli due mesi. Il successo, prima di tutto, è di Berlusconi, perché ancora una volta è riuscito a rifilare ai suoi elettori (i quali difficilmente diventeranno anche lettori, vista la mole) un’opera che per lo scarsissimo valore scientifico può essere considerata nient’altro che un gadget politico, paragonabile tranquillamente ad un film d’animazione passato recentemente sugli schermi, in cui la rivoluzione russa viene spiegata come opera del diabolico Rasputin, evocatore degli spiriti malvagi del bolscevismo, a danno dei buoni Romanov.

Ma se il libro è così rozzo, perché occuparsene? Perché è sempre un errore sottovalutare l’avversario e perché, obiettivamente ha avuto - come si è visto - un grosso impatto, sia sulla piccola - media borghesia, gongolante per avere finalmente un supporto teorico al suo ottuso e feroce odio antiproletario, che - e qui si misura l’efficacia di questa guerra preventiva - tra il cosiddetto "popolo di sinistra", colpito da inquietudine e malcelato sconcerto, ulteriormente alimentati, come si diceva, dagli intellettuali à la "Manifesto" che, nonostante le apparenze, fanno la loro parte per accreditare alcune delle tesi portanti del libro. Ed esse, per quanto possa apparire strano ad una lettura distratta, recuperano sostanzialmente le critiche dei menscevichi, dei socialisti-rivoluzionari, dei piccolo - borghesi democratici e, soprattutto, di Kautsky, cioè di coloro che portano la responsabilità primaria del soffocamento della rivoluzione in Europa e, di conseguenza, delle enormi difficoltà prima e della sconfitta poi, della rivoluzione d’Ottobre.

Il "Libro nero" riunisce come allora la socialdemocrazia e i "centoneri", Noske e i corpi franchi in un’unica Armata bianca contro il comunismo e, in primo luogo, contro Lenin; d’altra parte non può essere diversamente: dopo la guerra civile, dopo i massacri degli spartachisti (per non dire del giugno parigino 1848) il proletariato rivoluzionario sa che non ha né amici né alleati, che è solo contro la reazione borghese, la quale dà fondo a tutte le sue risorse, di destra e di sinistra, per annientare chi osa minacciare il suo dominio.

Non è, lo ripetiamo, un "normale" libro di storia col quale si possa condurre un confronto culturale (ammesso e non concesso che cose simili ci possano interessare), ma un libro di guerra per far trionfare una volta per tutte i valori della società borghese; e nonostante alcuni autori si siano dissociati in seguito dal curatore, gli scritti sono sostanzialmente omogenei nell’individuare nel comunismo il male assoluto, il frutto peggiore - anche peggio del nazismo - che l’umanità abbia prodotto, se non nella sua storia, certamente in questo secolo. Va da sé che quegli "storici" vedono una continuità ferrea tra Lenin, Stalin, Pol Pot e Menghistu, non sanno e non vogliono fare distinzioni; dunque, quello che fu il trionfo della controrivoluzione, l’instaurazione del capitalismo di stato, in pratica la totale negazione del comunismo ossia lo stalinismo in tutte le sue varianti, per essi è la manifestazione più pura del comunismo realizzato.

Ma procediamo con ordine e diamo loro la parola.

Il terrore è stato fin dall’origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno [...] Il nostro approccio considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme.

Un crimine che supera largamente i tanti altri che hanno punteggiato le epoche passate. Eh sì, perché il curatore, da buon "ex", non trascura preventivamente di nominare quegli eventi che possono essere usati contro il capitalismo, come la tratta degli schiavi o lo sterminio degli Indiani d’America, ma, ovviamente, evita accuratamente di trarne le logiche conclusioni ossia che questi ed altri "episodi" non sono momenti accidentali della lunga marcia della borghesia verso la civiltà, ma i mattoni del DNA borghese.

Infatti, se è vero che, dialetticamente, il capitalismo è stato un grande passo in avanti e necessario, dell’umanità, è altrettanto vero che la violenza più feroce l’ha accompagnato fin dalla nascita e non l’ha più lasciato. Quelli ed altri eventi storici non sono stati i dolori del parto, dunque, ma il suo naturale e permanente modo di essere. Le civiltà che hanno vanamente cercato di opporsi alla sua avanzata sono state inesorabilmente spazzate via dall’azione congiunta della forca, delle cannoniere, delle leggi impersonali e spietate del mercato. È un dettaglio trascurabile il fatto che il più grande narcotrafficante della storia sia stata la regina Vittoria, che mise a disposizione del capitale britannico un regno per avvelenare prima, e scardinare poi, il "Celeste Impero" con il contrabbando di oppio? Il marasma in cui fu precipitata la società cinese causò carestie, rivolte e un numero incalcolabile di morti: non pretendiamo certo di eguagliare il "rigore" e la "precisione" scientifica del "Libro nero" che, a proposito della carestia cinese del 1958, spara cifre che vanno dai "20 ai 43 milioni", però furono parecchi milioni.

Ma come abbiamo detto (2), il rispetto della verità storica è l’ultima cosa che passa per la mente ai nostri "insigni" studiosi, essendo l’anticomunismo il loro unico obiettivo; tutto è subordinato a questo, anche il senso del ridicolo. Condannando il comunismo "per crimini contro l’umanità", oltre che "contro la cultura universale" (e sarebbe?), Courtois ricorda che tale formula fu impiegata per la prima volta nel 1915 da Russia, Francia e Inghilterra per condannare i Turchi, colpevoli del genocidio degli Armeni: quale rivoltante e interessata ipocrisia pensare che le potenze dell’Intesa avessero le carte in regola per giudicare i massacri compiuti dall’imperialismo avversario, proprio esse che sfruttavano a sangue masse enormi di diseredati nei loro imperi coloniali, mentre mandavano al macello sui fronti europei milioni di proletari e di contadini. Ma al "nostro", non è sufficiente il richiamo alle democrazie borghesi storiche - se si esclude la Russia, che però non era poi tanto male (3) - per condannare l’orco comunista chiama in aiuto quel sant’uomo di Pio XI (4), campione del "rispetto della dignità umana", che mentre appoggiava Mussolini e Franco (che birbante quel papa...), difensori della religione cattolica e della religione borghese, trova anche il tempo di condannare il comunismo: e se lo dice la Chiesa...

Così, di scemenza in scemenza, di delirio in delirio, dove il curatore non resiste alla tentazione di paragonarsi più o meno implicitamente allo storico Tacito e a giudice supremo della storia (non ci credete? leggete a pag. 28), prima di farci entrare in quella specie di mattatoio che sarebbe stata la rivoluzione d’Ottobre apprendiamo che "il grado e le tecniche della violenza di massa [furono] inaugurate dai comunisti". Se per violenza di massa intende l’uccisione su grande scala coi mezzi della tecnologia moderna, ha sbagliato decisamente indirizzo, perché fu la guerra civile americana, effetto e causa insieme dello sviluppo del capitale americano, a inaugurare l’epoca dei massacri di massa; ma se invece intende lo sterminio sistematico dell’avversario, l’errore è ancora più grossolano, perché è una verità storica incontestabile che sono sempre state le classi dominanti (sfruttatrici) a scannare, impiccare, fucilare fino all’ultimo uomo gli oppressi in rivolta. Dalle croci di Spartaco ai contadini tedeschi del 1525 alla comune di Parigi, schiavi, servi della gleba e proletari non hanno mai dovuto aspettarsi un briciolo di pietà dal loro nemico di classe; e la storia del Novecento dimostra che la ferocia della borghesia, di stato o liberale, fascista, stalinista o democratica, non ha fatto altro che crescere in odio, spietatezza e sistematicità contro tutto ciò che sa, seppur lontanamente ed anche erroneamente, di proletario e di comunista. Il Cile e l’Argentina dei generali, istruiti da Washington e benedetti dal Vaticano, sono lì a dimostrarcelo.

Terrorismo e Comunismo

C’è un manifesto controrivoluzionario dei tempi della guerra civile in cui Trotsky viene raffigurato come un orco dai tratti marcatamente semitici che, grondante sangue, siede soddisfatto sulle mura del Kremlino ai piedi delle quali dei cinesi (notare il doppio razzismo) stanno fucilando tra una marea di cadaveri (5). Ecco, questo manifesto sintetizza, né più né meno, la sostanza del saggio di Nicolas Werth dedicato alla Russia dalla rivoluzione d’Ottobre fino agli anni settanta.

Nonostante il "signore" in questione si vanti di rifarsi (e citi) agli ormai mitici archivi aperti da Gorbaciov, in fondo le sue fonti principali rimangono gli scritti e i pamphlets che l’emigrazione bianca (dai socialisti-rivoluzionari ai monarchici) faceva circolare pubblicamente a Parigi e a Londra negli anni venti. Tra questi spiccano i rapporti della commissione istituita da Denikin, capo delle armate bianche del fronte sud-occidentale, per "documentare" i supposti crimini dei bolscevichi. In effetti, è questo il metodo storico utilizzato: largo spazio e totale credibilità agli avversari del bolscevismo, denigrazione e diffidenza estreme verso le fonti ad esso favorevoli. Così, però, non si capisce come i bolscevichi abbiano potuto conquistare il potere e vincere una tremenda guerra civile, il blocco imperialista e l’intervento straniero se il loro potere era fondato esclusivamente sulla Ceka, diretta da Dzerzinsky, ma ispirata da quel "mostro" di Lenin.

Aggrappato alle calunnie di SR e zaristi, Werth non dà nessuna spiegazione delle ragioni del successo bolscevico, se non l’uso parossistico del terrore, attribuendo ai rivoluzionari in genere, e a Lenin in primo luogo, una sete di potere e di sangue che i vampiri cinematografici, al confronto, sembrano anemiche beghine. Non manca, naturalmente, il paragone con lo zar Ivan IV il Terribile e con il presunto spirito sanguinario del popolo russo, per "dimostrare" il ricorso premeditato alla violenza più estrema da parte di Lenin.

In realtà se si esclude Mosca, dove i Bianchi inaugurarono il terrore mitragliando col tradimento i prigionieri rossi (6), "il trasferimento [del potere - ndr] ai bolscevichi avvenne quasi ovunque pacificamente, sebbene con qualche settimana di ritardo nei centri più remoti" (7) e anzi il nuovo potere sovietico si dimostrò straordinariamente generoso, troppo generoso, tanto da doversene pentire amaramente in seguito, nei confronti degli avversari di classe. Gli ufficiali cadetti presi prigionieri al Palazzo d’Inverno, parecchi ministri, il generale Krasnov, futuro comandante delle armate bianche (per citare qualche esempio) furono liberati sulla parola, e Lenin giustamente poteva vantarsi di non essere stati costretti ad impiegare uno strumento maneggiato da tutti i rivoluzionari della storia, compresi quelli borghesi:

Ci si rimprovera di impiegare il terrore. Ma a un terrore come quello dei rivoluzionari francesi, che ghigliottinavano gente inerme, noi non siamo ricorsi, né, spero, ricorreremo [...] Quando abbiamo arrestato qualcuno, gli abbiamo detto: ‘ti lasciamo andare, se ci firmi una promessa di non compiere atti di sabotaggio’. E queste promesse sono state firmate. (8)

Si rimprovera a Lenin di non escludere comunque il terrore? Le disgustosamente ipocrite anime belle della democrazia borghese fingono di non sapere che una rivoluzione non è una scampagnata da circolo filatelico, se anche un "insospettabile" - non il "sanguinario" Robespierre, si badi bene - come Thomas Jefferson, autore della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America e futuro presidente, a proposito della violenza rivoluzionaria diceva che:

Nella lotta, lotta che fu necessaria, molti colpevoli furono eliminati senza giudizio, e, con essi, alcuni innocenti. [...] Fu necessario, infatti, impiegare l’arma del popolo [...] cieca anch’essa in una certa misura.

Più di un secolo dopo, Dzerzinskij difendeva lo stesso concetto riprendendo quasi le stesse parole:

La Ceka non è un tribunale. La Ceka è la difesa della rivoluzione allo stesso modo dell’esercito rosso. Come l’esercito rosso, nella guerra civile, non può fermarsi per chiedersi se la sua azione non possa recar danno ai singoli individui, ma deve perseguire una cosa sola, e cioè la vittoria della rivoluzione sulla borghesia, così la Ceka deve difendere la rivoluzione e abbattere il nemico anche se la sua spada rischia qualche volta di cadere sul capo di un innocente. (9)

In realtà se non mancarono localmente ed occasionalmente uccisioni in massa di borghesi, frutto però non di un piano preordinato, ma della rabbia proletaria...

il processo di sviluppo della Ceka fu graduale, e furono di volta in volta le circostanze esterne, piuttosto che un piano qualsiasi, a determinarlo. (10)

È solo con l’inizio della guerra civile, in seguito alla sollevazione, istigata e pagata dall’Intesa, dei prigionieri cecoslovacchi e, soprattutto, degli attentati degli SR a Volodarskij, Uritskij e Lenin (luglio - agosto 1918) che i bolscevichi furono costretti a ricorrere al terrore rosso, fino ad allora molto contenuto, per non venire sopraffatti dalla controrivoluzione (11). Lo stesso Werth, evidentemente accecato dall’odio anticomunista (in fondo, c’è del comico), riferisce di un rapporto di Lacis, stretto collaboratore di Dzerzinskij, secondo il quale, ancora nell’agosto 1918:

i nostri vengono uccisi a centinaia e a migliaia. Noi giustiziamo i loro a uno a uno, dopo lunghi dibattimenti davanti a commissioni e tribunali. (12)

La stessa esecuzione della famiglia Romanov, attribuita - dal curatore - all’odio vendicativo di Lenin (13), fu invece decisa in tutta fretta e autonomamente dal soviet dell’Ural di fronte all’avanzata travolgente dei cecoslovacchi (14). Ovviamente, il nostro "ben informato" storico, non crede ai bolscevichi, né alla loro preoccupazione di limitare il più possibile gli inevitabili arbitrii, espressa , tra l’altro, in un congresso panrusso dei soviet (15); per lui il terrore rosso fu qualitativamente diverso, cioè peggiore, di quello dei Bianchi, che, comunque, non fu mai sistematico e, in ogni caso, fuori dal controllo di quegli umanitari che vanno sotto il nome di Kolcak, Vrangel’, Denikin. Non si può non ridere di fronte a tanta enormità, quando afferma che il pogrom in Ucraina in cui perirono 150.000 (!) civili tra l’estate e l’autunno del 1919, fu opera solamente di "alcuni distaccamenti dell’esercito di Denikin e alcune unità di Petlura [corsivo nostro - ndr]" sfuggiti al controllo dei comandanti, che però condannarono l’accaduto (16). Questi "alcuni" devono aver "tirato" coca come forsennati, per aver compiuto un tale macello in pochi e in così poco tempo!

La verità è che i Bianchi, di qualsiasi sfumatura politica (non ci stancheremo mai di ripeterlo), avevano immediatamente scatenato il terrore di massa contro comunisti e proletari là dove potevano: dalla Finlandia - aprile 1918, nota bene - alla comune di Baku, al governo dei democratici costituenti di Samara, le forze rivoluzionarie erano state (e saranno) selvaggiamente sterminate per fare terra bruciata alla rivoluzione. (17)

Come dicevamo, specialmente in questo lungo capitolo non si riesce a capire quali siano state le basi sociali della rivoluzione, se i bolscevichi avevano contro tutti gli strati della popolazione: dagli operai ai contadini, passando naturalmente dai "poveri" borghesi, preti e nobili. In effetti, messi con le spalle al muro, non si può far altro che accreditare la tesi del film "Anastasia" (vedi sopra), secondo il quale i bolscevichi erano degli malvagi esseri soprannaturali. Tanto per cominciare, solo lo strato plebeo (ma si capisce che Werth vorrebbe dire plebaglia) della classe operaia sarebbe stato la base dei bolscevichi; una classe rozza, incivile, analfabeta, di recentissima origine contadina - il che, riguardo quest’ultimo aspetto, in molti casi è vero - che, demagogicamente eccitata da Lenin (dalla sua sete di potere), avrebbe trascinato nel gorgo rivoluzionario anche i più acculturati quadri bolscevichi. (18)

Per inciso, questa tesi è diametralmente opposta a quella di certi "fu" operaisti, che, al contrario, nel loro rozzo e antidialettico determinismo sociologico, giudicavano il "leninismo" (ovviamente respingendolo) un’espressione dell’operaio di mestiere, intrinsecamente riformista, contrapposto al mitico operaio-massa, che con il suo istintivo e sacrosanto rifiuto della "forma-partito" avrebbe incarnato la vera alternativa al capitale. Facciamo queste osservazioni per puro dovere d’informazione e proseguiamo oltre, perché di queste idiozie ci siamo già abbondantemente occupati.

Per provare una delle sue tesi portanti ossia che la classe operaia era ostile ai bolscevichi, Werth cita scioperi e rivolte operaie avvenute a Tula e ad Astrakhan in piena guerra civile (19), ma soprattutto gli scioperi del marzo 1919 a Pietrogrado. Che le condizioni della classe operaia fossero tragiche dopo tre anni di guerra imperialista e con la guerra civile che infuriava, non era un mistero per nessuno, tanto meno per i bolscevichi - vedi, per es., l’intensissimo dibattito/scontro sulla militarizzazione del sindacato - i quali, tra le mille difficoltà in cui si dibattevano, avevano anche quella di non perdere la loro base sociale; non tanto dal punto di vista politico, quanto fisico. La popolazione di Pietrogrado, infatti, si era praticamente dimezzata, e lo stesso accadeva in tante altre città: la classe operaia, letteralmente alla fame, rifluiva verso le campagne in cerca della sopravvivenza; non solo, i migliori elementi accorrevano nelle schiere dell’Armata Rossa ed erano generalmente i primi a morire su tutti i fronti, perché più coscienti, più audaci e risoluti nel trascinare una massa di uomini non di rado preda della demoralizzazione davanti alla superiorità militare del nemico. (20)

È naturale che in questo quadro, in cui ebbero la loro parte anche certe scelte sbagliate dei bolscevichi, frutto a loro volta del ritardo della rivoluzione in Occidente, la classe si sbandasse e si facessero strada la stanchezza, il calo di tensione rivoluzionaria, il "si salvi chi può", aprendo dei varchi attraverso i quali il vecchio mondo cercava di riemergere.

Con buona pace dei teorici dell’impotenza proletaria - anarchici, consiliaristi, spontaneisti democratoidi vari - non esiste né esisterà mai una spontaneità operaia pura. A Tula, Astrakhan, Pietrogrado, gli operai erano arringati dai menscevichi e dai SR che agitavano strumentalmente le enormi difficoltà materiali della classe per far passare parole d’ordine controrivoluzionarie. Se la richiesta di aumentare le razioni alimentari era più che comprensibile, per quanto pressoché impossibile da soddisfare, la richiesta di liberare i prigionieri politici partiva direttamente da menscevichi e social-rivoluzionari, profondamente compromessi con la controrivoluzione armata interna e internazionale.

Noi non siamo idealisti, non mitizziamo la classe operaia; sappiamo che essa o è rivoluzionaria o non è nulla, destinata a subire o, peggio, a scimmiottare l’ideologia della classe dominante. È un nostro assunto fondamentale, tratto dall’analisi materialistica della realtà, che solo in determinati e altamente "concentrati" momenti storici, il programma del comunismo diventa patrimonio del proletariato, essendo quest’ultimo normalmente sottomesso all’ideologia borghese, alla "routine e il torpore del suo modo di vita - alla - suggestione ipnotica della legalità pacifica". Ma in quei determinati momenti...

il ruolo giocato dal vertice - da una parte lo Stato, dall’altra il partito rivoluzionario - acquista una colossale importanza. Una spinta, da destra o da sinistra, è sufficiente a muovere il proletariato per un certo periodo verso l’una o l’altra parte. Ne abbiamo avuto una prova nel 1914, quando, sotto la comune pressione dei governi imperialisti e dei partiti socialpatriottici, la classe operaia venne [...] gettata sulla via dell’imperialismo. Abbiamo potuto constatare come l’esperienza della guerra [abbia] scosso le masse in senso rivoluzionario, portandole sempre più vicine all’aperta rivolta contro il capitalismo. In tali condizioni, la presenza di un partito rivoluzionario che si renda chiaramente conto delle forze fondamentali della nostra epoca e dell’importanza eccezionale, tra esse, di una classe rivoluzionaria; che conosca la sua inesauribile potenza nascosta; che creda in questa classe e creda in se stesso; che si renda conto della validità del metodo rivoluzionario [...] che sia pronto a impiegare questo metodo sino alla vittoria finale - la presenza di un tale partito rappresenta un fattore di incalcolabile importanza storica. (21)

Ora, tra il 1918 e il 1919 la classe, come si diceva, stava perdendo i suoi elementi d’avanguardia, dunque la sua guida rivoluzionaria. Gli operai della Putilov di Pietrogrado (scesi a un quarto dei loro effettivi rispetto al 1917) che, a quanto afferma Werth, mentre acclamavano i SR schernivano Lenin e Zinoviev al grido di "abbasso gli ebrei, abbasso i commissari", erano gli stessi del 1917? In parte, probabilmente sì, ma erano cambiati, anzi, erano regrediti facendo riaffiorare il marciume che la società divisa in classi, poco o tanto, deposita nella mente e nei cuori dei suoi anonimi e atomizzati, cioè egoistici e asociali, cittadini.

La fede superstiziosa nella spontaneità operaia è incomparabilmente più generosa dell’infame superstizione antisemita, ma l’una e l’altra sono espressioni dello smarrimento operaio. La classe non è omogenea, al suo interno, oltre alle stratificazioni sociologiche, certamente non trascurabili, ci sono le Vandee e le avanguardie, entrambe frutto di complessi processi storico - sociali. Dunque, se è vero che il partito senza i soviet è come sospeso nel vuoto, è altrettanto vero che i soviet senza il partito sono organismi ciechi, destinati a trasformarsi in tragiche caricature del parlamentarismo borghese, obbligati a imboccare la via senza ritorno della sconfitta più completa. Questo, la storia finora ci ha detto, senza eccezione alcuna!

Lasciamo dunque Werth ai suoi deliri, e registriamo il fatto, da lui raccontato, che Astrakhan, in cui sarebbero stati annegati dai 2000 ai 4000 operai (alla faccia del rigore storico!), ultimo ostacolo al congiungimento tra le armate di Denikin e Kolcak, non cadde tuttavia nelle mani dei Bianchi, nonostante la presunta insurrezione operaia contro i Rossi; così come registriamo che la Pietrogrado operaia, privata del grado di capitale per paura di rivolte proletarie e non dell’avanzata dell’esercito tedesco (?!) - ma è sempre il buon Werth a darci questa esilarante notizia (22) - sfinita dalla fame e da privazioni inaudite, abbia saputo mettere in campo un esercito operaio capace di vincere, a prezzo di enormi sacrifici di sangue, le armate controrivoluzionarie di Judenic, di gran lunga superiori dal punto di vista bellico. (23)

Qualsiasi persona sana di mente e con la coscienza sgombra da precostituiti e interessati teoremi, si rende facilmente conto che poche migliaia di persone, per quanto spietate, non avrebbero mai potuto reggere l’urto congiunto di eserciti armatissimi e di una popolazione totalmente ostile. La verità, infatti, è che i bolscevichi avevano dietro di se il grosso della classe operaia e, se non proprio sempre l’appoggio entusiasta, almeno la neutralità dei mondo rurale. Fu questa solidità che seppe superare le ben più reali rivolte contadine.

Com’è noto, la vittoria dell’Ottobre fu resa possibile anche grazie a un compromesso col contadiname ossia all’accoglimento - in gran parte - delle aspirazioni borghesi di questa classe: divisione della terra e non socializzazione, dunque proprietà privata, mercato, ecc. Questo fragile equilibrio localmente si ruppe più volte durante la guerra civile, proprio perché con la spartizione delle grandi tenute il contadino aveva raggiunto il suo obiettivo storico: era proprietario e tanto gli bastava. Della rivoluzione proletaria mondiale spesso poco o nulla gli importava; nel suo pidocchioso individualismo appoggiava i bolscevichi contro la reazione dei grandi proprietari terrieri difesi dalle guardie bianche, ma ammazzava i comunisti che requisivano i raccolti per sfamare le città e l’esercito rosso. Facendo leva su questo apparente paradosso, le forze della democrazia piccolo-borghese, SR in testa, cercavano di scardinare il potere proletario nel sogno impossibile di incunearsi tra i bolscevichi e la controrivoluzione monarchico - liberale. E qual era il programma politico delle insurrezioni contadine, dal basso Volga all’Ucraina?

La terra ai contadini, libertà di commercio, soviet liberamente eletti ‘senza moscoviti né ebrei’, ‘morte ai giudei e ai comunisti’.

Ad esse facevano eco i cosacchi del Don, da sempre le truppe scelte della repressione zarista, che insorsero contro i comunisti perché "noi cosacchi [...] siamo contro i comunisti, la comune e gli ebrei"; gli insorti si unirono poi a Denikin, dandogli un aiuto fondamentale nella sua (temporanea) avanzata. (24)

Al democratico Werth lasciamo volentieri i suoi beniamini, che riassumono il meglio che si può la grettezza, il localismo, la ristrettezza di vedute, l’egoismo mercantile piccolo- borghese e, dulcis in fundo, l’antisemitismo di una parte della classe contadina; una parte, certamente, perché altrimenti (al solito) i bolscevichi non sarebbero durati tre giorni.

E le rivolte contadine, come l’insurrezione di Kronstadt, aprono la strada a una delle tesi fondanti non solo del capitolo ma dell’intero libro: la grande carestia che colpì la Russia nel 1921 - 22 è da imputare unicamente ai comunisti, per la loro politica anticontadina delle requisizioni forzate. Gli eventi bellici precedenti e il blocco ancora in corso, per Werth non contano assolutamente nulla, perché i bolscevichi portano la macchia indelebile del peccato originale: la rivoluzione. Se non ci fosse stata la rivoluzione d’Ottobre - è la tesi suggerita - la Russia si sarebbe incamminata verso un luminoso avvenire di prosperità e di democrazia. Il punto è tutto qui: gli sfruttati, gli oppressi, i diseredati non devono insorgere contro il potere che li opprime, quest’ultimo è l’unico legittimo e legittimato a usare la violenza, e gli insorti sono dunque responsabili delle indicibili sofferenze che la classe dominante rabbiosamente infligge loro.

Ma l’orgia anticomunista tocca, forse, l’apice, quando Lenin è accusato di aver ostacolato il Comitato per gli aiuti internazionali agli affamati con la motivazione - inconsistente e mostruosa, secondo il libraccio - che tale organismo, composto anche da intellettuali cadetti, era in realtà uno strumento degli intrighi di tutte le opposizioni controrivoluzionarie. Non solo, Lenin avrebbe così replicato il comportamento tenuto durante la carestia del 1891, allorché "Stato e società avevano fatto a gara per soccorrere i contadini afflitti dalla siccità" [che fraterna armonia, lo zarismo - ndr] mentre già allora il futuro capo bolscevico sarebbe stato l’unico intellettuale di Samara "che oltre a non partecipare al soccorso sociale agli affamati, si pronunciò categoricamente contro gli aiuti", perché, sempre secondo le memorie di un ex amico di gioventù di Lenin, in seguito emigrato come controrivoluzionario, "distruggendo l’economia contadina arretrata la carestia avvicina all’obiettivo finale, al socialismo". (25)

Per quanto riguarda la prima questione, Carr dice che effettivamente le potenze straniere e i borghesi del Comitato cercarono di servirsi di esso come un cavallo di Troia dentro il potere sovietico. (26)

Sulla seconda, diamo la parola direttamente a Trotsky, il quale spiega che quei ricordi riproducono...

non tanto l’opinione di Ul’janov quanto il loro riflesso deformato nella coscienza di liberali e populisti. È troppo assurda in se stessa l’idea che la rovina e la lenta estinzione dei contadini avrebbero potuto contribuire all’industrializzazione del paese. I contadini ridotti alla miseria si trasformavano in indigenti e non già in proletari. La carestia alimentava tendenze al parassitismo, anziché ad un’economia progressista [...] Naturalmente i marxisti si pronunciavano non già contro i soccorsi agli affamati, ma contro le illusioni di poter vuotare il mare del bisogno col cucchiaino, per così dire, della filantropia. Se il rivoluzionario avesse occupato nei comitati legali e nei refettori il posto appartenente di diritto ai membri degli zemstvo o ai funzionari, chi avrebbe occupato il posto del rivoluzionario nell’azione clandestina? Dalle circolari e ordinanze ministeriali che furono pubblicate più tardi, risulta incontestabilmente che il governo assegnava somme sempre più forti a favore degli affamati solo per il timore di un’agitazione rivoluzionaria, di modo che la politica rivoluzionaria si rivelava molto più efficace della filantropia neutrale anche dal punto di vista degli aiuti immediati. (27)

Meditate, riformisti e pacifisti....

Ma qui ci fermiamo e non proseguiamo oltre nell’analisi del libro, perché il resto, in un certo senso, non ci interessa, in quanto la Russia dagli anni trenta, la Cina di Mao, Pol Pot, gli "Afrocomunismi", come abbiamo detto un miliardo di volte, col comunismo non c’entrano proprio nulla, non essendo altro che il prodotto della controrivoluzione che per comodità chiamiamo staliniana: insomma, varianti del medesimo capitalismo di Stato spacciato per comunismo. Rigettiamo dunque con forza quanto Courtois afferma nelle ultime pagine del libraccio e cioè che l’unica istanza legittimata a definire chi è o non è comunista sia l’URSS (28), perché è proprio quella legittimità che da settant’anni almeno neghiamo.

È difficile dire quali sia la parte peggiore di questo libro, ma forse nella conclusione è racchiusa la ributtante essenza dell’intero volume: non c’è riga che non trasudi odio, che non distilli falsità, menzogne, deformazioni coscienti del pensiero e dell’azione del comunismo. Pescando a caso, Marx diventa un critico riformista della comune, Engels un gradualista che rifiuta la violenza di classe, Lenin sostenitore del socialismo in un solo paese (29); rifacendosi a Kautsky, Martov, alla socialdemocrazia tedesca, all’austro-marxismo, bolla come assassini i comunisti passati, presenti e futuri (che si augura scomparsi dalla faccia della terra) per il solo fatto di essere comunisti, in quanto:

La dottrina è diventata un’ideologia criminogena per il semplice fatto di negare un dato fondamentale, l’unità [della] ‘specie umana e ciò che il preambolo della Dichiarazione dei diritti umani del 1948 denomina ‘la famiglia umana’. (30)

Se ci è permesso un parallelo, così come Machiavelli, primo teorico dello stato borghese, venne (e viene) coperto di infami calunnie perché, analizzando i meccanismi del potere signorile, rivelò "di che lagrime grondi e di che sangue", allo stesso modo il marxismo viene accusato di perseguire la divisione della "famiglia umana" perché fin dai suoi primi potenti vagiti scoprì la natura ideologica, falsa e ipocrita del pensiero borghese, che, capovolgendo la realtà, mentre parla genericamente di "uomo" integrale, fonda la sua società sulla divisione degli esseri umani tra di loro e con se stessi.

Non ci può essere una vera comunità umana finché la società è divisa in classi antagoniste, finché pochi sfruttatori vivono tra privilegi immensi sfruttando la stragrande maggioranza degli esseri umani, e per conservare questi privilegi non si fermano di fronte a nulla: la morte per fame di milioni di uomini, donne e bambini (venti milioni da qui al 2000, secondo stime FAO), le malattie, le guerre, il degrado ambientale. Questo è ciò che la borghesia cerca di coprire con la sua ruffiana Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Nel gran finale Courtois ridà voce a Kautsky e condanna, di nuovo, per l’eternità i bolscevichi (31) perché essi, come misura punitiva, restringevano le razioni alimentari ai borghesi controrivoluzionari, per sfamare, nella fame generalizzata, l’esercito rosso e gli operai; perché requisivano le pellicce per mandarle ai combattenti che mancavano di tutto; perché i soviet infrangevano il feticcio bugiardo del "cittadino", vietando ai borghesi il diritto di voto per riservarlo esclusivamente agli operai, ai soldati, ai contadini, cioè alla quasi totalità della popolazione o, sia detto en passant, la popolazione lavoratrice e sfruttata. L’uguaglianza formale, ipocrita e menzognera tra "cittadini", tra il povero in canna e il ricco miliardario veniva sbugiardata, spezzata e gettata nella pattumiera della storia.

Lo stalinismo in decomposizione

Nonostante le apparenze, anche la fitta schiera di intellettuali "di sinistra" che hanno affollato le pagine dei giornali con i loro commenti al "Libro nero..." condivide in gran parte alcuni basilari presupposti teorici dei redattori del libraccio, tanto che, seppur con ruoli diversi, possiamo tranquillamente arruolarli nella grande armata della controrivoluzione. Tra la carta stampata, si è distinto il Manifesto, specialista in questo genere di cose, che ha ospitato per parecchie settimane una serie di interventi sulla "fine del comunismo". Come il "Libro nero", infatti, chi più chi meno, tutti hanno decretato la sua morte, dando per scontato che l’Unione Sovietica e tutti gli altri paesi del "socialismo reale" fossero espressioni, diversamente riuscite, del "comunismo novecentesco"; tutti, o quasi, con sfumature differenti, hanno accreditato come buona la serie Lenin-Stalin-Mao e via dicendo.

La Rossanda (il Manifesto 25/2/98), da brava ex stalinista, ha sfoderato il suo kautskismo di sempre, con un invito a leggere il libro:

perché i comunisti non hanno ancora fatto alcun bilancio dei socialismi reali, e tanto meno del perché la repressione ne sia diventata una struttura ordinativa.

Se per comunisti intende chi, come lei, è nata e cresciuta nello stalinismo, siamo perfettamente d’accordo, ma ovviamente non concordiamo per niente con il suo metodo e in più non siamo affatto sicuri della sua buona fede. La Rossanda non può non sapere delle correnti comuniste di sinistra che si opposero allo stalinismo fin dal suo primo apparire, che, dunque, mentre facevano il bilancio della controrivoluzione, lottavano contro di essa pagando prezzi altissimi. Ma non le nomina mai, così come non sono mai esplicitamente nominate né dagli altri interventi (sul Manifesto), né dagli autori del "Libro...", se non, in quest’ultimo, frettolosamente il trotskismo, giudicato per altro anch’esso criminale.

Non c’è nessuna traccia della Sinistra Italiana o di altre correnti, che seppure in maniera a volte confusa e contraddittoria fecero una critica serrata alla Russia stalinizzata. Al massimo, tra i problematici intellettuali del Manifesto, possiamo trovare generici riferimenti a un non meglio precisato marxismo eretico, ma anche con questa espressione non si fanno grandi passi avanti, anzi, perché si presuppone comunque che il comunismo vero fosse quello dell’URSS. Così, proprio chi per lunghi decenni, scontando un isolamento pesantissimo dalla classe, non si è spostato dal terreno rivoluzionario, è collocato nel baraccone delle curiosità bizzarre e un po’ folcloristiche. Non abbiamo certo bisogno del riconoscimento dell’ "accademia" per rivendicare l’aderenza al metodo marxista di chi ha saputo meglio e prima di altri analizzare la natura sociale dell’URSS.

Lungi da noi la volontà di riaprire inutili battibecchi coi compagni bordighisti, ma è d’obbligo sottolineare che nella polemica tra Onorato Damen e Amadeo Bordiga, premessa purtroppo della frattura del campo internazionalista (1952), Damen, rimanendo ideologicamente sul terreno del materialismo dialettico, ritenne risolto il problema della individuazione dell’esistenza di una classe dominante (borghesia di stato), una volta accertata l’esistenza delle categorie economiche che si dispiegano nel processo dell’accumulazione del capitale, mentre Bordiga rovesciava i termini della questione e faceva fatica a parlare di capitalismo di Stato senza prima aver identificato per nome e cognome i borghesi, perdendosi nelle nebbie dell’industrialismo di Stato. Proprio per questa inversione della dialettica materialista solo più tardi e non senza ambiguità, anche Bordiga arriverà a riconoscere nell’URSS un paese a capitalismo di Stato.

Di tutto questo e di altro ancora non v’è traccia, va ripetuto, nell’articolo della Rossanda (e degli altri), anzi c’è il recupero a ritroso del vile e antimarxista kautskismo, con l’immancabile riferimento alle "condizioni di maturità di una rivoluzione comunista", dove tanto tormentoso dilemma presuppone già una risposta negativa. La visione leniniana dell’imperialismo come fase nella quale i paesi sono legati da un’unica catena in cui l’anello più debole può essere rotto e da lì partire per scardinare il capitalismo dalle fondamenta, è liquidata con la solita insulsa qualifica di "volontarismo".

Questi squallidi notai dell’esistente si sono sempre trincerati dietro il "dato oggettivo", dietro il loro "pusillanime fatalismo storico che, in tutte le questioni concrete e particolari, si nasconde dietro un passivo riferimento alle leggi generali, lasciando da parte la molla principale: l’uomo che vive e che agisce" (32), trovando sempre la situazione immatura per la rivoluzione. La loro esitazione, l’azione di freno che svolgono su masse operaie ancora indecise, diventano allora un importantissimo elemento a favore della reazione borghese: se la rivoluzione in Occidente non è scoppiata o è stata schiacciata nel sangue - spianando in tal modo la strada allo stalinismo - lo si deve prima di tutto non alla camicia nera o alla croce uncinata, ma alla socialdemocrazia, dentro e fuori i governi borghesi.

E a quella specie particolare di socialdemocratici che sono stati gli ex picisti, va indubbiamente riconosciuto un posto particolare nel saturnale anticomunista; da vecchi stalinisti non si smentiscono mai e ciò che hanno imparato alla scuola del tradimento e della menzogna viene immancabilmente riversato sulle colonne dei giornali. Per esempio, Chiarante (il Manifesto 16/3/98) non si scompone affatto nel dire, a proposito dei crimini staliniani, che:

si tratta del resto di meccanismi [...] già noti o comunque facilmente conoscibili ormai da molti anni, anche prima del famoso ‘rapporto Krusciov’.

Verissimo, anche perché il suo partito era un ingranaggio indispensabile di quei "meccanismi già noti"; ovviamente, però, si guarda bene dal trarne le dovute conseguenze e per spiegare "il fallimento della speranza comunista", che dà per certo e definitivo, deforma coscientemente la storia, attribuendo ai bolscevichi e ai rivoluzionari in genere una concezione e una prassi della trasformazione sociale che, al contrario, è propria della socialdemocrazia e dei PC stalinizzati.

Infatti, per il nostro ineffabile Chiarante, l’opinione secondo la quale la classe operaia "poteva riscattarsi e affermarsi solo attraverso la conquista del potere politico [è] di forte impronta positivistica".

È quasi penoso dover rispondere a simili macroscopiche falsificazioni, perché chiunque abbia masticato un po’ di storia del movimento operaio sa benissimo che fu proprio il positivismo di fondo della Seconda Internazionale - che si concretizzava in gradualismo, riformismo, feticismo parlamentaristico - l’abito ideologico della controrivoluzione socialdemocratica: "Gli adoratori politici della routine, incapaci di comprendere il processo storico nella sua complessità, nei suoi contrasti e nelle sue contraddizioni interne, si immaginavano che la storia stesse preparando ovunque, sistematicamente e simultaneamente, la strada all’avvento di un ordinamento socialista, così che la concentrazione della produzione e lo sviluppo di una moralità comunista nel produttore e nel consumatore maturassero contemporaneamente alla meccanizzazione dell’agricoltura e della maggioranza parlamentare. Da qui l’atteggiamento puramente meccanicistico verso il parlamentarismo, che agli occhi della Seconda Internazionale, indicava il grado in cui la società era pronta per il socialismo con la stessa precisione di un manometro che indica la pressione del vapore. Non c’è niente di più assurdo di questa rappresentazione meccanicistica dello sviluppo delle relazioni sociali" (33).

Ma per la sua plateale spudoratezza, per l’uso cosciente e consapevole della menzogna, anche Tortorella non è da meno del suo collega. Sul Manifesto (13/3/98) non si vergogna di affermare che:

quel sistema [l’URSS - ndr], come aveva giustamente visto anche l’ala trotzkista del movimento comunista, [aveva] assunto la forma di capitalismo di Stato.

Mente sapendo di mentire: il trotskismo, e a maggior ragione i trotskisti, non hanno mai parlato di capitalismo di Stato e di integrale controrivoluzione, ma di "Stato operaio degenerato" e di Termidoro, essendo implicito in queste definizioni che le acquisizioni fondamentali dell’Ottobre si sono mantenute anche durante lo stalinismo. Niente di più falso.

Dunque, dietro il tentativo di assumere in chiave opportunistica il nucleo centrale della nostra critica allo stalinismo (nostra, non del trotskismo!) si intravede lo scopo di impedire che essa resti una specifica caratterizzazione di una corrente che si è mantenuta coerente con il comunismo rivoluzionario. Allo stesso modo, l’accanimento fuori dal comune con cui sia gli autori del "Libro nero", che parecchi degli interventi sul Manifesto, si gettano contro Lenin, si spiega solamente col fatto che, al di là delle sue analisi generali, l’esperienza del capo bolscevico non ammette altre soluzioni oltre a quella rivoluzionaria, e noi a quella esperienza, nella misura in cui ne abbiamo compreso le ragioni del crollo, diamo credibilità e attualità, diversamente dal trotskismo, che con lo stalinismo ha puttaneggiato e tuttora puttaneggia.

"47 morto che parla". Così, con una battuta alla Totò, si potrebbe liquidare il litigiosissimo campo trotskista, frammentato in una miriade di sette e sotto-sette, tutte impegnate a contendersi l’eredità del Trotsky peggiore. Ma la cosa è troppo seria per riderci (solamente) su. La presa che il trotskismo ha - e potrebbe avere - su certi settori di classe, per quanto limitata possa essere, è un ulteriore ostacolo che si frappone tra la classe o gli elementi più sensibili di essa e il programma della rivoluzione comunista. Infatti, mentre perseguono una politica schiettamente riformista e neo keynesiana, nel sogno assurdo di strappare riforme strutturali in un’epoca in cui il capitalismo ha sprangato le porte a qualsiasi riforma che non sia antioperaia, i trotskisti continuano ad accanirsi nella ripetizione di formule che la storia ha ampiamente smentito. Incollati ai loro pregiudizi, sul fenomeno staliniano non sanno fare altro che belare risibili spiegazioni, sempre parziali e superficiali.

Non può essere altrimenti. Là dove la nostra corrente, come si diceva, ha visto un gigantesco processo controrivoluzionario che si manifestava, oltre che nello stermino dei rivoluzionari, nell’industrializzazione a tappe forzate ossia nella costruzione del capitalismo di Stato, i trotskisti ancora oggi e contro ogni evidenza, riescono a vedervi la spinta propulsiva dello "slancio rivoluzionario" dell’Ottobre:

È sempre questo slancio a consentire di spiegare le contraddizioni e le ambiguità della ‘grande trasformazione’ operata con dolore nell’intervallo fra le due guerre, in cui ancora si mescolano il terrore burocratico e il vigore dell’esperienza rivoluzionaria. (34)

Incredibile, ma è così, a riprova di quanto il peso dell’ideologia possa stravolgere la realtà. E nel tentativo di puntellare i ruderi di quella che storicamente è stata, per breve periodo, la più grande esperienza rivoluzionaria del proletariato, la Terza Internazionale, hanno disceso uno ad uno i gradini della controrivoluzione, ritrovandosi (da gran tempo, per la verità) nel campo della socialdemocrazia. Incapaci di comprendere le cause strutturali dello stalinismo, quindi incapaci di indicare corrette prospettive rivoluzionarie, non possono che compilare miserevoli manualetti democraticistici, per "prevenire" le storture burocratiche.

La distinzione delle classi, dei partiti e dello Stato deve tradursi nel riconoscimento del pluralismo, politico e sindacale, come la sola cosa che consenta il confronto di programmi e di scelte alternative su tutte le principali opzioni sociali. (35)

Apprendiamo dunque dai trotskisti che le classi esistono, ma non esprimono più interessi opposti e inconciliabili, per cui le varie classi possono, anzi, devono, discutere democraticamente su quale "sistema" sociale adottare: addio rottura rivoluzionaria. È quindi del tutto logico che il rimedio contro ogni degenerazione di questo paradiso interclassista sia individuato in una specie di equilibrismo istituzionale ossia il vecchio dualismo di potere: i soviet più un normalissimo parlamento eletto a suffragio universale. È il menscevismo che ritorna, è la "Costituente di Samara" che si ripresenta sotto mentite spoglie rivoluzionarie; quale ironia della storia: i nipoti di Trotsky avvolti nelle stesse bandiere da lui, negli anni migliori, vittoriosamente combattute. Così, dopo aver fatto strame della teoria marxista dello stato, il trotskismo si immerge fino in fondo nel fango democratico - borghese e, rincarando la dose, individua nella "assenza di cultura democratica", "il non possedere tradizioni parlamentari e pluraliste" (36) un’altra importante causa del "Termidoro".

Ma la verità, qualunque cosa pensino i trotskisti, è ben diversa e cioè che proprio il peso di "tradizioni parlamentari" borghesi pluridecennali, inquinando in profondità strati tutt’altro che esigui di classe operaia occidentale, contribuì non poco a trattenere questi settori di classe dallo slancio rivoluzionario, dando così modo al capitalismo internazionale di riorganizzarsi e di passare tutto sommato indenne attraverso la bufera del "biennio rosso" mondiale.

A forza di guardare con un occhio di riguardo le storicamente progressive (a loro dire) "burocrazie termidoriane", alcuni spezzoni del trotskismo hanno finito per assimilarne i metodi "burocratici" di oscuramento della storia; il sig. Moscato, storico di professione, certe cose dovrebbe conoscerle molto bene, eppure anche lui, come la Rossanda, ritiene che "oggi il ritardo nella riflessione della sinistra [...] è pesantissimo", per cui, quando "pensa" ai critici dello stalinismo non gli viene in mente nient’altro che:

il filone trotskista, ma anche [a] Libertini e poi [allo] stesso Bertinotti, che In tutti i colori del rosso, ha esplicitamente rivendicato le sue letture della Luxemburg e de La rivoluzione tradita. (37)

Moscato, dunque, a differenza di altri intellettuali, non si preoccupa nemmeno di accennare, seppur molto genericamente, all’esistenza delle opposizioni di sinistra non trotskiste; ma oltre a ciò, qualificare Bertinotti come luxemburghiano, è la stessa cosa che considerare gli stupratori degli amanti del sesso femminile. Cosa ci può essere in comune tra Rosa Luxemburg, che mosse i suoi primi passi da rivoluzionaria demolendo il riformismo e, in modo particolare, quei socialisti assertori della necessità di partecipare ai governi borghesi per strappare qualche (misera) riforma, e il sig. Bertinotti, il cui partito è una colonna portante di uno dei governi più antiproletari degli ultimi cinquant’anni? E il sig. Moscato, insigne trotskista, cosa ci fa nel suddetto partito, fianco a fianco di uno stalinista di ferro come Cossutta?

Il capitalismo è in agonia e tutti gli osservatori più attenti si aspettano, nel volgere di qualche anno, una crisi finanziaria di dimensioni gigantesche che non potrà non coinvolgere Stati Uniti ed Europa, e quindi ripercuotersi su tutta l’economia mondiale. Le conseguenze saranno terribili, dunque non è detto che non si riesca a far radicare una testa di ponte per una ripresa del marxismo rivoluzionario e della nostra corrente. Ma allora - lo ricordiamo ancora una volta, prima di chiudere - per la borghesia è urgente fare terra bruciata attorno all’incendio prima che esso scoppi: il senso del "Libro nero" e dei suoi critici appartenenti alla sinistra riformista è tutto qui.

Celso Beltrami

(1) "Il libro nero del comunismo" a cura di S. Courtois, Milano, Mondadori, 1998.

(2) Vedi Battaglia comunista n. 3/98.

(3) "Dopo la metà del XIX secolo la Russia sembrava aver adottato un corso [...] più ‘democratico’. Tra il 1861 e il 1914 fiorirono le università, le arti, gli spettacoli [...] La società sembrava coinvolta in una corrente ‘civilizzatrice’ che la conduceva verso un’attenuazione della violenza a tutti i livelli. E la sconfitta della rivoluzione del 1905 diede anch’essa un impulso vigoroso al movimento democratico della società". Ma in questo quadretto idilliaco "la guerra venne a guastare tutto", "Il libro nero...", pag. 684. A parte la spudorata falsità di questo scenario - e la "Domenica di sangue" del 1905, tanto per fare un esempio? - l’esimio storico non si chiede da dove sia venuta la guerra, forse perché dovrebbe scomodare la natura intimamente bellicista sia del capitalismo che dello zarismo.

(4) "Il libro nero...", pag. 28.

(5) Questo manifesto dei "Bianchi" e un altro polacco del 1920, su Trotsky comunista - giudeo - mostro sanguinario, sono riprodotti nel libro iconografico "Trotsky", a cura di D. King - P. Broué, Paris, EDI, 1979.

(6) V. Serge, "L’anno primo della rivoluzione russa", Torino, Einaudi, 1967, pagg. 59-61.

(7) E. H. Carr, "La rivoluzione bolscevica. 1917 - 1923", Torino, Einaudi, 1974, pag. 151, nota 1.

(8) Carr, cit., pag. 153, e Serge, cit., pag. 61.

(9) Cit., rispettivamente, in Carr, pag. 153, nota 1 e pag. 165.

(10) Carr, cit., pag. 158. Lo stesso Werth, suo malgrado, ma lasciando chiaramente capire che sarebbe un dettaglio trascurabile, dice che gli effettivi della Ceka calarono rapidamente tra il 1921 e il 1925, per riprendere a crescere dopo tale data (quando si chiamava GPU); è un caso che dopo la guerra civile l’organo della repressione si ridimensionasse notevolmente, passando da 180.000 a 63.000 militari e da 105.000 a 26.000 civili, e invece aumentasse parallelamente al consolidarsi dello stalinismo?

(11) "Ma il terrore giunse al culmine solo quando gli SR ricorsero nuovamente - e questa volta contro i bolscevichi - al metodo dell’assassinio politico", cfr. Carr, cit., pag. 165. A questo proposito, Carr, storico sicuramente borghese, ma incomparabilmente più onesto dei pennivendoli de "Il libro nero", scrive: "Ma non sarebbe giusto imputare a un solo partito la distruzione di tale opposizione [quella dei SR e dei menscevichi - ndr]: se è vero infatti che il regime sovietico dopo qualche mese di esistenza non era già più disposto a tollerare un’opposizione organizzata, è anche vero che nessun partito legale era disposto a restare nei limiti della legalità, di modo che le premesse della dittatura furono poste da entrambi le parti in causa", op. cit., pag. 180.

(12) Cit. ne "Il libro nero...", pag. 69.

(13) "Il libro nero...", pag. 682.

(14) Serge, cit., pagg. 264 e segg.

(15) Carr, cit., pag. 168.

(16) "Il libro nero...", pag. 77.

(17) Serge, cit, pagg. 172-180; pagg. 269 e segg.

(18) "Il libro nero...", pagg. 47-48; ma tutta la ricostruzione del percorso teorico di Lenin è a dir poco penosa: lasciamo dunque a qualche eventuale lettore che si vuol male il "piacere" di leggersela.

(19) "Il libro nero...", pag. 80 e segg.

(20) L. Trotsky, "La mia vita", Milano, Mondadori, 1976, pag. 371 e segg.

(21) L. Trotsky, "Terrorismo e comunismo", Milano, SugarCo, 1977, pagg. 51-52.

(22) "Il libro nero...", pag. 60.

(23) Un ministro di Judenic scriveva: "Trotsky riuscì a organizzare a Pietrogrado reparti operai comunisti entusiasti e a gettarli nella lotta [...] Si lanciavano contro i carri armati con le baionette, e, mentre file intere cadevano sotto i colpi dei mostri d’acciaio, i superstiti continuavano a difendere tenacemente le posizioni" cit. in Trotsky, "La mia vita", pag. 405.

(24) "Il libro nero...", rispettivamente pag. 89 e pag. 93.

(25) "Il libro nero...", pagg. 114-115.

(26) Carr, cit., pagg. 175 - 176.

(27) L. Trotsky, "Il giovane Lenin", Milano, Mondadori, 1971, pagg. 223-224.

(28) "Il libro nero...", pag. 639.

(29) "Il libro nero...", pagg. 680 e segg.

(30) "Il libro nero...", pag. 702.

(31) "Il libro nero...", pag. 697.

(32) Trotsky, "La mia vita", cit., pag. 373.

(33) Trotsky, "Terrorismo e comunismo", cit., pagg. 49 - 50.

(34) Bandiera Rossa 77, marzo 1998, pag. 10.

(35) Bandiera Rossa, cit., pag. 9.

(36) Bandiera Rossa, cit. pag. 7.

(37) Ibidem.

(38) Bandiera Rossa, cit., pag. 14.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.