Dittatura degli intellettuali un programma borghese etichettato come "socialismo"

Per il suo significato obiettivo e a dispetto delle sue velleità "marxiste" e "comuniste", il socialismo della "sinistra" latinoamericana risponde, in realtà, a un orientamento democratico-borghese. Essa è stata sin dall'inizio la testa ideologica di un semplice movimento nazional/riformista borghese, ornato da una fraseologia socialista.

A dispetto degli ingenui che si sono fatti sedurre dal suo radicalismo verbale, gli attuali governi di sinistra nel mondo stanno applicando quello che finora la destra si era limitata a sognare. Oggi è diventato lampante che l'unico punto in cui la sinistra e la destra differiscono è nel rituale politico e nella retorica che usano per manipolare le masse. Mentre per porre fine al devastante capitalismo mondiale è necessaria l'organizzazione della lotta di classe internazionale - al fine di attuare un sistema in cui solo il proletariato detenga le redini del potere e sia dunque possibile intraprendere la soppressione del modo di produzione e di distribuzione dei beni fondato sullo sfruttamento e sul profitto, facendo in modo che la produzione e la distribuzione siano regolate sulle necessità della società e si ottenga l'espansione della sua ricchezza materiale e culturale con forme sociali e tecnologiche che non minaccino gli equilibri biologici della vita - l'attuale sinistra non solo si è mostrata incapace di portare a termine questo gigantesco compito storico, ma si dimostra sempre di più apertamente ostile ad esso.

Pur avendo attraversato, durante il periodo della guerra fredda, una fase di lotta armata frontale, la sinistra, assieme agli altri strumenti e organizzazioni inglobate nella sua strategia, ha finito per praticare un'azione convergente con le altre formazioni politiche del capitalismo, fino praticamente a dissolversi nell'egemonia totalitaria del capitale. Anche quando si adatta ai particolarismi locali, oggi la farsa politica che interpreta è identica a quella recitata da Chàvez in Venezuela, Antonio Vargas in Ecuador e in Messico dal Subcomandante Marcos, in qualità di pontefex maximus, ai militanti di base della sinistra latinoamericana e mondiale in qualità di asinus portans mysteria. Partecipando strettamente alle dispute borghesi suscitate dalla "globalizzazione", questa tendenza, assieme ad altri settori, ha chiamato i lavoratori dei paesi centroamericani e delle regioni andina e amazzonica, a reagire contro l'imperialismo in nome della falsa, sgualcita, obsoleta e prostituita bandiera tricolore, dietro gli slogans della difesa della "sovranità nazionale" e degli alti interessi del "popolo". Vale a dire, in nome di rivendicazioni proprie di una tappa storica superata da oltre un secolo. Come i vecchi partiti operai di opposizione, tale tendenza, passando sopra le frontiere di classe, si propone di rinchiudere il movimento proletario dentro i vecchi limiti degli stati borghesi o le entità economiche territorialmente limitate, prende come punto di partenza storico le differenze nazionali delle fazioni borghesi che si disputano localmente il potere economico e politico, senza avvedersi che lo sviluppo capitalista ha superato o messo in via di liquidazione tali limiti. In questo modo, si è ridotta a presentare, con le espressioni suggestive di "liberazione nazionale" e di "lotta per il socialismo", i contrasti relativi al posizionamento economico e politico di alcune fazioni borghesi regionali nel quadro attuale dei poteri mondiali del capitalismo.

Senza dubbio, oggi la sinistra, come partito politico (col sandinismo in Nicaragua, con il FMLN in Salvador, con il PRD e l'EZLN in Messico, con il PS in Cile, con il PT in Brasile, con le FARC in Colombia), può esibire numerosi successi militari e politici, ma certamente non ha realizzato neppure un risultato nel conseguimento delle rivendicazioni "borghesi" degli operai, per non parlare del suo apporto alla trasformazione sociale radicale in favore delle masse lavoratrici del continente o, semplicemente, alla crescita della coscienza di classe. Nonostante la costituzione di alcuni governi di sinistra e la travolgente avanzata elettorale dei partiti "operai" in Brasile, Messico, Uruguay, Cile e Argentina, ancora non ci sono segnali indicativi di una caratterizzazione politico-organizzativa in senso anticapitalista delle masse lavoratrici. Nemmeno si è registrato - né si registra - il progresso legislativo e di governo che attenui almeno le conseguenze della crisi che attanaglia le società. Al contrario, nelle ultime decadi si sono intensificati gli aberranti fenomeni che la formazione sociale latinoamericana tradizionalmente conosce.

Il maggior risultato di cui si vantano i presunti rivoluzionari latinoamericani, la Rivoluzione Cubana, non è nient'altro che una società stagnante trasformata in un immenso campo di concentramento per la sua famelica popolazione, dove i metodi autocratici di governo si uniscono a un modello economico di capitalismo di Stato girato come cambiale al capitale finanziario internazionale, prima a quello russo, e poi a quello europeo. Nell'insieme, esso dimostra che il dominio assoluto del capitale sopra le forze produttive materiali e umane della società non è alterato dal segno politico e ideologico degli agenti esecutivi che momentaneamente occupano il potere, né dalle forme che riveste provvisoriamente il confronto a livello politico fra le diverse sfere di interessi della società civile.

Ciò che realmente conta per il capitale e, di riflesso, per la classe che lo gestisce, è che il suo esercizio sia condotto in modo tale per cui gli imperativi dell'accumulazione e della subordinazione della classe lavoratrice siano garantiti; in caso contrario, gli esecutivi provvisori del potere politico saranno rimossi e sostituiti da altri più funzionali. In conformità con questo principio, ha luogo nello stato una continua alternanza del potere - sinistra/destra, fascismo/antifascismo, liberalismo/totalitarismo, ecc. - le cui differenti alternative formali vanno succedendosi l'una dopo l'altra secondo un movimento ciclico le cui coordinate sono tracciate tanto dalle rivalità interimperialiste - dalle quali dipende la sorte immediata della borghesia - quanto dall'efficienza sociale e politico-ideologica dei mezzi amministrativi applicati per perpetuare il controllo sopra la forza-lavoro e riprodurre il capitale a una scala accresciuta. Tale cosa si può avere indistintamente sotto Fujimori o Alan Gracia, sotto la Unidad Popular o Pinochet, sotto Fidel Castro o Max Canosa, sotto il "subcomandante" Marcos o Vicente Fox. D'altra parte, la "vittoria" momentanea di uno di essi è solo una questione di rapporti di forza all'interno delle fazioni borghesi schierate in campo e della loro capacità di rispondere alle domande locali poste dal sistema mondiale del capitale.

Riteniamo strano che nessuno si chieda a cosa spiri l'attuale movimento popolare - e diciamo "popolare" per non trovare un'altra parola che designi la sua eterogenea composizione sociale. Sicuramente ognuno dei suoi diversi elementi offrirà una risposta diversa. I contadini diranno: la terra; i bottegai, i cooperatori, gli industriali piccoli e medi diranno: la libertà dell'industria e del commercio di fronte al potere del monopolio e della oligarchia finanziaria; i professionisti: la protezione statale dei loro diritti corporativi ecc. Tutti puntano a raggiungere la libertà e la giustizia dall'ottica ristretta del piccolo borghese: libertà e giustizia significano per loro protezione dello stato, tariffe doganali, leggi antimonopolio, imposte progressive e leggi contro il lusso dei ricchi, bassi tassi d'interesse, incentivi e sgravi fiscali per i deboli, sistema di cooperative assistite dallo stato, nazionalizzazione delle principali risorse naturali, confisca della terra e ridistribuzione ai contadini, esenzioni, eliminazione dei resti del patriarcato e della servitù, così come degli abusi dei funzionari statali. In breve, sono altrettante restrizioni per i loro oppositori borghesi: i "liberi" ed "uguali" cittadini della grande industria, dell'alta finanza, della proprietà terriera e del commercio in grande scala.

È chiaro che neanche nell'ipotesi in cui fosse possibile l'adozione radicale delle misure di riforma sociale attuate da un governo di sinistra si finirebbe con l'economia mercantile; al contrario, grazie alla nascita di nuove unità economiche e alla semplificazione della base di classe della società, si darebbe libero corso a uno sviluppo capitalista più crudo e intenso, il cui risultato finale sarebbe una maggiore polarizzazione di classe delle masse rurali e urbane. Nessun governo, per potente che sia, ha la capacità di invertire le dinamiche di questa società: solo la rivoluzione sociale del proletariato può farlo.

Confondere a sé stessi la "socializzazione " con la nazionalizzazione - vale a dire il passo verso l'estrema monopolizzazione dei mezzi di produzione - ingannare sé stessi e ingannare i lavoratori con la possibilità dell'usufrutto "ugualitario" del suolo o, in generale, dei mezzi di produzione, nell'economia mercantile, costituisce un'utopia reazionaria piccolo-borghese che lasciamo alla sinistra latinoamericana. Infatti, secondo il presupposto già osservato più su, i possessori dei mezzi di produzione e di scambio nella campagna e in città si separerebbero molto rapidamente dai semplici venditori della forza-lavoro e, di conseguenza, il contrasto di classe tra borghesia e proletariato sarebbe più acuto. Il fatto che la classe operaia formi parte dell'alleanza pluri-classista diretta a porre fine al regime oligarchico e all'attuale blocco sociale dominante, non imprime un carattere socialista alla lotta democratica. Indipendentemente dall'analisi della sua vitalità o dal suo carattere demagogico nel contesto dell'attuale sistema mondiale (della sua crisi), la lotta "socialista" della sinistra e dei movimenti sociali controllati da essa si limita a inalberare le rivendicazioni borghesi dei diversi gruppi di popolazione: maggior salario, stato sociale paternalista e libertà di associazione per gli operai, espropriazione dei latifondi, nazionalizzazione, ecc. Non siamo in presenza, dunque, di una lotta socialista contro la borghesia e per il potere operaio, ma, al contrario, a una lotta democratica per le riforme e le libertà politica in alleanza con una parte della borghesia, soprattutto la piccola borghesia.

La lotta contro i funzionari e i grandi proprietari terrieri, coinvolge tutti i contadini, compresi quelli ricchi e medi. (2)

Detto in altro modo: in una società nella quale il proletariato costituisce la maggioranza della popolazione e si vede trascinato - in ragione dei profondi vincoli economici, sociali e politici che uniscono la sua situazione di classe alla struttura mondiale del capitalismo e degli stati - a combattere i rapporti di produzione capitalistici e le politiche dello stato borghese coerenti con il sistema mondiale degli affari, gli si chiede di rinunciare ai suoi interessi di classe in nome dell'appoggio a una guerra di Troia riformista, distinta e di natura differente.

L'arretratezza di molte regioni dell'America Latina spiega, logicamente, il grosso peso che hanno nel continente le posizioni politiche non marxiste della democrazia "socialista" piccolo-borghese. Molti di questi settori negano il carattere capitalista della formazione sociale latinoamericana; negano che le contraddizioni fondamentali della società risiedano nel rapporto tra lavoro salariato e capitale e nella concentrazione-reificazione del potere sociale nello stato e, infine, negano il ruolo dei lavoratori industriali in quanto avanguardia sociale degli sfruttati (3). In cambio, oltre a considerare l'attuale formazione sociale come un caso peculiare prodotto dal sottosviluppo e dalle deformazioni socio-economiche imposte dall'imperialismo, riservano alla questione contadina e a quella nazionale un posto centrale. In altre parole, disconoscono il dedalo dell'economia capitalista, i meccanismi sui quali si integra e si regola l'attuale totalità sociale e attribuiscono alla volontà politica di uno stato di "democrazia rivoluzionaria" la facoltà di rompere le catene della dipendenza, sottraendosi al circuito economico-politico ordito dalla evoluzione storica capitalista.

Abbagliati dall'idea di un sistema chiuso di economia nazionale capace di fissare unilateralmente i parametri macroeconomici della società e di supplire per suo conto a tutte le condizioni necessarie per l'accumulazione del capitale, risulta loro facile pensare che gli elementi politici e sociali di quelle realtà nella formazione sociale latinoamericana possono essere trasformati dalla rivoluzione democratica in marcia nel continente. Tale rivoluzione è definita per i suoi compiti politici - la liquidazione delle caste oligarchiche, delle sovrastrutture politiche che perpetuano il loro potere e l'espulsione dell'imperialismo per conseguire l'autodeterminazione nazionale - e sociali, la distruzione della struttura latifondista della proprietà terriera e il rafforzamento dell'industria nazionale di fronte al capitale "straniero", dando enfasi al ruolo dello stato nella gestione economica rispetto al settore privato, ma preservando, allo stesso tempo, le coordinate strategiche della "economia mista". Essendo progettata come un processo nazionale e/o regionale indipendente dalle condizioni attuali dell'accumulazione e della divisione del lavoro a scala mondiale che determinano i flussi e riflussi dei capitali, il primo compito che assegnano a questa rivoluzione è la conquista di una "democrazia avanzata" e di uno sviluppo industriale di tipo classico (europeo) che superi le condizioni che "deformano" (sic) lo sviluppo capitalista.

È ironico osservare che, a dispetto delle illusioni sociali che la ispirano, la principale conseguenza pratica della vittoria completa dei movimenti piccolo-borghesi nel mondo - definiti come tali per la loro base sociale tanto agraria (contadini poveri, medi e ricchi) quanto urbana (piccoli e medi industriali che lavorano per il mercato interno, alcune categorie professionali, artigiani, bottegai, funzionari statali di rango medio e alto, ecc.) - non eliminerà il capitalismo né la sottomissione imperialista, ma al contrario, creerà una base più ampia per il suo sviluppo, accelererà e acutizzerà lo sviluppo puramente capitalista, depurando la formazione sociale degli elementi alogeni ereditati dai modi di produzione precedenti. Non è possibile sottrarsi a questa struttura - alla sua logica bipolare e alla sua dinamica contraddittoria - con un semplice atto di volontà. In Colombia, per esempio, l'impatto più immediato della "rivoluzione democratica" in corso non è il miglioramento del livello di vita né il potenziamento della forza politica degli oppressi, ma l'accentuazione dei processi tipici del capitalismo:

  1. lo spopolamento delle campagne, con la conseguente intensificazione della povertà e della tensione sociale nelle grandi città, dovuta alla crescita vertiginosa dei cosiddetti "cinture della miseria", sempre ben riforniti dall'esodo della popolazione che fugge la guerra;
  2. l'indebolimento - e, di fatto, la riduzione al marasma - della resistenza all'offensiva padronale da parte degli operai, le cui azioni, oltre a essere soggette al trattamento militare dello stato, hanno come prospettiva immediata e di lungo termine la difesa a oltranza della cosiddetta "industria nazionale" e del ruolo economico dello stato; e
  3. l'incremento della dipendenza e della sottomissione delle due forze borghesi in contrasto tra di loro allo scontro delle potenze capitaliste per il controllo dei mercati locali di beni e investimenti redditizi e l'usufrutto della rendita finanziaria per mezzo dei meccanismi del debito, dello sfruttamento del petrolio, del traffico di droga e del lavaggio di denaro sporco. Insomma, la "sua vittoria - come prevedeva Lenin all'inizio del XX secolo - può solo creare un bastione della repubblica democratica borghese" (4).

Dopo la ricca esperienza storica accumulata negli ultimi cinquant'anni, la certezza di tutto questo è ancora più forte.

Una delle più importanti conseguenze che porta l'assunzione del punto di vista della società attuale, è quella di farsi prendere dalle sue mistificazioni ideologiche, di rimanere prigionieri delle apparenze, scambiate per la realtà. Il congelamento di intere fasi dello sviluppo capitalista, contrapponendole metafisicamente ad altre, è una di quelle. Tra le grandi mistificazioni-anacronismi della sinistra latinoamiricana c'è la pretesa di preservare forme politiche svuotate di sostanza economica, forme per le quali il capitalismo avanzato ha già trovato, almeno nei paesi centrali, sostituti efficaci. La caratteristica distintiva dei gruppi della sinistra è che i loro obiettivi sono rimasti fermi alla fase pre-imperialista del capitalismo. Collocandosi nel campo della società capitalista, come un semplice partito di opposizione legato alle sovrastrutture borghesi, si sono trovati, tali e quali la borghesia, inetti a comprendere l'essenza dello sviluppo. Prigionieri delle forme iniziali dell'evoluzione capitalista delle società che, nonostante produca un sostrato economico che abbatte le divisioni nazional-borghesi, mantiene l'apparenza "nazionale" dello sviluppo, credono che le sue distinte entità "nazionali" ideali post-rivoluzionarie possano seguire un corso di sviluppo identico a quello attraversato dalla metropoli. Però il solo slogan democratico dell'autodeterminazione è incapace di assicurare loro un'esistenza economica autoctona passibile di una continua espansione. Di fatto, si tratta di stati che non possono esistere fuori dal quadro tracciato dall'imperialismo e la cui situazione politica ed economica è configurata dagli equilibri (e squilibri) imperialisti. In vista della sua constituzione in classe, il proletariato deve rifiutare assolutamente - assieme alle altre mistificazioni dell'economia e della prassi politica del capitalismo - l'ottica nazionale e, al contrario, come ha detto Lukacs, "farsi orientare nell'azione solamente dalla reale situazione dello sviluppo economico".

L'impressione minacciosa lasciata dai movimenti della sinistra tra le oligarchie del Terzo Mondo non ha potuto essere cancellata del tutto dalla fine dell'impero russo e dalla riforma di Teng-Tsiao Ping (5) in Cina. Nel loro caso, l'allineamento con la Russia non obbediva solamente alla loro funzione nel movimento operaio, ma anche al rapporto dei settori borghesi locali, espressi nella loro politica, con l'imperialismo. In sostanza, devono questa immagine alla loro scelta strategica statl-capitalista e alle loro aspirazioni da potenza nazionale, le quali spingono la sinistra a persistere nella tattica di alleanza pluri-classita con le fazioni borghesi la cui posizione nel mercato è soggetta all'assistenza dello stato.

Non è inutile ribadire che la possibilità di un percorso simile è inammissibile per i piccoli e deboli stati della periferia; solo per i giganteschi stati storici o per i residui dei grandi imperi che ancora rimangono politicamente uniti e possiedono al loro interno una sfera di sfruttamento coloniale propria (India, Cina, Russia, Brasile) questa opzione può risultare percorribile. Per alcuni di questi grandi stati con economie e società relativamente arretrate, è stato possibile, come lo dimostrano chiaramente le rivoluzioni russe e cinese, raggiungere un accelerato, sebbene moderato, sviluppo capitalista dentro l'attuale milieu imperialista. Il tragitto percorso da questi paese sembra seguire canali "anormali" solo in virtù della preponderanza di un punto di vista etnografico ed etnocentrico che ha preso il corso evolutivo del capitalismo europeo come modello per sé dello sviluppo capitalistico.

Ma la realtà borghese è storica e si rifiuta di essere ridotta a momenti specifici del suo sviluppo, per importanti che siano rispetto all'evoluzione ulteriore. Se osserviamo la storia, vediamo che lo sviluppo del capitalismo tardivo avviene in un contesto nel quale il capitale ha già raggiunto la sua fase imperialista nel quale tutto - economia, politica, società - è determinato dal circuito economico configurato dal capitalismo imperialista. Nei paesi citati (e solo in essi) una fioritura capitalista nazionale, più o meno indipendente dal capitale imperial-monopolista internazionale, è stata possibile grazie alla massima concentrazione e centralizzazione di tutti gli strumenti del potere economico e politico. Nell'analisi di questo caso eccezionale, Paul Mattick ha osservato correttamente:

quello che per uno sviluppo capitalista 'normale' appare come risultato, è qui un presupposto indispensabile. Se la massima concentrazione del capitale e l'unificazione della spinta imperialista costituiscono un'esigenza quotidiana per tutti i paesi capitalisti all'interno del sistema della concorrenza internazionale, ciò oggi è molto più indispensabile per i paesi arretrati che lottano duramente per sopravvivere. Se la Russia, per esempio, non voleva ridursi come i paesi semi-coloniali e voleva diventare una potenza mondiale contando solo sulle sue forze o, semplicemente, assicurarsi l'indipendenza, doveva necessariamente evitare il corso normale dello sviluppo capitalista. In caso contrario, il capitalismo russo non avrebbe potuto arrivare alla concentrazione attraverso la concorrenza, come fecero il capitalismo inglese, tedesco o americano, che ebbero la possibilità di svilupparsi lungo i secoli attraverso generazioni intere. L'Unione Sovietica, doveva, dunque, saltare il periodo del laissez-faire, ricorrendo a mezzi politici, ed era capace di farlo perché poteva dar corso a quei metodi di produzione che costituivano la meta dello sviluppo capitalista nei paesi tecnologicamente meno avanzati. (7)

La ripetizione di processo analogo in altri paesi, come lo stesso Mattick sottolinea, supporrebbe situazioni simili che, tuttavia, non si verificano in assoluto negli altri paesi della periferia, salvo che nei casi citati.

Il vero problema col quale si confronta la teoria sociale critica, non sta, pertanto, nello scoprire quando e dove può aver luogo il processo di accumulazione del capitale nei paesi arretrati, ma a svelare la mistificazione ideologica che presenta come "socialista" una varietà di sviluppo "politico" del capitalismo, nella quale l'accumulazione originaria del capitale è guidata dallo stato. La situazione storica così particolare attraversata dalla Russia sovietica nella sua prima fase è una delle cause della solidità che per tanti anni ha avuto questa finzione ideologica. Se in un primo momento la costituzione degli organi dell'amministrazione e del potere diretto dei lavoratori fecero pensare all'inaugurazione, da parte del proletariato russo e del partito bolscevico, di una nuova era sociale, il divenire ha prontamente smentito queste speranze.

Le ragioni della degenerazione della rivoluzione proletaria in capitalismo di stato trovano la migliore spiegazione - e non per caso! - in una delle principali tesi del massimo esponente della rivoluzione stessa, Lenin: l'isolamento e l'arretratezza della Russia rendono impossibile il socialismo dentro la struttura del capitalismo mondiale e solo una situazione rivoluzionaria a livello mondiale permetterà di passare direttamente da condizioni semi-feudali al socialismo. Ciò nonostante, Lenin e, con lui, il grosso dell'avanguardia rivoluzionaria, contemplarono la possibilità di una evoluzione futura al socialismo mantenendo e auspicando il capitalismo attraverso lo stato, a condizione, naturalmente, che sopravvivesse il potere proletario e il partito mantenesse il suo ruolo di rappresentante del programma comunista. Com'è noto, nessuna di queste aspettative si compì: già dal 1925-26 non esisteva più né potere proletario né partito comunista; il partito stesso si era burocratizzato, trasformandosi nel capitalista unico.

Nonostante l'importanza e il significato di questo processo storico e la denuncia fatta tempestivamente dalla Sinistra Comunista, le cui linee di sviluppo e caratteristiche travalicano i limiti di questa analisi, la necessaria chiarificazione proletaria attorno alla questione del capitalismo di stato russo, condizione indispensabile per un vero avanzamento del movimento rivoluzionario del mondo, ancora non c'è stata. La dittatura del proletariato e l'edificazione socialista e comunista hanno ancora come riferimento il modello offerto dall'Unione Sovietica. Per il proletariato della periferia, la mostruosità della dottrina statalista ha avuto piena e tangibile evidenza proprio nei movimenti di liberazione nazionale, nel fatto che, storicamente, i suoi argomenti si sono oggettivati nella strategia imperialista articolata dal blocco russo durante la "guerra fredda", e avevano la loro ragione di essere nella possibilità che si apriva ai nuovi stati, sorti con la "decolonizzazione" del secondo dopoguerra, di integrarsi al polo anti-americano guidato da Mosca. Nelle piccole nazioni che si dibattevano contro l'egemonia occidentale si alimentava, infatti, l'illusione ideologica di un percorso analogo a quello intrapreso dalla Russia e dalla Cina, immaginando i risultati economici, tecnici e politici esibiti da quelle due potenze fossero mete raggiungibili da tutti i "popoli e paesi appressi" (8).

Il carattere reazionario di questa dottrina era reso lampante anche dalla concessione di un presunto ruolo "rivoluzionario" alla cosiddetta borghesia "nazionale" che pretendeva allineare tutti gli elementi della società alla difesa degli interessi dei deboli strati sociali ed economici legati al mercato locale o appartenenti al settore statale dell'economia protetta. Ma queste economie - senza sostegno e senza speranza come progetto indipendente - erano di nuovo assorbite da uno dei blocchi imperial-capitalisti. È dunque chiaro che tutta una classe o una parte di essa non può farsi rivoluzionaria solamente grazie a un progetto volontaristico. Non si può dimenticare che il carattere rivoluzionario o controrivoluzionario di una classe si definisce per la sua posizione nella produzione e in rapporto con le altre classi e il potere; a partire da qui si può stabilire il compito che le spetta riguardo lo sviluppo delle forze sociali e produttive nella storia universale. Come è stato detto più su, non esiste, nella nostra epoca, una sezione solamente "nazionale" della borghesia che esista indipendentemente dal circuito mondiale di produzione-riproduzione del capitale; le borghesie dei paesi arretrati sono, per la maggior parte, frutto della penetrazione della forma economica capitalista e dello stesso imperialismo moderno all'interno delle nazioni. Il nesso economico-sociologico tra esse non è esogeno, ma endogeno: origine traiettoria, esito finale sono intrecciati. Perciò, gli interessi difesi dalla sinistra si riferiscono a quelli della borghesia e della piccola borghesia - legate o meno al settore statale - nella loro pretesa di autoconservazione sociale dentro i parametri in cui attualmente si compie l'inserzione delle attività economiche nel concerto internazionale (dominato dal fenomeno transnazionale del capitale monopolistico).

Il nazionalismo piccolo-borghese significa concretamente la lotta per una definizione dei termini dell'internazionalizzazione che non ignori le condizioni generali della sua sopravvivenza sociale. Da qui l'individuazione, come bersaglio dei suoi attacchi, del neo-liberismo, un'ideologia che nei suoi effetti pratici, è la versione cruda della "globalizzazione" secondo le multinazionali. Si tratta, per tanto, da un lato, di evitare che gli interessi delle fazioni della borghesia nell'economia nazionale siano sopravanzati dai movimenti politici ed economici del capitale transnazionale e dalle norme regolatrici delle politiche degli stati emanate dagli organismi sovranazionali dell'im-perialismo (FMI, OMC, BM, ecc.) e, dall'altro, di porre in vigore il complementario principio democratico tanto nella gestione della repubblica borghese, quanto nella legittimazione del regime.

È chiaro che niente di tutto ciò presuppone l'attacco alla divisione sociale del lavoro, alla concentrazione-centralizzazione dei capitali e alla espropriazione generalizzata delle masse lavoratrici.

Tuttavia, per favorire quegli interessi occorre effettuare fino in fondo un mutamento nei metodi di gestione del capitale e dello stato - con le sue correlative trasformazioni politiche - e che, mediante il rafforzamento del settore statale dell'economia mista, sia assicurata una distribuzione del potere e della rendita capace di provocare un cambiamento duraturo nei rapporti di forza tra le fazioni borghesi. Secondo la sinistra, tutto questo si può ottenere solo associando le organizzazioni dei lavoratori in un fronte politico con la "borghesia progressista", in modo che si spiani la strada a un regime politico con una base sociale - e un consenso - più ampia (9). Di nuovo, l'anacronismo di questa posizione è palese dato che la forma dell'organizzazione economica e politica mono-polistica del capitale ha già raggiunto uno sviluppo irreversibile.: l'universo concorrenziale nel quale devono sopravvivere le imprese e gli stati corrisponde al livello delle associazioni planetarie del capitale industriale e monetario, strapotenti dal punto di vista finanziario, tecnologico e politico-militare. I loro standard di investimento, redditività, produttività, influenza sociale, coordinazione e ed efficienza organizzativa fissano la scala della concorrenza. Quindi, non c'è nessun dubbio, rispetto a ciò, nel migliore dei casi l'unica conseguenza della posizione riformista consisterebbe nel sostituire una forma di monopolio con un'altra. In ultima analisi, il problema consiste nel sapere qual è la forma di monopolio più efficace per riprodurre il capitale in condizioni competitive. Prima di mettersi a prevedere il risultati probabili di un'eventuale alleanza sociale della borghesia piccola e media con i lavoratori (10), il discorso dovrebbe fermarsi a considerare la ripercussione delle circostanze che diciamo più avanti sui movimenti di liberazione nazionale esistenti nel "terzo mondo":

  1. La scomparsa del blocco sovietico per quanto riguarda le possibilità di vittoria dei fronti di liberazione nazionale che ancora rimangono attaccati a una linea "ortodossa".
  2. Il ruolo della socialdemocrazia nella promozione di questi fronti in certi paesi del "terzo mondo".
  3. La crisi economica mondiale.
  4. La situazione attuale in sviluppo in America Latina. Quest'ultima comprende: l'incessante proletarizzazione patita dai settori medio e piccolo borghesi nei trent'anni precedenti, concomitante con l'approfondirsi della concentrazione e centralizzazione del capitale (le cui fusioni e alleanze verticali hanno accentuato il carattere oligopolistico del capitale) e un proporzionale impoverimento del proletariato (11).

Il fatto storico fondamentale che mina le basi della sinistra dalle fondamenta è stato indicato dai comunisti radicali dagli albori del secolo passato: l'incapacità degli "stati nazione" formatisi nella fase imperialista di condurre una vita propria non è dovuta all'impossibilità di formare conseguire un'unità teritoriale, linguistica o etnica, ma nel motivo che "questi popoli hanno perso per sempre il momento storico dell'organizzazione statale nazionale (vale a dire, gli albori del capitalismo)" (12); infatti, dalla loro nascita e per tutto il loro percorso evolutivo, le loro strutture e sovrastrutture furono deterministicamente condizionate dalla metropoli. In questo senso, i raggruppamenti della sinistra hanno imposto una visione reazionaria e puramente ideologica degli attuali processi sociali, ignorando le nuove caratteristiche e le condizioni economiche e politiche del capitalismo assunte nel corso dei secoli XIX e XX (13). Il loro intento, per ora riuscito, di relegare l'azione del proletariato dentro ai limiti di uno spettrale stato nazionale borghese - limiti già liquidati nei fatti - è l'ultimo tentativo della piccola borghesia di costringere il movimento del proletariato al punto di vista della società attuale e delle sue aspettative di vita nell'ordine capitalista globalizzato. Invece di chiamare il proletariato a lottare unitariamente in quanto classe su un piano internazionale, ha limitato la portata degli attuali movimenti e lotte sociali a un nuovo governo democratico di coalizione - tale è la formula della FARC, per esempio - subordinando gli obiettivi storici di classe a una fallace unità "antimperialista" con settori compromessi con lo sfruttamento borghese.

Nonostante i tempestivi insegnamenti di Marx relativi al fatto che i proletari non hanno patria, che per essi non esiste la democrazia, la proprietà sul prodotto del proprio lavoro né il diritto o la nazione, Né, dunque, il cittadino provvisto di diritti e capacità uguali, ma solo la realtà elementare della sua sottomissione al potere del lavoro, i partiti piccolo-borghesi chiedono ai proletari di credere alla loro promessa di incontrare, alla fine del cammino, la patria che la oligarchia e l'imperialismo hanno loro negato. In questo modo, si impone a una classe intera il dovere morale di ignorare le realtà che la mantengono attaccata alla terra per essere presa in giro dalla promessa del cielo riformista, in un mondo fatto a misura dei desideri della piccola borghesia. Oggi, di nuovo, il campo di battaglia che si configura è, dunque, quello del capitale contro il proletariato.

j.a

(1) In America Latina e, specialmente, in Sudamerica, non sopravvive il regime feudale né altra condizioni semi-feudali. Già da quasi un secolo, i settori "terratenientes" classici, con la loro lenta mutazione in imprenditori privati che impiegano forza-lavoro libera, completarono il processo di decomposizione sociale delle classi rurali iniziato nella fase finale della colonia. Già nel periodo coloniale i "terratenientes", attraverso il sistema delle mitas (14) e delle encomiendas (15) inglobate nel mercato mondiale e nell'economia monetaria, costituirono la struttura primaria del capitalismo, seppure avvolta in una forma feudale e anche schiavista dei rapporti personali tra le classi nelle aziende e nelle piantagioni. Ai nostri giorni, i "terratenientes" sono diventati a pieno titolo proprietari e sfruttatori capitalisti. Sebbene in alcuni casi ostentano il ruolo di percettori passivi della rendita terriera, la loro attuale funzione economica è in maniera preponderante capitalista e, in generale, sottomessa al mercato. Nel consumo del lavoro nei campi predomina in modo netto l'impiego della forza-lavoro libera salariata e, solo in maniera sussidiaria o sporadica, la riproduzione della forza-lavoro umana e il dominio di classe si realizzano in una sfera non capitalista.

(2) Vedi V. I. Lenin, "Socialismo piccolo-borghese e socialismo proletario".

(3) Il denominatore di classe del proletariato è, naturalmente, molto più ampio; raccoglie, in generale, tutti gli elementi sociali che si distinguono per la vendita della loro forza-lavoro (indipendentemente che venga utilizzata dal capitale in impieghi produttivi o non produttivi di plusvalore) e hanno una posizione subordinata nel processo lavorativo.

(4)

Per il marxista, il movimento contadino non è un movimento socialista, ma democratico. È... un accompagnatore indispensabile della rivoluzione democratica, borghese per il suo contenuto economico-sociale. Questo movimento non si orienta affatto contro le basi del regime borghese, contro l'economia mercantile, contro il capitale. Al contrario, si orienta contro i vecchi rapporti di servitù precapitaliste nelle campagne e contro la grande proprietà terriera come principale punto d'appoggio di tutte le sopravvivenze del regime di servitù.

Lenin, op. Cit.

(5) O Deng Ziao Bing. Alludiamo qui alla celebre strategia delle "quattro grandi modernizzazioni" adottata dal 1978 con Hua Kuo Feng.

(6) Di conseguenza, la tesi enunciata da Rosa Luxemburg e sostenuta dalla Sinistra comunista all'inizio del XX secolo in merito al fatto che gli "stati nazionali" formatisi durante il moto ascendente dell'imperialismo sono incapaci di vita, trova una conferma puntuale:

Mentre l'ideologia nazionale ha accompagnato i processi di unificazione borghese, la liquidazione dei residui feudali-assolutisti lungo la strada dello sviluppo capitalista (unità politica ed economica degli stati) era non solo obiettivamente favorevole al proletariato, ma lo obbligava a una forma di lotta di classe che nella quale l'obiettivo del nuovo ordinamento nazionale doveva giocare un ruolo fondamentale. Questa situazione si è trasformata radicalmente col sopraggiungere della fase imperialista. Il capitalismo ha raggiunto uno stadio di sviluppo nel quale - in accordo con R. Luxemburg - è divenuto un fenomeno internazionale, un tutt'uno indivisibile, riconoscibile solo in tutte interrelazioni e al quale nessun stato particolare può sottrarsi.

(7) Paul Mattick, Ribelli e rinnegati, TO, Musolini,1976.

(8) Nella fase imperialista del capitalismo, le formazioni sociali particolari sono determinate, nei differenti livelli strutturali, dall'insieme del sistema economico internazionale di produzione-riproduzione del capitale. Sebbene il nucleo strutturale della formazione sociale latinoamericana è l'espansione mondiale del capitale effettuata in periodi diversi dalla metropoli imperialista, la sinistra ha spiegato lo sviluppo a partire da un modello puro o classico dell'evoluzione economica e politica capitalista, secondo il quale i modi di produzione seguono linearmente una serie eguale di tappe successive ascendenti. Sviluppando questa ipotesi, l'imperialismo è presentato globalmente come frutto dell'intervento o dell'imposizione esterna di una potenza parassitaria che adultera, deforma o frustra lo sviluppo nazionale del modo di produzione capitalista. Secondo queste teorie, il capitalismo latinoamericano ha avuto un'origine autoctona per quanto riguarda le fonti dell'accumulazione del capitale e ha percorso canali evolutivi genuini, ma - proprio nel momento in cui cominciava a prendere corpo uno sviluppo nazionale indipendente - ha patito un'interferenza esterna che lo ostacola. La specificità che assumono i rapporti di produzione e di proprietà non è, pertanto, spiegata tenendo presente la funzione precisa assegnata alla formazione sociale all'interno dell'economia capitalista mondiale, ma come un limite o un impedimento imposti all'autonomo progresso industriale (insomma, all'accumulazione del capitale) da una forza esterna.

(9) Questa è stata la linea politica del cosiddetto "chavismo" in Venezuela. La fattibilità transitoria di quella politica in quel paese si spiega, inequivocabilmente, con la gran ricchezza e il valore strategico dati dalla sua rendita petrolifera nazionalizzata, nell'emisfero occidentale.

(10) Questi hanno relazione tanto con le alterazioni negli equilibri del potere e della struttura della proprietà agraria e del suolo urbano, tanto agognata dagli emarginati della campagna e della città che aspirano alle diverse modalità della piccola proprietà, quanto con l'edificazione della infrastruttura sociale necessaria (sanità, case, scuole, servizi sociali) suscettibile di incrementare la competitività della forza-lavoro fino a un grado tale che permetta di incorporarla nella economia formale.

(11) Le cifre fornite dalle statistiche ufficiali indicano inequivocabilmente questi processi, in America Latina. La Colombia è il paese che ha la palma della disuguaglianza e del pauperismo. Guardiamo brevemente i dati seguenti: la disoccupazione colpisce il 22% della popolazione, il 50% della stessa è occupata in attività informali (cioè, è sotto-occupata), solo il 28% del totale della popolazione economicamente attiva è coperta dalla sicurezza sociale e quasi l'80% della forza-lavoro ha un entrata inferiore al salario minimo fissato dal governo. L'occupazione nell'industria è scesa, negli ultimi due anni, del 25%. L'1% della popolazione possiede il 48% della terra fertile,4 monopoli controllano le comunicazioni (radio, tv, stampa, telefonia, ecc,),5 banche maneggiano il 95% degli attivi bancari,25 gruppi hanno nelle loro mani l'82% dell'industria. Dall'altra parte,9 milioni di persone vivono nell'indigenza e 26 milioni sono state dichiarate nella fascia della "miseria assoluta".

(12) G.Lukàcs, Rivoluzione socialista e antiparlamentarismo, antologia di articoli scritti per la rivista internazionale "Kommunismus" tra gli anni 1919-1921. La citazione è tratta da "Questioni organizzative della III Internazionale", Cuadernos de Pasado y Presente, numero 47, pag.26.

(13) L'intreccio di tutte le economie nazionali in una sola economia mondiale e l'organizzazione di blocchi economici e politici - mega stati - che competono per il controllo dei mercati, della rendita finanziaria, delle materie prime e della forza-lavoro a poco prezzo.

(14) Mita: termine che veniva usato nel XVI secolo per indicare i lavori forzati nelle miniere del Potosì in Perù. Per essere più precisi, si riferisce al sistema dei turni nei quali erano organizzati, dal viceré spagnolo, gli schiavi indios razziati precedentemente. C'erano tre squadre, composte ognuna da 4.500 minatori, che si alternavano ogni tre settimane. La fatica era disumana e la mortalità altissima.

(15) Encomienda: era una specie di servitù della gleba imposta dai conquistadores alle popolazioni del Nuovo mondo. In linea teorica non comportava titoli di proprietà né sulle persone né sulla terra e nemmeno sui villaggi, di fatto era, appunto, un duro sistema di sfruttamento e di oppressione.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.