I segreti del boom industriale

Dietro la crescita della produzione più sfruttamento e miseri salari per i proletari

Fino all’anno scorso, economisti, sociologi, opinionisti “di sinistra” suonavano l’allarme per il progressivo ridimensionamento del settore industriale nell’ambito dell’economia italiana. Attraverso articoli, saggi, dibattiti televisivi lanciavano accorati appelli affinché la cosiddetta società civile si facesse carico di tale problema e imponesse un cambiamento di rotta a politici disattenti e a imprenditori interessati più ai guadagni immediati che alle prospettive di medio-lungo periodo.

La sinistra parlamentare si serviva di certi dati inequivocabili per accusare di inettitudine e peggio la destra; quest’ultima rispediva le accuse al mittente, accusandolo di fare del catastrofismo strumentale per puri fini elettorali.

Ora, i recenti dati pubblicati dall’ISTAT (il manifesto, 21-02-2007) in apparenza si prestano, come al solito, a confermare le tesi degli uni e degli altri: il “declino” era una leggenda diffusa ad arte dai “comunisti”, mentre l’altra campana sostiene che il nuovo governo ha finalmente dato una scossa rivitalizzante a un paese in stato catatonico.

Cosa dicono le statistiche dell’ISTAT? Che il fatturato industriale, nel 2006, è cresciuto dell’8,3% e gli ordinativi del 10,7%. Tutto bene, dunque? Il Bel Paese si appresta a imboccare un nuovo “boom” economico con il relativo seguito di espansione dei consumi per tutti? Ovviamente, le cose non stanno proprio così, e se per il padronato italiano il 2006 è stato uno sbocciare di fiori (ma dopo le “gelate” degli anni precedenti), quei fiori sono spuntati sul cespuglio spinoso della condizione operaia (intesa in senso lato). Fuor di metafora, la forte ripresa industriale dello scorso anno ha avuto come presupposti - qualcuno ne dubitava? - un peggioramento delle condizioni generali dei lavoratori o, detto in altri termini, un’intensificazione dello sfruttamento.

Gli stessi sindacati (il che è tutto dire) sottolineano (il manifesto, cit.) che la crescita del fatturato e degli ordini si è avuta in un panorama caratterizzato da scarsi investimenti in nuovi macchinari/tecnologie, diminuzione complessiva dei posti di lavoro, aumento pazzesco dei ritmi e, ancora una volta, ulteriore crescita delle ore straordinarie.

Che lo straordinario sia ormai diventato la regola, lo sa chiunque abbia la fortuna (o sfortuna) di percepire un salario/stipendio; ma basterebbe riflettere sul fatto che la congestione del traffico stradale comincia sempre più resto al mattino e finisce sempre più tardi alla sera. Anche questo “rilevamento” - indubbiamente più impressionistico che scientifico - può rafforzare gli studi dell’ISTAT (il manifesto, 13-10-2006), dai quali si deduce che l’orario “normale” di lavoro sia più un’indicazione di massima che un dato di fatto. Inoltre, tanto per “sparare sulla Croce Rossa”, a questo si aggiunge il netto calo della cassa integrazione e delle ore di assenteismo per malattia, nonostante che gli infortuni sul lavoro (quelli regolarmente denunciati...) siano un’enormità e, per esempio, il processo tuttora in corso alla dirigenza FIAT per i danni alla salute inferti dal famigerato TMC2, dimostrino quanto poco conti l’integrità psico-fisica della forza-lavoro; anzi, quanto essa non sia altro che una voce di spesa nella contabilità della “azienda Italia”. Dulcis in fundo, la busta paga non si è mossa o si è mossa di poco, il che vuol dire, tenendo conto dell’inflazione vera e non di quella astratta, che non si è fermato l’arretramento del salario reale in atto da parecchio tempo.

D’altra parte, è risaputo - per ammissione degli stessi borghesi - che un salario particolarmente basso, più basso della media dei paesi europei centro-occidentali, è una delle condizioni essenziali per la sopravvivenza di larga parte del tessuto industriale italiano, caratterizzato da un’anomala preponderanza di piccole e piccolissime imprese. È ovvio che non potendo, in genere, competere con i livelli produttivi delle aziende di maggiori dimensioni, i padroncini (per caratura, ché, per avidità, non sono secondi a nessuno) puntino particolarmente sui bassi salari che, a loro volta, costringono i lavoratori a sgobbare come muli.

Oltre a questo, c’è un altro elemento (tra i tanti che qui non è possibile elencare) che rende meno smagliante il “boom”. Quei risultati, sicuramente notevoli, riguardano soprattutto alcuni settori industriali - in primis, il metalmeccanico - e, al loro interno, determinati comparti (macchine utensili, per es.) che a loro volta destinano una quota non piccola della produzione all’esportazione. Il settore della produzione di beni di consumo è cresciuto, sì, ma molto meno. A grandi linee, significa che gli industriali - esattamente come quelli tedeschi o francesi - puntando sull’esportazione, sono doppiamente motivati alla compressione del salario, nel tentativo di rendere più competitive le proprie merci e strappare in tal modo quote di mercato nell’aspro terreno della concorrenza internazionale. Non a caso, la Banca Centrale Europea (BCE), facendo da controcanto ai pianti del padronato italiano, intima ai governi di proseguire quella che, con ipocrita giro di parole, chiama “moderazione salariale” per sostenere la tanto invocata ripresa.

Ristagno dei consumi-moderazione salariale e aumento delle esportazioni in Italia, in Germania, in Francia... Vediamo confermata, ma a livello continentale, l’acuta osservazione di Marx, secondo il quale ogni capitalista vorrebbe che si abbassasse il salario dei propri operai e che quello degli altri operai - ai suoi occhi nient’altro che consumatori - crescesse. Che la BCE e il padronato targato UE stiano tranquilli: in questa ardua (?) impresa non sono soli, nei sindacati avranno, come sempre, un valido alleato.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.