Il piano Marchionne, ovvero il ricatto del capitale

In questi giorni l’amministratore delegato della Fiat Marchionne ha presentato alla stampa e al ministro Scajola il piano di ristrutturazione della più importante impresa italiana. Da un punto di vista tecnico si progetta la divisione tra il settore auto (Fiat Spa) e quello dei macchinari movimento terra (Fiat Industrial), nella speranza che il ritorno azionario dei due comparti sia superiore alla somma delle singole componenti come avveniva prima. Il progetto prevede sei mesi di tempo per essere realizzato e presentato in borsa. Da un punto di vista finanziario produttivo il piano prevede:

  1. La chiusura di Termini Imerese senza nessuna contrattazione sindacale perché l’impianto non è produttivo e rappresenterebbe per l’impresa un danno economico insopportabile. Le leggi del capitale sono ferree e devono essere assolutamente rispettate. Sul destino dei lavoratori di Termini non c’è nemmeno un accenno. Come già dichiarato, Marchionne fa l’imprenditore, spetta allo Stato risolvere la questione da un punto di vista assistenziale e della relativa necessità di continuare a mantenere la pace sociale tra capitale e forza lavoro.
  2. Investimenti in Italia per un ammontare di 20 miliardi di euro, circa, più cinque in ricerca entro il 2014. Cio' consentirebbe alla Fiat di duplicare la produzione di auto che passerebbe dalle attuali 650 mila a un milione e 400 mila con, si dice, un aumento dell’occupazione. Al riguardo, ovviamente, la dichiarazione è volutamente ambigua, suona più come una illusione che una promessa, non si citano cifre e non si capisce se al netto o al lordo della chiusura di Termini Imerese.
  3. In compenso Marchionne ha posto l’accento sull’imprescindibile necessità della flessibilità. Anche in questo caso l’ambiguità aleggia pericolosamente. I contorni “tecnici” e di ricaduta sulle condizioni di lavoro dei dipendenti non sono specificati. Con questo termine Marchionne, pur non dichiarandolo pubblicamente, intende non soltanto che gli impianti devono produrre 24 ore su 24 con relativa disponibilità dei lavoratori a subire i turni necessari, ma che si lavori obbligatoriamente di sabato qualora fosse necessario. Che l’orario lavorativo settimanale sia flessibile in conformità delle esigenza produttive dell’impresa. Che ci sia una intensificazione del lavoro (leggi sfruttamento) e, perché no, un possibile allungamento della giornata lavorativa. Un ricorso massiccio ai contratti a termine con maggiore ricattabilità dei lavoratori. La crisi internazionale del settore, la spietata concorrenza internazionale, i bassi saggi del profitto sin qui registrati, lo impongono e il piano Fiat di questo si deve far carico.
  4. Create le premesse, scatta il ricatto. O i sindacati approvano il piano oppure non se ne fa nulla. I margini di trattativa sono ridotti allo zero. “Se volete gli investimenti in Italia, se volete un minimo di garanzia sull’occupazione, queste sono le condizioni”, ci dice esplicitamente l’Ad della Fiat, prendere o lasciare. A queste proposte che suonano come un dictat, peraltro chiare nei contenuti ma fumose nei contorni, i sindacati sembrano aver abbozzato. Alcuni gridano addirittura al successo: “abbiamo ottenuto di mantenere in Italia gli investimenti e la produzione”. Altri, tra cui la Fiom e Bonanni, si esprimono con un cauto ottimismo, ponendo l’accento sulla necessità di agganciare il salario agli aumenti di produttività, dimenticando che erano stati abbondantemente preceduti dal mondo imprenditoriale almeno da qualche anno e che un simile meccanismo, peraltro fuori busta paga, vale anche al contrario, quando cioè le cose vanno male, la produttività diminuisce, i salari si contraggono automaticamente.
  5. Il ricatto è così consistente che per bocca dello stesso Marchionne si enuncia apertamente che se ci fosse un rifiuto soltanto parziale del Piano A si passerebbe immediatamente al Piano B. Nessun accenno ai contenuti del secondo, ma è lecito pensare che il Piano B consisterebbe nell’investire all’estero, decentrare ulteriormente la produzione con tutte le ricadute del caso sull’occupazione interna, sulla pace sociale e sull’assetto generale dell’economia italiana. In altri termini o il proletariato Fiat accetta di avvicinarsi per salari, ritmi di lavoro e sfruttamento ai proletariati dell’est europeo, dell’Argentina o del Brasile, oppure si arrangi perché la Fiat non è una succursale dell’Opera Pia Bonomelli.
  6. Marchionne ha ben presente la sfida internazionale che la crisi del settore ha di fronte. Nei prossimi anni si riverseranno sul mercato automobilistico anche la Cina e l’India con milioni di autovetture a prezzi competitivi. Resistere capitalisticamente significa non soltanto strutturarsi tecnologicamente, accorparsi con altre imprese (Chrysler), ma anche, se non soprattutto, avere a disposizione in loco una forza lavoro acquiescente, maggiormente sfruttabile, compattata dai Sindacati, flessibile alle necessità del capitale investito. Altrimenti il capitale, come sempre, va oltre i confini, dove le condizioni di miseria e di asservimento alle necessità produttive sono più favorevoli.

Il dramma nella tragedia è che, se un simile piano passasse, diventerebbe un esempio per altri settori produttivi, una sorta di base programmatica che investirebbe tutto il mondo del lavoro, basato sull’aumento dello sfruttamento, sul ricatto occupazionale, sull’aumento dei ritmi e dei tempi di produzione più di quanto già non avvenga. Se questa è la via che il capitale ha scelto per uscire dalla sua crisi e di cui Marchionne è il “capitano coraggioso”, è necessario che il proletariato Fiat, quello dell’indotto come di qualsiasi altro settore lavorativo, inizi a prendere coscienza che bisogna uscire dalla logica del capitalismo, perché il futuro sarà ancora di lacrime e sangue. Occorre allora prendere nelle proprie mani le lotte senza deleghe sindacali di sorta, che occorre dare forza al partito di classe, per una prospettiva sociale che rompa una volta per tutte i legami con il capitale, le sue necessità di profitto, le sue crisi e le sue guerre, per una società dove la produzione e la distribuzione della ricchezza siano in funzione delle necessità del lavoratore e della società tutta e non dei meccanismi di valorizzazione del capitale.

FD, 2010-04-23

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.