Considerazioni sulla composizione e ricomposizione di classe nella "mondializazione" del capitale

Cercare di rispondere alla domanda sul perché il proletariato non abbia dato significativi cenni di risposta alla crisi in atto, se non in alcuni grandiosi, ma, finora, sporadici episodi di lotta di classe, non è certamente cosa semplice.

È un problema enorme, anzi, per molti aspetti è il problema che i rivoluzionari devono tentare di risolvere o, quanto meno, di avvicinarsi il più possibile alla sua soluzione in sede teorica, per essere conseguentemente e convenientemente attrezzati in sede pratica, nell'agire concreto. Non da ultimo, contro i mortali miasmi della stanchezza, del senso di impotenza, del conseguente rinchiudersi in se stessi o della presunta scoperta di (inesistenti) scorciatoie, che si sprigionano senza sosta dall'immobile palude in cui è sprofondata - per ora - la conflittualità proletaria.

Naturalmente, è un problema che deve essere inquadrato nella sua dimensione planetaria, perché il capitalismo - e non da oggi - è il modo di produzione dominante a scala mondiale; anzi, le profonde trasformazioni intervenute da una ventina d'anni a questa parte, comunemente, benché erroneamente, chiamate globalizzazione, hanno ulteriormente stretto la morsa del capitalismo sulla vita del pianeta. Di più, nella sua insaziabile fame di profitto, il capitale sta mettendo - o ha già messo - le mani anche sugli elementi basilari di ogni essere vivente per trasformarli in merce e rianimare così un saggio del profitto in affanno. Questo non vuol dire che ci siamo improvvisamente convertiti alle insulse e inconsistenti teorie di un sedicente capitalismo “immateriale”, in cui il lavoro o, detto meglio, lo sfruttamento della forza-lavoro non sosterrebbe più tutto l'impianto della società borghese, perché oggi sarebbe il lavoro “immateriale”, la “comunicazione” e via delirando, a produrre ricchezza. Al contrario, se tutto, tendenzialmente, diventa merce, valore di scambio, non significa affatto che qualsiasi merce possa creare valore (che non è esattamente la stessa cosa del denaro); la sua appropriazione può arricchire spudoratamente alcuni, è banale, ma non generare nuova ricchezza: la ripartisce solamente, in maniera enormemente diseguale.

È proprio perché lo sfruttamento dell'unica merce che crea ricchezza, la forza-lavoro, fatica a remunerare adeguatamente i capitali investiti che il capitalismo è entrato in crisi profonda, facendo crollare regimi che sembravano incrollabili, scatenando una speculazione senza freni, gettando nella disperazione continenti interi, portando, appunto, un attacco globale alle condizioni di esistenza del proletariato mondiale. Questa vera e propria guerra lo ha scomposto, rimescolato, per certi versi gli ha cambiato aspetto, lo ha reso, nella “metropoli”, forse un po' meno riconoscibile, anche se meno di quanto gli sguaiati cantori della borghesia ci vogliano far credere. Allora, per capire le ragioni del suo silenzio è da qui che bisogna procedere, dalle profonde trasformazioni che ha subito da quando, negli anni settanta del secolo scorso, ha cominciato a manifestarsi la crisi di accumulazione del capitale.

Si tratta dunque di riprendere e verificare i primi bilanci, le indicazioni contenute in un lavoro di una decina di anni fa (1), relativo in particolare all'Italia, ma esemplificativo di una tendenza più generale.

Il posto di lavoro

Riassumendo, quali erano le prime conclusioni cui giungevamo nell'analisi dei processi in corso sulla scomposizione/ricomposizione della classe operaia? In sintesi, l'introduzione del microprocessore aveva aperto la strada alla scomparsa o al forte ridimensionamento delle grandi concentrazioni operaie, alla loro frantumazione e dispersione sul territorio, alla sparizione e conseguente ridefinizione di tante figure lavorative:

Il primo risultato complessivo è la disaggregazione, materiale e soggettiva, del proletariato, il suo temporaneo annichilimento. (2)

Da allora, come si suol dire, ne è passata di acqua sotto i ponti, ma il fiume non si è affatto prosciugato, anzi. Ciò che dieci anni fa era praticamente soltanto all'inizio, oggi, dopo le accelerazioni subite in questo decennio, il quadro mostra contorni ancor più definiti, anche rispetto al modo in cui la borghesia è riuscita a contenere - se non a prevenire - la risposta operaia nei limiti delle proprie compatibilità, grazie, non da ultimo, all'aiuto insostituibile ricevuto da sindacati e partiti “di sinistra”, in Italia come in Gran Bretagna, in Germania come negli Stati Uniti: non si sottolineerà mai abbastanza il ruolo fondamentale avuto da quei falsi difensori degli interessi operai, nel far passare tra i lavoratori, senza colpo ferire, le aggressioni padronali...

Uno dei primi elementi che emerge è sì la progressione sistematica, incessante, dello smantellamento delle grandi concentrazioni operaie, ma, allo stesso tempo, il procedere, per così dire, a ondate successive nella metropoli, ricorrendo in modo massiccio ai cosiddetti ammortizzatori sociali, che, essendo finanziati dallo stato, “spalmano” su tutto il lavoro dipendente i costi delle ristrutturazioni capitalistiche. Per dare un'idea della portata dei suddetti ammortizzatori sociali, basti pensare che nei soli anni '80 furono effettuati, in Italia, 350.000 prepensionamenti (3), per non parlare poi dei finanziamenti diretti e indiretti alle imprese “per lo sviluppo dell'occupazione”, di cui lo stabilimento FIAT di Melfi è l'esempio principe.

La lenta, ma costante, erosione dell'occupazione nelle grandi fabbriche, che continua tuttora, è stata (ed è) accompagnata dalla parallela irruzione della flessibilità, cioè da una “nuova” organizzazione del lavoro all'insegna della precarietà dilagante e dello strapotere padronale. Se questa “nuova” organizzazione del lavoro, nei paesi del centro, ha ridimensionato - ma senza enfatizzare più del dovuto - la produzione di tipo fordista, ha però approfondito e per molti versi generalizzato il “modello taylorista”, estendendolo anche a quei settori lavorativi, quali il pubblico impiego, che si ritenevano immuni da tale processo.

Intensificazione e densificazione dello sforzo lavorativo, flessibilità a dosi sempre più massicce, devono remunerare sia il profitto industriale che la crescente rendita finanziaria, crescente perché, come si accennava più su, l'espansione abnorme della speculazione finanziaria è una delle manifestazioni più “tradizionali” della crisi capitalistica.

L'inasprirsi della concorrenza a livello internazionale, l'incertezza che regna sovrana sui mercati, con bruschi alti e bassi difficilmente prevedibili, ridicolizzano qualunque previsione degli organi di “governo” dell'economia nazionali e internazionali - tipo OCSE o FMI - e, cosa ben più importante, fanno sì che ogni capitalista cerchi di legare strettamente il salario e la quota di forza-lavoro impiegata agli utili aziendali ossia, detto in altro modo, al corso calante del saggio del profitto. Si tratta di un fenomeno da noi già individuato per tempo - vedi, per esempio, le nostre tesi congressuali del 1997 (4) - e confermato dalla sociologia più onesta, benché dichiaratamente riformista:

le imprese contemporanee hanno assolutamente necessità, per poter reggere alla competizione internazionale, di far variare i costi diretti e indiretti del lavoro in relazione stretta con l'andamento dei loro mercati. Ciò comporta per ciascuna la possibilità di impiegare esattamente la quantità di forza lavoro retribuita che è necessaria alla produzione di un certo bene o servizio in un dato periodo di tempo: non di più e non di meno. (5)

La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è una vera e propria esplosione dei cosiddetti lavori atipici, che però, negli anni, da elemento di seconda fila nel panorama del mercato del lavoro, sono diventati protagonisti assolutamente centrali. La fantasia dei padroni, dei governi e dei loro reggicoda sindacali non ha conosciuto e non conosce limiti nell'inventare figure lavorative che si conformino totalmente alle esigenze delle imprese: dal lavoro interinale e a termine ai contratti week end, dal job on call (lavoro a chiamata) all'apprendistato... Sono tipologie contrattuali che, quand'anche non prevedano un salario inferiore a quello “normale”, fanno comunque risparmiare all'azienda sul monte salari complessivo, mentre, proprio per il carattere discontinuo e intermittente dell'impiego, abbassano il reddito globale della forza-lavoro occupata. Per non dire, poi, della diffusione dei lavori parasubordinati e falsamente autonomi, le cui condizioni sono, in moltissimi casi, peggiori, sia in termini di stipendio che del “godimento dei diritti”, delle forme più sfrenate di precarietà ufficialmente salariata.

Accanto alla precarietà, per così dire, istituzionalizzata e benedetta dalle cosiddette parti sociali, un altro fenomeno in forte crescita è quello che, sempre la sociologia borghese e gli organismi delle Nazioni Unite chiamano l'informalizzazione del lavoro, vale a dire il lavoro nero, il sommerso, i lavori al di fuori di qualsiasi regolamentazione anche solo di tipo puramente formale. In tutti i casi, i precari salariati e “autonomi” sostituiscono impieghi “fissi”, “regolari” e con livelli salariali decisamente più elevati.

Non si creda, dunque, che la precarizzazione e l'informalizzazione riguardino solo l'Italia, campionessa europea di lavoro nero e sommerso (specialmente al Sud, va da sé): è un fenomeno che investe tutta la “metropoli” e che non risparmia nemmeno i settori ad alta qualificazione. Guardando gli Stati Uniti, anche in questo campo all'avanguardia, si nota come:

proprio nel settore dell'_High Tech _molte aziende ricorrano a rapporti di lavoro “non normali”, ovvero ai cosiddetti permanently temporary, i “precari permanenti”. Nel 1986 il loro numero era di 800.000 unità, mentre nel 1997 esso è aumentato a 2,5 milioni, l'equivalente di circa il 2 per cento dei lavoratori. Stime confermano che nel frattempo questi “precari permanenti” rappresentano circa il 10 per cento degli occupati in un quinto del settore high tech (come Microsoft e At&T). (6)

Non molto meglio vanno le cose nella patria dello stato sociale, vale a dire la Germania, dove:

tra il 1980 e il 1995 la quota dei lavoratori dipendenti “normali” è scesa dall'80 per cento al 68 per cento circa.

Una delle conseguenze è che:

Nel giro di dieci anni il numero dei cosiddetti sottoccupati è schizzato da 2,8 a 5,6 milioni - a causa di ciò - dove l'esecuzione dei “lavoretti” esenti da oneri sociali è diventata la regola, il vecchio sistema previdenziale è al collasso. (7)

È proprio per questo che l'allora ministra della famiglia del governo Schroeder si scagliava - per spirito umanitario, ovviamente... - contro l'amoralità, la “slealtà” del nuovo proletariato berlinese, al quale la ministra voleva imporre il pagamento degli oneri sociali:

Guardate che situazione di disordine. Lavoro nero, contrazione dei salari e lavoro parasubordinato a Berlino sono fenomeni diffusissimi. Nonostante lavori, la gente abbandona la previdenza sociale... (8)

A ciò si deve aggiungere - altro aspetto già colto nell'analisi del 1993 citata - il fenomeno della frantumazione, in uno stesso luogo di lavoro, della classe operaia e della sua distribuzione in più aziende. Come si sa, l'azienda, cedendo segmenti di lavorazione ad altre imprese, cede anche i suoi lavoratori, che, però, continuano a svolgere lo stesso identico lavoro esattamente dove erano prima, ma con una tuta diversa e un contratto diverso, tanto che in una stessa fabbrica (per esempio, la FIAT) ci possono essere più di dieci imprese in attività contemporaneamente. Un caso che a suo tempo venne riportato da alcuni giornali, era (o è) rappresentato dai cantieri navali di Mestre-Marghera, dove le numerose imprese subappaltatrici facevano lavorare ben oltre le otto ore giornaliere (per sei/sette giorni la settimana) operai immigrati, provenienti dall'Europa sud-orientale, per salari “rumeni”, vale a dire di gran lunga inferiori di quelli dei loro compagni italiani coi quali lavoravano fianco a fianco. Che si chiami terzizzazione, out sourcing, lavoro in cooperativa (9), il risultato finale è che la classe operaia si trova ulteriormente frazionata e frastagliata da barriere giuridico-burocratiche artificiali e, di conseguenza, indebolita di fronte al capitale.

Sintetizzando quanto è stato detto finora, il lavoro salariato-dipendente non è affatto scomparso, come si affannavano a pronosticare “eminenti” ideologi della borghesia un quarto di secolo fa, quando erano appena cominciate le grandi ristrutturazioni nell'industria: ha solamente cambiato aspetto. Ed è un aspetto smarrito, sofferente e impaurito, perché, secondo quanto auspicava D'Alema in qualità di presidente del consiglio, sta imparando, a proprie spese, a svincolarsi dal posto fisso, ad essere esposto al ricatto permanente del posto di lavoro e della disoccupazione, è costretto a fare quotidianamente i conti con quella che ormai non è più un'anomalia, un caso accidentale, ossia l'incertezza del presente e, a maggior ragione, del futuro.

Il salario

Se dal punto di vista dell'occupazione il proletariato ha di che piangere, anche per quanto riguarda l'andamento del salario ha ben poco da ridere. È la borghesia ai massimi livelli a confermarlo, quando, una volta tanto, è costretta a smettere i panni del ciarlatano e a dire (almeno in parte) la verità. Infatti, secondo dati della Banca d'Italia, dal 1980 al 1999:

la quota dei salari sul reddito lordo distribuito si [è] ridotta dal 56% al 40%. [...] Le retribuzioni nette mensili sono diminuite dell'8,7% e i lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 10%. (10)

C'è chi dice, però, che il calo dei salari sia stato molto più marcato, addirittura del 15-20%; ma al di là delle cifre (che pure contano), rimane il dato di fondo di questa tendenza generale al declino dei salari (11) e alla crescita delle tipologie di lavoratori situati ai gradini più bassi della scala dei “redditi da lavoro”. Come avevamo già avuto modo di sottolineare (12), è un fenomeno che colpisce tutto “l'Occidente” e che è più evidente e brutale nel cuore della metropoli capitalista, gli Stati Uniti d'America.

Nonostante il proletariato americano sia sempre stato pressoché ignorato da giornali, cinema e televisione (nonché dalle agiografie della “sinistra”), ogni tanto qualcosa trapela di quel mondo e se è vero che la nazione più avanzata indica la via (in senso lato, ovviamente) alle altre, il proletariato europeo ha solo cominciato ad assaggiare le “gioie” del capitalismo in versione “globalizzata”. Oggi, come ottant'anni fa:

la maggior parte dei lavoratori, circa il 60%, guadagna meno di 14 dollari l'ora,

cioè quanto occorrerebbe a un adulto con due figli a carico per tirare avanti “normalmente”, tanto che ben...

il 67% degli adulti che ricorrono ai “banchi” per non morire di fame [sono] persone che hanno un lavoro. (13)

Una grossa spinta all'abbassamento degli stipendi - che nel vastissimo arcipelago dei servizi variano dai 6 ai 10 dollari l'ora - è venuta, recentemente, dall'amministrazione Clinton, che, proseguendo e intensificando lo smantellamento del welfare, ha costretto un gran numero di poveri ad accettare salari letteralmente da fame, in condizioni di lavoro generalmente pessime. (14)

È il passaggio dal welfare al cosiddetto workfare; in pratica, mentre si riduce progressivamente la copertura dello “stato sociale”, ciò che rimane di esso deve essere subordinato all'accettazione di un impiego qualsiasi: chi rifiuta il primo posto di lavoro a disposizione (sia esso distante da casa, sottopagato o in un settore che non ha niente a che vedere con le sue specifiche capacità/preparazione professionale) perde il diritto al sussidio di disoccupazione a all'assistenza. In tanta presunta modernità, fanno capolino le poor laws, le leggi sui poveri dei tempi di Elisabetta I, regina d'Inghilterra (fine XVI secolo)...

La stessa struttura del salario, in questi ultimi anni, si è via via modificata, diventando più “flessibile” in modo da adeguarsi, esattamente come l'organizzazione del lavoro (lo abbiamo già visto), all'andamento dell'impresa. Se...

la situazione degli ordinativi, le decisioni sugli investimenti, le strategie manageriali cambiano da un anno all'altro, da un trimestre all'altro, da una settimana all'altra, (15)

allora anche il salario deve seguirne il corso. Per questo, il contratto nazionale, accusato di essere eccessivamente “rigido”, sta perdendo progressivamente il ruolo centrale che aveva precedentemente, a favore dei contratti territoriali, aziendali o, addirittura, della contrattazione individuale. Benefit d'impresa, “voci” salariali legate al rendimento, una tantum distribuite secondo la “professionalità”, oltre ad avere il non piccolo vantaggio (per il padrone) di essere revocabili a discrezione, di solito (specie per il settore del pubblico impiego) non sono “pensionabili” ossia non rientrano nel calcolo del TFR (liquidazione) né in quello della pensione... Senza considerare che la contrattazione aziendale riguarda solo una parte minoritaria di lavoratori, nella stragrande maggioranza impiegati in aziende di piccole o piccolissime dimensioni, in cui il contatto più diretto col padrone inibisce (anche psicologicamente) e frena l'iniziativa operaia. Ma lasciamo parlare chi di queste cose se ne intende, visto che, in quanto sindacalista (ma di sinistra, per carità...) ha contribuito attivamente a modificare - in peggio, per i lavoratori - la struttura del salario. Dice O. Squassina, segretario della FIOM di Brescia:

la parte salariale contrattata collettivamente è sempre più marginale rispetto all'insieme della retribuzione, e la parte concordata individualmente oppure elargita dall'impresa inizia a incidere in modo rilevante nelle buste paga.

Forse che il peso crescente del salario aziendale (nei suoi vari aspetti) ha compensato il minor ruolo di quello collegato alla contrattazione nazionale? Ridiamo, a Squassina, la parola, benché pronunciata nel solito “sindacalese” studiato apposta per attenuare e deformare le vere conseguenze della politica sindacale:

il depotenziamento in corso dell'azione sindacale derivante dal contratto nazionale, e [...] le regole fissate nell'Accordo del 1993 non sono in grado di tutelare e migliorare il salario per l'insieme dei lavoratori - ma anche - nella contrattazione aziendale l'esperienza dei salari variabili è stata deludente e quindi va rivista. (16)

Per adesso, chi ha dovuto rivedere qualcosa sono i lavoratori, che sono costretti a cambiare progressivamente il loro modo di vivere, se, sempre secondo Squassina, si assiste a:

un aumento dell'utilizzo degli impianti attraverso l'implementazione del lavoro a turni; un aumento della prestazione lavorativa attraverso l'aumento delle ore straordinarie e il crollo delle ore d'assenza per malattia e infortunio; [la crescita della] monetizzazione di istituti contrattuali - quali ferie, ex festività riduzione dell'orario di lavoro. (17)

Ne consegue, così, non solo un peggioramento generale delle condizioni di esistenza, ma, fatto ancor più rilevante ai fini della ricomposizione politica della classe, una spinta ulteriore alla frammentazione, allo sbriciolamento del proletariato (18) che non possono non indebolire e ritardare una risposta complessiva di classe all'offensiva borghese in corso:

Quasi tutti gli strati sono diventati assai più eterogenei e internamente diseguali. La differenziazione delle professioni e delle condizioni di lavoro indotta dalle tecnologie e dai modelli organizzativi; la variabilità del sistema di relazioni industriali; le diversità delle condizioni di vita e di abitazione tra aree territoriali e all'interno delle grandi città: sono tutte variabili che incrociandosi tra loro danno origine a una crescente varietà di posizioni e di status entro il medesimo strato sociale. Per quanto riguarda in specie la disuguaglianza nei redditi da lavoro nei paesi avanzati, dai primi anni Settanta agli anni Novanta essa è cresciuta non soltanto fra i lavoratori qualificati e quelli non qualificati, ma ancor più entro, rispettivamente, lo strato dei primi e lo strato dei secondi, entro lo stesso settore di attività più che tra un settore e l'altro. (19)

Ora, senza sopravvalutare né sposare acriticamente queste considerazioni, perché il proletariato totalmente omogeneo non è mai esistito, è indubbio, però, che colgono il dato di fondo; per fare un esempio, i neoassunti, anche con contratti a tempo potenzialmente indeterminato, godono (si fa per dire) di condizioni salariali e normative generalmente peggiori di quelle dei loro compagni di lavoro, più di quanto non accadesse nel passato (prossimo).

Nonostante tutto questo, siamo, appunto, di fronte a una sostanziale passività della classe operaia, che accetta o invoca i contratti di solidarietà, come alla Volks Wagen o come reclamava un operaio di Termini Imerese al TG1 delle 20 il 21 novembre scorso; una classe che “monetizza”, che fa gli straordinari, che si muove dunque prevalentemente sul terreno economico-individualistico voluto dal padrone. Forse, allora, e senza scadere nel meccanicismo (o nell'idealismo, il che è lo stesso), la crisi non ha morso in maniera tale nelle carni del proletariato (“occidentale”) da spingerlo, non diciamo sul terreno rivoluzionario, ma almeno sulla via della ripresa della vera lotta di classe. Tenendo conto delle avvertenze ora enunciate, se il proletariato argentino (o la classe operaia FIAT) si è mosso, è perché là non c'è più niente da “monetizzare”, niente da contrattare, niente da “solidarizzare” se non la fame e la lotta, nessuna possibilità di integrare il calo dei salari con il lavoro straordinario, per cercare di conservare quel livello di consumi che è stato reso possibile preliminarmente dall'enorme sviluppo delle forze produttive dal dopoguerra a oggi. (20)

E, soprattutto, l'attacco più pesante è avvenuto nei confronti del salario indiretto e differito, differendo, appunto, la percezione della sua estrema gravità. Ci stiamo riferendo, naturalmente, alla riforma del sistema pensionistico (che non interessa solo i lavoratori italiani) e, in generale, di tutto lo “stato sociale”. Per rimanere in Italia, le varie riforme che si sono succedute dal governo Amato ad oggi (e, come minaccia ogni governo, non è certamente finita qui) hanno posto le premesse per pensioni da fame, in senso letterale, nonché per il prolungamento all'infinito della vita lavorativa. Questi provvedimenti, proprio perché si faranno sentire in un futuro più o meno lontano, hanno suscitato sì indignazione, ma ben al di sotto della loro effettiva e devastante portata. Lo stesso discorso vale per la riforma sanitaria (essa pure non ancora finita): pur interessando tutti i lavoratori, ci tocca però individualmente, quando siamo ridotti allo stato di “cittadini”, individui atomizzati e chiusi nei propri pensieri, che si ritrovano a dover pagare il ticket, le medicine, le prestazioni ambulatoriali ecc. davanti a una macchina. Contro chi si protesta: contro la macchina, contro l'impiegata? È molto difficile passare dalle imprecazioni a una lotta autorganizzata dei... “cittadini”.

A questo, si deve ancora aggiungere che, sebbene la disoccupazione sia diventato un fenomeno strutturale di massa, i diversi livelli di incidenza sulla popolazione attiva tra una regione e l'altra (non solo d'Italia) sono anche molto marcati: l'apprendista del nord, benché iper-sfruttato, ha una “disponibilità di spesa” (e a maggior ragione se vive in famiglia) che il giovane proletario disoccupato (o in nero) del sud non ha, con tutto quello che ne consegue in termini di rabbia sociale.

A tutto ciò non può essere estranea l'analisi riguardante gli effetti che i meccanismi e i rapporti interimperialistici hanno sulla classe operaia, tanto dei paesi metropolitani quanto di quelli periferici.

L'autore di uno studio abbondantemente citato in questo lavoro, comparando i dati (per altro falsi) della disoccupazione americana con quelli tedeschi, osserva che:

i molti nuovi posti di lavoro [negli USA] si collocano, infatti, nei settori economici a bassa produttività [...] nel commercio, nella ristorazione e nei piccoli servizi sociali. A metà degli anni novanta risultava occupato in quei settori il 55 per cento dei lavoratori, a fronte del 45 per cento registrati in Germania. [...] Se la Germania raggiungesse lo stesso livello di occupati nel settore dei piccoli servizi, avremmo qui meno disoccupati che negli USA. (21)

Ora, può sembrare paradossale adombrare una specie privilegio, visto le condizioni di lavoro in cui versano i proletari statunitensi, ma senza la mega tangente, calcolata in 500 miliardi di dollari annui, che l'imperialismo yankee estorce al mondo intero per il solo fatto di possedere la moneta di riferimento mondiale, gli USA non potrebbero certo permettersi il “mantenimento” di un così vasto settore di lavoro improduttivo (di plusvalore); per non parlare dell'enorme indebitamento complessivo della società americana, che, per così dire, vive abbondantemente al di sopra delle sue reali possibilità economiche. Lo stesso dicasi dei 200 miliardi di dollari (sempre annui) che dal “Sud del mondo” - cioè dallo sfruttamento e dal sangue degli sfruttati di quelle regioni - vengono pompati nelle casse del “Nord” (in cui, per altro, gozzovigliano anche le borghesie del “Sud”), per il solo pagamento dei debiti. (22)

Ma oltre a tutto questo, la periferia e la semiperiferia giocano un ruolo fondamentale nel rallentare (non nell'arrestare o nell'invertire!) la caduta del saggio del profitto mondiale e, quindi, nell'attenuarne le ricadute più aspre sul proletariato metropolitano. Non solo i licenziamenti più brutali e massicci compiuti fino ad oggi dai grandi gruppi multinazionali sono stati effettuati nei paesi economicamente meno forti (23), ma le merci prodotte a basso costo nella periferia e nella semiperiferia, soprattutto in seguito alla cosiddetta delocalizzazione, contribuiscono sia a tenere basso il valore della forza-lavoro che a permetterle di continuare a praticare un certo livello di consumi, dato che le merci provenienti da quelle zone sono una parte importante dei “beni” che rientrano nella riproduzione della forza-lavoro medesima. Dall'abbigliamento ai computer, dagli elettrodomestici ai giocattoli, una quota considerevole degli oggetti di uso/consumo quotidiano sono prodotti nei paesi “in via di sviluppo” o nell'ex impero sovietico.

Vale la pena, allora, soffermarci su questi aspetti riservandoci di sviluppare il discorso in altra occasione.

“Globalizzazione” e classe operaia

Nelle “Teorie sul plusvalore” Marx ha fatto uso del concetto di scambio ineguale per spiegare lo sfruttamento dei paesi arretrati nel commercio mondiale. I vantaggi derivanti ai paesi più sviluppati dalla loro posizione dominante nel mercato, consiste nell'appropriazione di una frazione del plusvalore generato nei paesi meno sviluppati. L'extraprofitto ottenuto in questo modo ha come effetto quello di riequilibrare il saggio del profitto; in tal modo, dunque, questo cresce nonostante che i prezzi calino. Per mezzo del commercio mondiale, varie giornate lavorative di un paese arretrato si scambiano con una sola giornata di un paese sviluppato. Quindi, la funzione del commercio estero delle metropoli non consiste nella realizzazione del plusvalore non realizzabile sotto la forma di valore d'uso nella madre patria (secondo la tesi di Rosa Luxemburg), ma nel fatto che i paesi più ricchi estraggono più valore da quei paesi di quanto non ne estraggano all'interno. Questo spiega, in ultima istanza, la lotta per i mercati di consumo dei paesi arretrati.

L'economia politica del sottosviluppo

Per molto tempo si è pensato che nei paesi sottosviluppati il peso relativo della classe operaia nella formazione sociale e il suo apporto all'accumulazione fossero minori che nei paesi sviluppati. Tale valutazione è notoriamente falsa e nasconde le connessioni funzionali dell'economia capitalista mondiale, la quale è un sistema di produzione-riproduzione e non una giustapposizione di economie nazionali. È impossibile, dunque, fare chiarezza sul problema della partecipazione della classe operaia dei paesi arretrati nella formazione-riproduzione di capitale a scala mondiale, se si ignorano i meccanismi propulsori dell'espansione del capitale monopolista. Al di fuori di un'analisi della posizione concreta occupata dalla classe operaia delle regioni sottosviluppate nel contesto del capitalismo planetario e delle funzioni di queste ultime nel ritardare e attenuare la tendenza alla caduta del saggio del profitto, è impossibile comprendere il suo ruolo specifico nel processo di riproduzione del capitale.

La caratteristica fondamentale della classe operaia delle regioni arretrate

Uno degli attributi delle formazioni sociali sottosviluppate è che molto spesso la forza-lavoro è pagata al di sotto del suo valore, non solo per un tempo determinato e in via eccezionale, ma abitualmente, come regola. Quali sono le caratteristiche che definiscono il processo di lavoro in condizioni di super sfruttamento? In primo luogo, bassi salari, orari di lavoro molto lunghi (24) e un'intensità significativamente più alta di lavoro per ora rispetto agli stessi lavoratori dei paesi avanzati. In secondo luogo, parte del costo di riproduzione e mantenimento di questa manodopera ricade spesso su rapporti di produzione precapitalistici o non capitalisti, come la cosiddetta “economia informale” delle città (o delle favelas) e specialmente sulle forme sussidiarie dei settori rurali, nei quali il lavoro “domestico” delle donne svolge un ruolo fondamentale. (25)

Inoltre, è utile richiamare l'attenzione sugli effetti della diseguale distribuzione dell'orario di lavoro tra i sessi (e tra le età): nei paesi arretrati le donne lavorano, in media, un 25% per cento di ore in più degli uomini, per una paga che è un 40% più bassa, e due terzi di esse si dedicano all'agricoltura. Ciò significa che una porzione del considerevole lavoro delle donne è destinata a garantire la riproduzione delle condizioni materiali di riproduzione della forza-lavoro, senza che il capitale o lo stato - attraverso il salario indiretto o differito dell'assistenza e della sicurezza sociale - debbano erogare alcunché o sviluppare politiche ridistributive o di sostegno. Non si insisterà mai abbastanza sulla ripercussione fondamentale di questo aspetto (così come dello sfruttamento dei bambini, che è un fenomeno gigantesco) nell'abbassamento del costo della forza-lavoro nei paesi arretrati. In terzo luogo, spesso gli operai sono vittime di un'estrema coercizione extraeconomica - assassini al soldo dei latifondisti, concentrazioni operaie fortemente controllate o legislazione repressiva - che intensificano l'appropriazione del plusvalore. Basta scorrere i documenti dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro per rendersi conto di quanto la legislazione anti-sciopero sia molto diffusa e, in parecchi casi, estremamente severa; non per niente, nei “regni” della delocalizzazione lo sciopero e ogni altra forma di protesta operaia sono vietati e repressi duramente. Mentre nei paesi avanzati, una fittissima legislazione sugli scioperi (approvata dei sindacati) di fatto li sterilizza e li rende in gran parte innocui.

Si deve tenere ben presente che questi non sono aspetti secondari del processo di lavoro, ma elementi che condizionano profondamente la redditività del capitale mondiale oggi. Inoltre, l'operaio delle piantagioni e una parte dei migranti hanno accesso a mezzi di sussistenza posti al di fuori del settore capitalista. Più specificatamente, il sistema nativo di produzione contadina, l'esistenza di vaste zone di colonizzazione rurale e le occupazioni informali nelle città sono diventate una riserva riproduttiva di manodopera a basso costo (26). Nelle zone rurali e urbane la famiglia in senso ampio - curando i bambini, gli anziani e gli infermi, l'operaio nei periodi di disoccupazione, fornendo l'istruzione ai giovani, che i poveri devono pagare - solleva il settore capitalista e lo stato di parte delle spese per assolvere queste funzioni. Quindi, cambia il rapporto tra il salario e il costo di riproduzione della forza-lavoro: si può pagare l'operaio al di sotto del suo valore. A sua volta, la popolazione eccedente offre al capitale un'ottima selezione di operai per sostituire una forza-lavoro brutalmente sfruttata e rapidamente esaurita. Il lavoro domestico e l'attività sussidiaria delle donne nelle zone rurali o la loro occupazioni in attività informali sono un pilastro importante in questo sostegno al capitale. Questa organizzazione suppone un livello determinato di produzione nelle zone rurali e nelle favelas. Si deve produrre ciò che serve di integrazione indispensabile dei salari, in modo che le necessità di sussistenza degli operai possano essere soddisfatte.

Ebbene, qual è la base sociale della manodopera a basso costo nell'economia sottosviluppata? In parte, è il controllo amministrativo dei livelli del salario che dà come risultato una struttura molto compressa. In parte, è la sovrabbondanza dell'offerta di forza-lavoro. In parte, è la coercizione extra-economica. In parte è la possibilità di realizzare una percentuale della riproduzione della forza-lavoro in condizioni non capitaliste. (27)

Tutto questo interagisce con il modo specifico della produzione e riproduzione della forza-lavoro, ed è direttamente legato ad esso. L'investimento di capitale e la rendita finanziaria sono altamente avvantaggiati dal fatto che la manodopera a basso costo africana, latinoamericana e asiatica riduce i costi dell'infrastruttura locale e degli investimenti (così come di alcuni generi alimentari provenienti dal settore agricolo altamente sviluppato, dove pure viene impiegata manodopera a basso prezzo). Nelle cosiddette tigri del sud-est asiatico, per esempio, i lavoratori sono sprovvisti delle più elementari forme di sicurezza sociale e le leggi proibiscono loro di avanzare rivendicazioni ai padroni. Inoltre, il risparmio del salario indiretto e delle spese sociali permette allo stato di offrire aiuti e garanzie al capitale monopolista industriale e bancario - in alcuni paesi latinoamericani i banchieri e i grandi proprietari terrieri sono esenti da imposte o sono “colpiti” solamente da esazioni presuntive molto basse. L'investimento straniero è stato intrapreso dalle unità di capitali più grandi e più strategiche dell'economia metropolitana ed è dominato da essa. La redditività e gli effetti stimolanti di questi investimenti contribuiscono in maniera fondamentale alla riproduzione del capitale internazionalizzato. L'accaparramento monopolista del settore petrolifero, delle comunicazioni, delle piantagioni, del commercio all'ingrosso e delle catene di quello al dettaglio è stato la punta di lancia dell'espansione del capitale transnazionale nelle ultime decadi, e la capacità da parte di questi investimenti di ridurre i costi mondiali generali facilità la sua espansione competitiva in altre regioni.

Caratteristiche dello sviluppo economico delle regioni arretrate

Il conseguimento di alti livelli di risparmio nel costo del lavoro che presuppone l'impiego intensivo della forza umana, la riduzione dei costi di innovazione tecnologica praticamente a zero (lo sviluppo delle industrie di tecnologia strategica è riservato al centro metropolitano) e l'uso di una tecnologia già esistente, semplicemente copiata, le esenzioni tributarie di cui godono i settori del capitale monopolista nazionale e internazionale e l'eliminazione delle barriere commerciali, costituiscono alcune delle grandi attrattive per il capitale nelle regione arretrate.

Dove queste economie hanno conseguito un'espansione significativa (alcuni paesi dell'Asia e dell'America Latina) lo sviluppo si è basato su investimenti massicci di capitale e manodopera, e non su una maggiore produttività ottenuta grazie al perfezionamento tecnico e organizzativo del lavoro. La crescita si ottiene mediante un forte investimento di capitale “migratorio” che proviene dai centri metropolitani (fondi di investimento nelle cosiddette economie emergenti) e dall'accumulazione originaria interna - realizzata in maniera preponderante dall'agricoltura e dall'industria mineraria - nonché da un grande spostamento della manodopera dalle campagne alle fabbriche. Quando si esauriscono gli investimenti e il rapporto tra capitale e produzione si eleva verso i livelli dei paesi avanzati, predominano i rendimenti decrescenti e la crescita decelera bruscamente.

L'economista borghese Alwyn Young (USA) ha dimostrato che dividendo la crescita del PIL nella parte attribuibile a investimenti crescenti di manodopera e di capitale, e in quella destinata a un uso più produttivo di questi investimenti (che gli economisti chiamano Produttività del Fattore Totale o PFT), la crescita della PFT è molto bassa o, spesso, vicina allo zero nei paesi della periferia. Pertanto, l'espansione registrata da alcune regioni è, a lungo termine, insostenibile o solo nella misura in cui lo “sviluppo” si sottometta all'espansione del circuito metropolitano da cui dipende la riproduzione internazionale del capitale. Così, per esempio, mentre nelle zone metropolitane i salari più alti o i tassi di cambio ascendenti spronano il capitale a spingersi nelle attività più produttive (con una più alta composizione tecnica) e di maggior valore, nei paesi arretrati si dipende dalla manodopera a basso costo e da una grande disponibilità di beni primari. Nella misura in cui i maggiori costi degli investimenti e della forza-lavoro provocano flussi notevoli di capitale metropolitano verso altre regioni con costi inferiori, il trasferimento delle industrie con tecnologia intermedia dei paesi avanzati permette ai paesi arretrati di espandere le loro economie. Allo stesso tempo, grazie al fatto che questi ultimi vendono beni fabbricati con l'utilizzo intensivo di manodopera a prezzi più bassi, i paesi più avanzati vanno scalando nuovi gradini di tecnologia e di produttività.

Il fatto che, in alcuni casi e per certi periodi, paesi arretrati registrino tassi di crescita della produttività maggiori di quelli dei paesi avanzati non ha, dunque, niente di sorprendente, se la causa della loro espansione si spiega con il vantaggio di cui godono nell'incorporare, dalla loro condizione di relativa arretratezza, tecnologie al cui sviluppo non hanno contribuito. (28) Di solito accade che quello che sembra essere un incremento causato dall'aumento della produttività, costituisce, in realtà, un investimento in beni di capitale di alta tecnologia importati dalla metropoli. Infatti, una buona parte del “progresso” tecnologico e del miglioramento nel modo di organizzare la produzione è importata ed è, di fatto, materializzata in una dotazione tecnologica avanzata di capitale acquistata nella metropoli. ovviamente, i paesi arretrati con maggiori livelli di investimento, registreranno una crescita della produttività più alta; tuttavia, questa crescita dipende direttamente dalla dinamica impressa dal capitale delle zone centrali ed è finanziato in buona parte da esse. Così, è possibile ammettere, infine, che parte dell'aumento della produttività che alcuni negano, considerandolo una semplice crescita dell'investimento di capitale, può, di fatto, essere crescita di produttività sotto altra forma.

Sebbene non ci sia dubbio che le regioni arretrate possono crescere a tassi e ritmi maggiori di quelli che si incontrano negli stadi superiori di sviluppo, beneficiando della tecnologia apportata da questi ultimi, nella misura in cui tali regioni si avvicinano ai livelli di capitale per lavoratore e alle esigenze di qualificazione della forza-lavoro dei paesi avanzati, la crescita tenderà a decelerare. Il processo è già evidente in Giappone e, in un certo modo, anche a Hong Kong. A un certo punto, dette economie tenderanno a diventare tanto incapaci di conseguire la riproduzione allargata con mezzi propri, quanto quelle dei paesi centrali per realizzare le innovazioni competitive che le mettano in grado di sostenere la crescita.

Tuttavia, non si può eludere il fatto fondamentale che, una volta che si sono formate metropoli imperialiste supersviluppate nelle quali si concentrano il capitale finanziario e la tecnologia - dotate di mega stati capaci di programmare e regolare i loro propri processi economici interni (per quanto è dato al capitalismo di regolarsi...) - una qualunque economia locale o regionale dovrà essere in condizioni di competere in produttività e dovrà ricorrere a investimenti massicci in innovazioni tecnologiche, infrastrutture, istruzione e salute. Tale possibilità è lontana dalla portata dei piccoli, arretrati e deboli stati sparsi in Asia, Africa e America latina, la cui struttura economica è integrata dall'inizio ai circuiti di riproduzione di capitale del centro ed è determinata dai suoi cicli.

Strutturalmente, il grado di crescita e il comportamento dei settori che stimolano l'espansione si muovono in stretta sintonia con la forza delle economie sviluppate. La curva della loro crescita dipende, dunque, dal comportamento della domanda metropolitana e questa, a sua volta, dal tasso di crescita della sua produzione industriale. Se consideriamo che nell'economia capitalista la manodopera e il capitale sono ripartiti essenzialmente come risposta alle indicazioni dei prezzi, tali economie non possono realizzare la riproduzione allargata di capitale con mezzi propri all'interno delle attuali condizioni competitive mondiali: mancano della capacità tecnologica e finanziaria che permetta loro di progettare ed elevare in maniera autonoma e redditizia la propria industria pesante e quella meccanica. Di più: uno sviluppo sostenuto di queste economie comporterebbe costi crescenti tanto della manodopera sempre più qualificata - per l'offerta deficitaria di questa sul mercato - quanto della dotazione di capitale, con il che si arriverebbe a un esaurimento degli incentivi all'investimento del capitale internazionale o si giungerebbe in tempi relativamente rapidi al limite dello sfruttamento redditizio. (29) In questo senso, lo ribadiamo, solo i grandi stati o i raggruppamenti di stati possono reggere la concorrenza mondiale con relativo successo e conseguire livelli di crescita relativi.

D'altra parte, il settore esportatore delle economie sottosviluppate è strutturalmente molto fragile. La loro suscettibilità alla rivalutazione delle proprie monete o delle monete internazionali (in specie il dollaro), alle quali queste economie sono legate, è estrema. Durante i periodi in cui le loro monete sono deboli, le esportazioni sono fortemente sostenute, ma non appena altrettanto velocemente compare la più lieve tendenza alla rivalutazione, l'effetto si inverte immediatamente. Come si sa, una moneta debole garantisce a queste economie investimenti e manodopera a basso costo che sostengono la competitività delle loro esportazioni in rapporto con le economie dei paesi avanzati. Tale è la ragione per cui riveste tanta importanza, per questi paesi, l'adozione di politiche monetarie e fiscali molto drastiche, che disistimolino la domanda interna, impediscano l'aumento dei salari ed evitino il deficit dei conti correnti (normalmente, infatti, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti riflette una diminuzione della produttività e della competitività del paese in questione). Allora, un aumento dei tassi di cambio reali può essere il risultato del vincolo stabilito con una moneta estera temporaneamente rivalutata (come è il caso delle economie dollarizzate) e che non corrisponde al tasso reale di produttività, o con tassi di inflazione (come accade, per esempio, quando l'offerta monetaria è maggiore di quella necessaria per coprire il movimento economico) o con tutte e due, nella circostanza in cui sia legata allo stesso tempo con la moneta straniera e con il suo tasso di inflazione, essendo quest'ultima superiore a quella del paese che emette tale moneta.

Alcune conclusioni

Dunque, è nella periferia e nella semiperiferia che vengono scaricate le condizioni di sfruttamento più spaventose - e sugli immigrati (30) - ma, come abbiamo sempre detto e come è riconosciuto anche dalle massime istituzioni borghesi (31), la “globalizzazione” tende a mettere in concorrenza tra di loro i lavoratori del mondo intero (ovviamente, al ribasso) sia nei settori ad alta che a bassa qualificazione. “Costruire uno spazio omogeneo di valorizzazione” della forza lavoro mondiale (32), questo è l'imperativo della borghesia mondiale, a cominciare, naturalmente, da quella più forte.

Tra qualche anno, nell'Unione Europea entreranno altri dieci paesi, provenienti soprattutto dall'ex blocco sovietico; benché siano previste rigide limitazioni alla circolazione delle persone (cioè della forza-lavoro), la ricaduta su salari e su posti/condizioni di lavoro si farà indubbiamente sentire, tenendo conto che oggi, a parità di qualifica, i salari medi in vigore nei paesi dell'Europa centro-orientale sono il 14% di quelli - sempre medi - praticati nell'Unione Europea. (33)

La verità è questa: finché è durato il monopolio industriale dell'Inghilterra, la classe operaia inglese ha partecipato in una certa misura ai vantaggi di questo monopolio. Questi vantaggi furono ripartiti nel suo interno in modo assai diseguale; la minoranza privilegiata ne intascò la parte maggiore, ma anche la gran massa ebbe almeno di quando in quando e per poco la sua parte. È questo il motivo per cui dopo la scomparsa dell'owenismo non vi è più stato socialismo in Inghilterra. Con il crollo del monopolio, la classe operaia inglese perderà la sua posizione privilegiata. Essa tutta intera - non esclusa la minoranza privilegiata e dirigente - si troverà un giorno ridotta allo stesso livello degli operai stranieri. E questo è il motivo per cui in Inghilterra vi sarà di nuovo il socialismo. (34)

Con queste parole, Engels salutava le trasformazioni che investivano la classe operaia inglese alla fine dell'Ottocento, trasformazioni che ponevano, però, solo le premesse per una ripresa generalizzata della lotta di classe indipendente di parte proletaria. L'esperienza storica ha dimostrato che non furono, da sole, sufficienti per risvegliare in senso rivoluzionario il proletariato. Anche oggi, come allora, bisogna tenere conto di altri fattori, altrettanto importanti, che nel corso dei decenni si sono sedimentati (e non cessano di sedimentarsi) nella coscienza del proletariato così profondamente che, sebbene si collochino nei cieli “immateriali” dell'ideologia, devono invece essere considerati materiali tanto quanto lo stato di oppressione, insicurezza, ricattabilità e smarrimento generale in cui versa la classe operaia mondiale, tanto quanto le briciole del banchetto borghese che una parte di essa riesce ancora a raccogliere.

Celso Beltrami, Katarisum

(1) M. Stefanini, Il rapporto tra capitale e lavoro nel processo di crisi in Italia, Prometeo V serie, n. 5, 1993 e Dopo la ristrutturazione la nuova composizione di classe. Verso la ripresa delle lotte proletarie, Prometeo V serie, n. 6, 1993.

(2) Prometeo n. 5, cit., pag. 11.

(3) L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Bari, Laterza, 2000, pag. 37.

(4) Prometeo, V serie, n. 13, 1997.

(5) L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Bari, Laterza, 2001, pag. 5. Più avanti, alle pagg. 19-20, riprende e approfondisce il concetto:

Dall'inizio degli anni Novanta, in tutto il mondo gli investitori istituzionali - specie i fondi pensione anglosassoni, con portafogli di centinaia di miliardi di dollari - chiedono alle imprese che il loro capitale sia remunerato con tassi del 10-15% l'anno. Visto che detengono le quote più corpose del capitale azionario, nessun dirigente, dall'amministratore delegato in giù, può pensare di disattendere le loro richieste. Ma come si fa ad ottenere dal capitale investito nelle imprese un reddito del 10-15% l'anno, quando l'economia, ovvero il Pil, cresce nel migliore dei casi al tasso del 3% l'anno? Non certo producendo beni e servizi, perché il tasso di crescita del Pil non è altro che la somma, ricalcolata anno per anno in termini reali, del loro valore. Bensì comprimendo allo spasimo i costi di produzione, a cominciare da quello su cui si ha un controllo più diretto - il costo del lavoro. Il proprio e quello dei fornitori. In quanto permettono di stabilire una relazione più stretta tra andamento della produzione e quantità di forza lavoro utilizzata, nonché di ridurre gli oneri indiretti, i lavori flessibili sono uno strumento a cui i dirigenti sono costretti a ricorrere.

(6) U. Beck, Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Torino, Einaudi, 2000, pagg. 121-122.

(7) U. Beck, cit., pagg. 123-124.

(8) Ibidem.

(9) Queste sedicenti cooperative ricordano molto da vicino il sistema del gang-system in uso nell'Ottocento in Inghilterra. Vedi: K. Marx, Il Capitale, Libro primo, VII sezione, capitolo 23. Nell'edizione Einaudi vedi le pagg. 855 e seguenti.

(10) R. Bellofiore, Il caso italiano, Rivista del Manifesto n. 17, maggio 2001, pag. 31.

(11)

Alla fine dei conti, nel 2001 le retribuzioni reali lorde superavano quelle di dieci anni prima di appena cinque punti percentuali, mentre la produttività del lavoro era cresciuta del 24%. Le retribuzioni nette reali erano - invece - nel 2000 inferiori a quelle di dieci anni prima. La crescita dei salari reali non ha brillato in quasi nessuno dei paesi europei nell'ultimo decennio; e nell'ultimo triennio i salari reali nell'area dell'euro sono rimasti al palo [...] Per farla breve, mai, nell'ultimo mezzo secolo di storia italiana, i guadagni dei lavoratori dipendenti avevano subito un così ruvido e persistente schiacciamento.

M. Zenezini, Quanto costano i bassi salari?, in Rivista del Manifesto n 33, novembre 2002, pag. 32

(12) Vedi: Appunti su globalizzazione, classe operaia e azione sindacale, Prometeo VI serie, n. 4, 2001.

(13) B. Ehrenreich, Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo, Milano, Feltrinelli, 2002, pag. 148 e pag. 152. I “banchi del cibo”, come si può intuire facilmente, sono mense per i poveri, che ricevono aiuti dai privati sotto forma di beneficenza.

(14) B. Ehrenreich, cit., pag. 152.

(15) U. Beck, cit., pag. 110.

(16) O. Squassina, Il salario diseguale, Rivista del Manifesto n. 15, marzo 2001, pagg. 25-26.

(17) O. Squassina, cit., pag. 25.

(18)

Dobbiamo dunque concludere che la contrattazione di secondo livello e la diffusione delle pratiche di partecipazione ai risultati aziendali non hanno compensato il declino della contrattazione centralizzata, non sono sempre riuscite ad agganciare i guadagni alla dinamica dell'inflazione effettiva, hanno spinto verso un ampliamento dei differenziali salariali (anche tra Nord e Sud) e, nel lungo periodo, non sono riuscite a mordere nei guadagni di produttività.

M. Zenezini, cit., pag. 34

Ancora una volta non possiamo fare a meno di notare come, nonostante il linguaggio “trattenuto” - per così dire - dei riformisti, la realtà emerga in modo sufficientemente chiaro.

(19) L. Gallino, Globalizzazione disuguaglianze, cit., pag. 73.

(20) Anche l'accesso abbastanza generalizzato alla casa in proprietà attenua, in qualche misura, gli effetti dell'abbassamento del salario, mentre il fatto di dover pagare un mutuo (e non un affitto) può frenare la disponibilità alla lotta: si potrebbe rischiare, alla lunga, di perdere la casa. Per questa questione valgono sempre le osservazioni di Engels ne La questione delle abitazioni, Roma, Newton Compton, pagg. 46-47, da noi citate in Da Vienna a Porto Alegre..., Prometeo VI serie n. 3, 2001.

(21) U. Beck, cit., pag. 162.

(22) U. Beck, Repubblica, 08-11-02.

(23) M. Dinucci, Il sistema globale 2002, Bologna, Zanichelli, 2002, pag. 14.

(24) Senza considerare l'ineguale distribuzione delle ore di lavoro tra uomini e donne e facendo astrazione del fatto che il lavoro domestico ricade generalmente sulle donne, uno studio delle Nazioni Unite del 1992 realizzato nel 1992 calcolava una media delle ore di lavoro degli operai dei paesi arretrati (in Asia, Africa, Europa orientale e America latina) in 60 ore settimanali (settimane di sei giorni). Un altro studio, che riguarda il settore dei servizi nei paesi sudamericani, parla di un orario che va dalle 12 alle 14 ore giornaliere (vedi Newsweek, giugno 1992). Come abbiamo già avuto modo di parlare (vedi Prometeo n. 4, VI serie, articolo citato) le condizioni non sono affatto migliorate, semmai peggiorate.

(25) Nei paesi arretrati le donne procurano almeno il 50% degli alimenti della popolazione, e in Africa questo apporto arriva all'80%.

E, nella misura in cui gli uomini abbandonano i campi in cerca di un lavoro nelle città, le donne assumono questa responsabilità tra un terzo e la metà di tutte le famiglie nei paesi in via di sviluppo.

Ibidem

(26) È questo che determina, nell'analisi delle formazioni sociali della periferia, un rapporto più complesso con gli altri settori sociali della popolazione.

(27) Questo spiega anche l'ambiguità della situazione sociale di certi settori della popolazione contadina e il loro ruolo politico ugualmente ambiguo: quando si ribellanno allo sviluppo capitalista, le loro rivendicazioni tendono a proiettare gli interessi di un mondo spettrale radicato nel passato, la qual cosa fa sì che siano canalizzate dalle forze reazionarie del protezionismo e del capitalismo di stato, e lega l'operaio che si sviluppa all'interno di questa atmosfera al carro del riformismo piccolo-borghese. Il loro anticapitalismo consiste prima di tutto nella resistenza alla marcia del capitalismo.

(28) L'attitudine di certe regioni del mondo di investire in maniera più efficace di altri paesi arretrati e di importare tecnologia dal resto del mondo è stato, di suo, una ragione della rapida crescita registrata in quelle regioni. Per esempio, alla fine degli anni 1990 del secolo scorso, l'investimento in Asia orientale ascendeva a una media del 35% del PIL, quasi il doppio che in America latina (The Economist, aprile 1997). Le caratteristiche generali delle economie asiatiche erano: un alto grado di risparmio, imposte e spese statali ridotte, mercato del lavoro flessibile, una formazione tecnica di base della manodopera e apertura commerciale (e, pertanto, alla tecnologia straniera). Ovviamente, la flessibilità e la formazione tecnica permisero che la manodopera fluisse in maniera duttile secondo i movimenti del capitale e nella qualità richiesta.

(29) La crescita ottenuta solamente copiando la tecnologia è estremamente limitata, come lo attesta il caso del sud-est asiatico. Economie come quella sudcoreana si arrestarono o sperimentarono crisi gravissime in un momento in cui la quantità di capitale per lavoratore era ancora considerevolmente inferiore a quella equivalente nelle economie industriali avanzate. Sebbene molti analisti economici stimassero certo, quasi una banalità, che nella misura in cui dette economie fossero entrate in possesso di migliori tecnologie la loro produzione sarebbe aumentata, è stato chiaro che la redditività può - e anzi deve - calare nella misura in cui il rapporto Cv/Cc diventa più favorevole al secondo. Verso la fine degli anni 1990 il lavoratore coreano medio lavorava con solo due quinte parti del capitale a disposizione dei suoi colleghi statunitensi e, tuttavia, il tasso di crescita di questo tipo di economie sperimentava già arretramenti spettacolari. Anche quando la crescita di questo tipo di economie può continuare ad essere più rapido di quello delle economie avanzate per più di un decennio - grazie al fatto che ancora non si scontrano con il limite che imporrebbe loro la necessità di innovare - la massa di plusvalore che permette la riproduzione allargata è ogni volta più piccola rispetto al capitale da valorizzare, anche aumentando continuamente il livello di produzione.

(30) vedi: Il fenomeno migratorio nell'era della mondializzazione del capitale, Prometeo V serie n. 17, 1999.

(31) Rapporto della Banca Mondiale citato in L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, cit., pag. 44.

(32) M. Husson, La mondialisation capitaliste contre l'emploi (La mondializzazione capitalista contro l'occupazione), supplemento a Le Monde diplomatique, settembre 2001, pag. 1. A costo di ripeterci, sottolineiamo come i riformisti più acuti possano anche fotografare la realtà, ma non siano in grado di fornire la chiave per trasformarla.

(33) M. Dinucci, scheda di aggiornamento de Il sistema globale 2002, zanichelli.it .

(34) F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra. Prefazione del 1892, Roma, Editori Riuniti, 1973, pag. 39.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.