I problematici scenari del capitalismo russo

Dove va la Russia?

Questa domanda, dal sapore forse vagamente retorico, sorge spontanea ogni volta che quell'immenso paese è scosso da sanguinose tragedie, di cui la strage di Beslan è solo l'ultima in ordine di tempo.

Ma per cercare di dare una risposta che individui almeno le linee di tendenza generali di una realtà così complessa, bisogna quasi sempre ignorare le informazioni gettate in pasto al pubblico televisivo dai bollettini - pardon, telegiornali - di questo o quel governo.

Non meno fuorvianti sono certe "letture" di sinistra, in quanto tendono a cogliere solo gli aspetti, per così dire, fenomenici di quanto sta accadendo in Russia. Oppure, esattamente come avviene in ogni chiesa, distorcono la realtà per farla coincidere a forza coi pregiudizi ideologici della chiesa medesima. È forse a causa della malcelata simpatia per l'imperialismo numero due, quello sovietico, espressa a suo tempo dal bordighismo, che una delle tante organizzazioni provenienti (in parte) da quella esperienza, all'indomani del collasso finanziario del 1998, non ebbe timore di sfidare il ridicolo dichiarando che "è falso che l'economia russa sia allo sfacelo" (1). La motivazione di tale ardita sentenza starebbe nella presenza massiccia di un'economia-ombra che sfugge a qualsiasi statistica e imposizione fiscale (ma non alla rapacità di politici corrotti e della mafia) e che avrebbe dunque decisamente attenuato gli effetti devastanti del crack economico.

Come ogni leggenda ha un fondo di verità, anche in quel giudizio così controcorrente si possono trovare tracce del mondo vero e non di quello immaginario. Seguiamole, allora, queste tracce, per vedere dove realmente ci conducono.

Dal crollo del capitalismo di stato a Putin

L'economia dell'ombra ha avuto un ruolo via via crescente dall'inizio degli anni sessanta del secolo scorso fino alla scomparsa dell'Unione Sovietica, tanto che, secondo certe stime, era arrivata a coinvolgere circa trenta milioni di persone e, in certi settori, soprattutto quello dei servizi e delle riparazioni/ristrutturazioni delle abitazioni, copriva fino al 50% di tutti i lavori effettuati (2). Ma si estendeva anche ai settori produttivi di plusvalore primario, poiché dai direttori di fabbrica agli operai, erano milioni, appunto, coloro che si dedicavano a questa vera e propria economia parallela, sulla quale crebbe il miraggio brezneviano, consistente in una crescita costante dei consumi mentre il sistema sprofondava lentamente, ma inesorabilmente, nel baratro. Anzi, quanto più l'economia pianificata, soffocata da problemi strutturali enormi (3), si avvitava su se stessa, tanto più i "cittadini" potevano godere di un tenore di vita che si avvicinava, in quantità, se non in qualità, a quello "occidentale". Ma l'orto di casa, con cui rifornire i mercatini rionali, le riparazioni domestiche, i servizi alla persona, non potevano, né possono in alcun modo costituire un'alternativa alla caduta inesorabile del saggio medio del profitto e alla progressiva paralisi del sistema. Nell'insieme, mancavano i capitali necessari alla ristrutturazione e, anche là dove esistevano, il loro utilizzo era quasi sempre vanificato dalla sclerosi burocratica di un regime ormai irriformabile.

Però, mentre la classe operaia approfittava del tacito "patto sociale", fondato su bassi ritmi di lavoro e allentamento della disciplina, per appropriarsi al minuto della produzione, rivendendo al minuto merci e persino pezzi di macchinario, i direttori "rossi" delle imprese cominciavano a mettere le mani su intere unità produttive, anticipando, di fatto, l'orgia predatoria esplosa dopo il 1991. Tra il 1993 e il 1995, quando il fantomatico libero mercato era diventato un articolo di fede, "20.000 delle 27.000 imprese statali furono privatizzate" a un prezzo vicino allo zero. Più che di vendita, è lecito parlare di spudorate regalie ai vecchi, giovani e persino giovanissimi membri dell'antica nomenklatura, prontamente riciclatisi in ardenti sacerdoti del dio mercato (in versione occidentale). In generale, le imprese statali furono vendute...

tra l'1,5 e il 2% del loro valore reale [...] più le imprese erano importanti, più i loro profitti potenziali erano elevati, più furono cedute a buon mercato ai loro nuovi proprietari.

Nell'insieme, le privatizzazioni realizzarono il 10% circa del valore effettivo degli "attivi immobili e circolanti" delle aziende interessate (4).

Agli operai, alla "gente comune", furono invece dati dei pezzi di carta, i vouchers, che avrebbero dovuto costituire la loro quota di partecipazione alla spartizione della ricchezza nazionale. La realtà si dimostrò, naturalmente, ben diversa:

Ogni voucher valeva ufficialmente 10.000 rubli, ma nella pratica si scambiava con una bottiglia di vodka o 3.000 rubli, il che equivaleva, nel 1993, a 3 dollari. Come per caso, questi buoni furono rastrellati dai fondi di investimento creati col sostegno ufficiale dello stato e detenuti dai futuri oligarchi. (5)

Si è trattato, dunque, di un enorme trasferimento di valore nelle tasche di pochi individui, che si sono impadroniti dei "gioielli" dell'economia russa, iniziando una fulmine a scesa al rango di miliardari. Nel frattempo, gli investimenti e gli indici della produzione industriale precipitavano, facendo registrare un tracollo ben più grave di quello che si abbatté sull'economia statunitense durante la crisi del 1929:

Nel 1999 il volume della produzione industriale era caduto del 53% rispetto agli inizi degli anni novanta (nel settore dell'industria leggera e tessile la diminuzione toccava l'80%: le aziende russe di calzature erano in grado di produrre un paio di scarpe per abitante ogni 5 anni). Nel 2001, le importazioni di beni di consumo e di prodotti dell'industria leggera raggiungevano i 12 miliardi di dollari. Quanto agli investimenti, sono stati divisi per 4. (6)

È noto che tutto questo ha avuto ricadute pesantissime sul proletariato che, da un giorno all'altro, si è visto gettato nel vortice della cosiddetta globalizzazione: fabbriche chiuse o funzionanti a intermittenza (7), forti ritardi nel pagamento dei salari, caduta verticale del potere d'acquisto, anche per un'inflazione a due cifre; scomparse le code davanti a negozi semivuoti, ora non sono poi molti quelli che possono permettersi di fare la spesa nei nuovi centri commerciali sorti negli ultimi anni.

Gli anni della presidenza Eltsin hanno rappresentato la terra promessa dei "nuovi russi", della mafia e delle multinazionali straniere. Gli immensi guadagni di carattere puramente predatorio-speculativo, che tutti insieme hanno accumulato in questi anni, non devono però nascondere un dato importante: è vero che le multinazionali, al pari degli oligarchi e della mafia, si sono date alla razzia delle risorse naturali russe, ma è altrettanto vero che il controllo dei centri nevralgici dell'economia è rimasto nelle grinfie degli uomini e dei ristrettissimi gruppi di potere emersi dallo sfacelo sovietico. Però in questo modo la Russia stava pericolosamente avviandosi a sprofondare irreversibilmente nella condizione di semi-colonia, vale a dire di nazione il cui sistema economico è fondato esclusivamente sull'esportazione di poche, benché importanti, materie prime e semilavorati, retto da una borghesia finanziario-compradora avente scarse possibilità di giocare un ruolo autonomo nello scacchiere imperialistico internazionale. Il punto più basso di questa curva discendente è stato toccato con la crisi finanziaria del '98, che ha però posto le premesse per un deciso cambiamento di rotta. Quella forze che, durante gli anni eltsinani, hanno dovuto ripiegare, di fronte al marasma e al concretissimo rischio di disintegrazione della nazione, hanno cominciato a rialzare la testa.

Quali erano, e sono, queste forze che, per comodità di discorso, chiamiamo alternative? Innanzi tutto il complesso militar-industriale, scosso nel suo prestigio dalla guerra in Afganistan, dalla disastrosa campagna cecena, dall'umiliante ritirata da tutti i territori dell'ex impero; appesantito da un gigantesco apparato produttivo, invecchiato e imbolsito dalla mancanza di investimenti necessari per rimetterlo in grado di sorreggere le aspirazioni volte alla riconquista del ruolo imperiale sovietico.

Accanto al sistema militar-industriale, le élites locali, in cui il confine tra amministratore pubblico e uomo d'affari era ed è sfumato, se non, a volte, inesistente, che procedettero nella seconda metà degli anni novanta a una "rinazionalizzazione de facto delle fabbriche" (8). Altro elemento significativo, settori importanti della burocrazia statale (servizi segreti, ministero dell'interno), la quale, benché spesso e volentieri si sia prestata ai giochi degli oligarchi, ha, in un certo qual modo, approfittato dei loro scontri di interesse per assumere un ruolo crescente nella gestione politica del malandato stato borghese. È proprio dai contrasti sempre più forti tra gli oligarchi, acuiti dal progressivo venir meno della materia prima da sfruttare, cioè delle imprese da privatizzare, che il ruolo distruttivo degli oligarchi è diventato, per l'insieme della borghesia russa, insopportabile:

Alla fine degli anni novanta, gli oligarchi, ai quali erano state concesse una libertà e un'impunità totali, erano diventati abbastanza barbari da rappresentare il principale ostacolo allo sviluppo dell'ordine borghese in Russia. Un consolidamento della classe dirigente era necessario se si voleva rafforzare il sistema [...] Da predatori, gli antichi oligarchi si sono trasformati in prede. (9)

Prede degli uomini chiamati, non a caso, "siloviki" (falchi), usciti per lo più dall'FSB, erede diretto del KGB. Senza sopravvalutare tali personaggi, è indubbio che è in questo ambiente che si concentrano quelle forze più determinate a riportare la Russia al ruolo di grande potenza mondiale; sono dotate di una strategia e di un programma a lunga scadenza e, per questo, politicamente attrezzate per ristabilire non il capitalismo di stato (come temono alcuni), ma le regole elementari della "convivenza borghese", a cui tutti, magnati del petrolio o "semplici" padroni di provincia, devono attenersi (o non calpestare apertamente). Non è certamente la prima volta nella storia che un gruppo di oscuri personaggi o grigi funzionari, sospinto al vertice dello stato dall'urto tra interessi contrastanti di opposte fazioni borghesi più che un piano coscientemente preordinato, riceve dalla borghesia l'investitura di arbitro al di sopra delle parti: "il capitale contro i capitali", anche se questi capitali sono potentissimi (10).

Sembra, dunque, che la borghesia russa abbia trovato la necessaria energia per tentare almeno di risalire la china lungo cui era precipitata, benché il compito che ha davanti sia estremamente complesso e il lieto fine tutt'altro che scontato. Infatti, la causa di fondo che ha portato al crollo verticale della più vasta e duratura esperienza di capitalismo di stato, conosciuta come "socialismo realizzato", cioè la caduta del saggio del profitto a livello mondiale, non cessa di operare e, anzi, ha esasperato le difficoltà del sistema economico, inasprendo l'aggressività e la concorrenza tra i capitalismi "nazionali". Ma per tornare a noi, la lotta contro gli oligarchi non poteva cominciare che dai padroni delle televisioni, strumento di condizionamento delle masse per eccellenza. Gusinsky, proprietario della rete televisiva NTV (e di tante altre cose) è stato costretto a fuggire all'estero, seguito poco dopo dal magnate Berezovsky, potentissimo all'epoca di Eltsin. L'accusa, trasformata in condanna dalla magistratura, è di malversazione, corruzione, accaparramento illecito di beni nazionali durante la grande ondata delle privatizzazioni. Accuse di per sé ridicole, nel senso che, come si è visto, tutte le privatizzazioni sono state fatte così.

Da quel momento, sulla testa degli oligarchi pende la spada di Damocle della magistratura, perfettamente sintonizzata sull'indirizzo politico dei "siloviki" e del loro capo Putin, il quale sfrutta strumentalmente l'odio diffuso nella popolazione contro i "nuovi russi"; essa, dopo le illusioni dei primi anni novanta sulle virtù miracolistiche del "libero mercato", considera quella genia di finanzieri-razziatori come dei nuovi invasori tartari e i termini "liberale" o "democratico" né più né meno che sinonimi ingiuriosi (11). La televisione NTV è finita nelle mani del gigante energetico Gazprom - già controllato dallo stato - alla testa del quale, nel frattempo, Putin ha messo uno dei suoi fedelissimi. Lo stesso avvicendamento è avvenuto in altri colossi energetici, tanto che ormai lo stato controlla molto più strettamente di prima i gangli strategici dell'economia. La compagnia elettrica RAO-EES (l'equivalente dell'ENEL), l'azienda monopolista delle pipe-lines Transneft, la compagnia petrolifera Rosneft, che recentemente ha iniziato un processo di fusione con Gazprom, sono ormai nelle mani degli uomini provenienti dall'ex KGB di Pietroburgo, come Putin, e a lui strettamente legati. Per dare un'idea della potenza di cui dispone il programma economico del Cremlino, basti dire che Gazprom, con 19.571 milioni di dollari di fatturato, è di gran lunga la prima impresa del paese, seguita dalla Lukoil (altro gigante petrolifero) a 15.449 milioni (12). Gazprom ha realizzato, nel 2003, un profitto di oltre cinque miliardi di dollari, le altre aziende centinaia di milioni, per un...

totale di 6 miliardi e 617 milioni di dollari di profitti netti. Nel 2004 saranno - tenuto conto dei prezzi del petrolio andati alle stelle - molti di più [...] Il Cremlino controlla direttamente enormi e decisi flussi finanziari: superiori a quelli di ogni altro oligarca e anche di parecchi oligarchi eventualmente coalizzati. (13)

In questo percorso strategico si colloca l'arresto clamoroso di Mikhail Khodorkovsky, padrone della Yukos, il terzo gigante petrolifero in ordine di fatturato. Khodorkovsky si trova in galera non perché finanziasse i partiti di opposizione, "comunisti" di Ziuganov compresi, ma perché aspirava a diventare il Berlusconi russo, preparandosi a entrare in politica quale continuatore del neoliberismo eltsiniano. Altro grave "peccato" di cui si è macchiato: dentro il consiglio di amministrazione della Yukos tre posti su sette erano occupati da americani e Khodorkovsky stava per cedere ulteriori quote azionarie alla Exxon-Mobil (la più grande compagnia petrolifera del mondo) (14). Per finire, il giovane oligarca aveva appoggiato la guerra di Bush in Iraq, scontrandosi apertamente con gli interessi economici diretti e le ambizioni imperialistiche della borghesia russa.

Naturalmente, Putin e il suo entourage non sono affatto contrari all'entrata di capitali esteri, al contrario: stanno facendo di tutto per dimostrare che la Russia è diventata un paese capitalistico "normale", al fine di attrarre gli investitori stranieri. Prova ne sia che nel mese di ottobre il governo ha ceduto la sua partecipazione nella Lukoil all'americana Conoco-Phillips per poco meno di due miliardi di dollari; contemporaneamente, la francese Total ha acquisito per un miliardo di dollari il 25% del maggior produttore non governativo di gas Novatek (15). Il punto è, come abbiamo già accennato e vedremo meglio più avanti, che la borghesia russa ha un disperato bisogno di capitali ed è disponibile a gettare ponti d'oro agli investitori stranieri; ma è altrettanto determinata a non farsi degradare al rango subalterno di borghesia compradora.

Per chiudere il discorso sulla Yukos, se, com'è probabile, il Cremlino si impadronirà per via giudiziaria delle sue azioni (o del suo controllo), i "siloviki" potranno dire di aver inflitto un colpo quasi definitivo al sistema di "contropotere" degli oligarchi. Quasi, perché, nonostante le batoste, i magnati conservano ancora, un'influenza, per non dire un controllo diretto, su intere regioni (16). A questo proposito, è utile ricordare che, sotto la presidenza Eltsin, lo stato centrale perdette molte prerogative a favore dei potentati locali, accentuando in tal modo un aspetto già presente all'epoca sovietica. Questi satrapi hanno speso agito per conto degli oligarchi (oltre che proprio), aggravando l'anarchia, la corruzione e il parassitismo da sempre diffusissimi negli apparati statali e aumentati in modo esponenziale dopo la fine dell'URSS. Secondo uno studio pubblicato in agosto dall'importante SNS (Consiglio per la strategia nazionale), molto vicino al presidente Putin, il crimine organizzato e la corruzione hanno assunto dimensioni così gigantesche da...

minacciare seriamente l'ulteriore modernizzazione del paese [e da essere] un pericolo per lo stato. Secondo alcuni esperti, circa 20 miliardi di dollari in tangenti vengono assorbiti ogni anno dai differenti livelli degli organi di polizia russi. (17)

Di fronte a questo quadro complessivo, si capisce come le riforme autoritarie e centralizzatrici avanzate da Putin e approvate senza battere ciglio dalla Duma, mirino, una volta di più, a ricondurre nelle mani dello stato quei poteri "usurpati" dai poteri locali e, soprattutto, dagli oligarchi. I governatori regionali, la stessa magistratura, per fare solo alcuni esempi, saranno strettamente controllati dal presidente, il cui partito - Russia Unita - dispone della maggioranza assoluta alle due camere del parlamento (18). L'affondo autoritario di Putin ha il sostanziale appoggio della grande borghesia e, in particolare, degli industriali. L'Unione degli industriali e degli imprenditori russi, che "controllerebbe tre quarti della ricchezza del paese e quattro quindi del Pil" (19), dapprima è rimasta in attesa, temendo che i "siloviki" volessero ritornare al capitalismo di stato, ma ben presto hanno appoggiato con convinzione il "pragmatismo" di Putin:

dall'inizio del nuovo secolo, tutta una lega di imprenditori russi, di investitori stranieri e di membri della burocrazia che conta, ha ritenuto che l'autoritarismo creerebbe condizioni ottimali per lo sviluppo dell'economia liberale. (20)

Infatti, se la borghesia russa vuole tirarsi fuori dal pantano in cui si trova oggi, non può - ma nemmeno ha - concedersi il lusso di agire secondo le regole astratte della democrazia borghese. Le chiacchiere (la democrazia) incantano se si ha la pancia piena, in assenza di questa condizione, si deve necessariamente ricorrere al bastone. D'altra parte, come abbiamo già rilevato (21), seppure attraverso vie meno dirette, il restringimento della democrazia borghese è un fenomeno internazionale, che avanza parallelamente al ridursi delle possibilità di amministrazione della crisi.

La Cina insegna: solo col pugno di ferro la nomenklatura "maoista" può cercare di traghettare il paese dal capitalismo di stato a forme "occidentali" di capitalismo, per non farsi travolgere dagli eventi com'è accaduto a Gorbaciov. Non è un caso che il compito di risollevare i "destini imperiali" della Russia sia finito nelle mani dell'ex KGB, evidentemente l'unico apparato di potere in grado di esprimere una strategia politica valida per tutta la classe borghese. Prima del collasso dell'URSS, chi aveva elaborato (o abbozzato) un radicale programma di rinnovamento era stato Andropov, che, in quanto ex capo del KGB, conosceva a fondo i colossali problemi del suo paese, ma la sorte e, soprattutto, le specifiche condizioni storiche non gli hanno permesso di concretizzarlo. Nonostante alcune analogie formali, l'URSS non era la Cina maoista, e una repressione come quella di piazza Tien An Men non sarebbe stata possibile, anche, sebbene possa sembrare paradossale, per la mancanza di un potere accentrato e autoritario come quello cinese. La società sovietica non era riformabile coi pannicelli caldi della perestroijka, che fu sconfitta dalle forze "selvagge" della borghesia russa, generate dall'imputridimento irreversibile del capitalismo di stato. I problemi da cui, alla fine, furono sopraffatti Andropov e, soprattutto, Gorbaciov, sono in gran parte gli stessi che devono risolvere Putin e i suoi "falchi", ulteriormente aggravati dal saccheggio indiscriminato dei "tartari" e da altre cose ancora.

La ripresa si scontra coi problemi strutturali dell'economia

Sebbene dopo la crisi del 1998 l'economia sia in forte ripresa, tanto che nel 2003 il PIL è aumentato del 7,3% e la bilancia commerciale ha registrato un attivo di 60 miliardi di dollari (22), questa crescita è legata essenzialmente all'impennata del prezzo del petrolio: nel 1993 l'Urals (denominazione del petrolio russo) costava 17,3 dollari al barile, è arrivato a 27,3 alla fine del 2003, per toccare, nel settembre di quest'anno, i 40,4 dollari (23). Ora, da una parte, questo fiume di dollari fa crescere gli introiti fiscali dello stato, le riserve della Banca Centrale e permette il regolare pagamento del debito estero, anche grazie al Fondo di stabilizzazione, organismo creato nel gennaio 2004 "per compensare i rischi derivanti da un improvviso calo nei prezzi degli idrocarburi" (24).

Tutti questi dollari, però, creano problemi di un certo rilievo. All'epoca di Eltsin la Banca Centrale ancorò il nuovo rublo al dollaro come moneta di riferimento, e chi aveva dei risparmi li investiva in dollari; inoltre, col biglietto verde erano (e sono) pagati gli impiegati delle maggiori società, residenti per lo più a Mosca. Col sopraggiungere dell'euro, però, le cose sono cambiate: il dollaro si è svalutato, il rublo si è apprezzato nei confronti della moneta americana, ma è calato rispetto all'euro (25). I risparmiatori, che, va da sé, appartengono soprattutto alla indeterminata classe media, e gli impiegati della "nuova Russia", vedono assottigliarsi i loro depositi, così come si assottigliano le riserve della Banca Centrale. Ma c'è un altro elemento ancora: la gran parte delle merci esportate vengono pagate in dollari, mentre quelle importate in euro; per fare un esempio,

Nel 2001, la Russia e gli Stati Uniti hanno scambiato beni per 10 miliardi di euro, la Russia e l'Europa per 75 miliardi. (26)

La decisione della Banca Centrale di ancorare il rublo non solo al dollaro, ma a un paniere di valute (27), dovrebbe attenuare gli effetti negativi legati all'andamento della divisa americana e trovare la quadratura del cerchio tra chi è avvantaggiato da un rublo debole e chi, essendo pagato prevalente con questa moneta, ha interessi esattamente opposti. Balza in ogni caso agli occhi l'obiettiva convergenza di interessi tra Europa e Russia, cioè che nello scambio di merci si saltasse la mediazione e il condizionamento della divisa USA. Non è una cosa da poco, però, essendo la difesa del ruolo egemonico della propria moneta l'alfa e l'omega della strategia dell'imperialismo americano, per la quale ha scatenato e attizzato ben cinque guerre del 1991 a oggi, e fomentato il terrorismo in chiave islamica alle frontiere meridionali della Russia, al fine di rendere inagibili/inutili gli oleodotti russi che trasportano il petrolio caspico al Mar Nero (28).

Ma se Putin vuole scrollarsi di dosso gli artigli dell'imperialismo yankee, non vuole nemmeno cadere vassallo di un futuro super-stato europeo e tenta di giocare su più tavoli le carte che ha in mano. Per questo, cerca di sviluppare i rapporti con la Cina (e l'estremo oriente), con la quale da tempo c'è il progetto di creare/potenziare una zona economica speciale nella Siberia sud-orientale. Il progetto, sulla carta, è molto semplice: la Siberia possiede enormi riserve di materie prime, ma è ampiamente sottopopolata. La Cina, al contrario, ha una disponibilità pressoché illimitata di manodopera a bassissimo costo: unendo le due forze, si può dare vita a un polo di sviluppo economico che coinvolga l'area del pacifico settentrionale e, in prospettiva, tutto l'estremo oriente (29).

Nello studio dell'SNS citato sopra, si fa esplicito riferimento alla necessità di potenziare le ferrovie russe che collegano la Siberia orientale coi porti del Baltico e del Mar Nero, affinché questi ultimi possano - un giorno non lontano - diventare i terminal delle merci cinesi (e russe) dirette al mercato europeo. Per questo, l'ente di stato delle ferrovie sta sperimentando sulla Transiberiana treni lunghi due chilometri, composti da 140 vagoni e mossi da tre locomotori (in testa, al centro, in coda); finora i risultati sono positivi, sia per quanto riguarda il logorio del materiale che i costi, entrambi nettamente inferiori a quelli dei convogli normali (30). Intanto, la Yukos, amministrata provvisoriamente dallo stato, onorerà i suoi impegni presi in precedenza da Khodorkovsky con la Cina, trasportando il petrolio prevalentemente su rotaia.

Accanto al "sogno asiatico", rimane ben vivo l'altro grande, se non principale, obiettivo, cioè quello di riunire l'Ucraina, la Bielorussia e gran parte delle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale in uno spazio economico governato da un'unica moneta e, un domani, da un'unica federazione che veda la Russia in posizione preminente. La borghesia russa, allo sbando negli anni novanta, ha dovuto subire perdite territoriali più gravi di quelle che furono costretti ad accettare i bolscevichi con l'infame pace di Brest Litovsk, ma ora vuole recuperare il terreno perduto negli anni della sbornia neoliberista. Le ambizioni sono grandi, gli ostacoli da superare altrettanto. Uno, per tutti, la grave penuria di capitali.

Fin dalle origini il capitalismo russo ha avuto il grave problema della penuria di capitali; lo ha sempre affrontato favorendo gli investimenti esteri e/o praticando uno sfruttamento spietato della forza-lavoro, garantito da un apparato statale estremamente repressivo: prima quello zarista, poi quello staliniano. Oggi, la borghesia è praticamente obbligata a ripercorrere la stessa strada, ma, come si è già detto, in condizioni peggiori, perché, a differenza delle epoche precedenti, non siamo in una fase di ascesa del ciclo di accumulazione. È vero che gli investimenti nell'apparato produttivo sono ripresi dopo il '98, ma...

a beneficiare del 73% di tutti gli investimenti fissi nel settore produttivo, sono le industrie energetiche e delle materie prime. (31)

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La maggior parte dell'apparecchiatura industriale sfruttata oggi in Russia è stata prodotta negli anni sessanta, periodo di sviluppo molto intenso durante il quale l'URSS rivaleggiò seriamente con gli Stati Uniti sul piano tecnologico, e sorpassò i tassi di crescita occidentali. A partire dagli anni settanta, i tassi di crescita sovietici declinarono senza interruzione, poi, nel corso degli anni ottanta, il ritmo di rinnovamento tecnologico rallentò. Con l'arrivo delle riforme neoliberiste, gli investimenti nell'ammodernamento delle apparecchiature obsolete furono quasi ridotti a zero. In mancanza di denaro per finanziare la ristrutturazione, i nuovi proprietari fecero andare le macchine fino a quando non cadono a pezzi. Ogni anno, il valore dei mezzi di produzione perde circa l'8%. (32)

Questo dato sulle condizioni drammatiche dell'industria russa, è sostanzialmente confermato da altre fonti, secondo le quali:

l'età media degli impianti e dei macchinari industriali è di circa 20 anni, ed il grado di deprezzamento nei diversi settori produttivi supera il 50%; l'energetico, il chimico e petrolchimico, la metalmeccanica e metallurgia, sono i comparti che utilizzano gli impianti più obsoleti. (33)

Né le cose vanno meglio nel settore dei trasporti, che beneficiano, sì, di "investimenti piuttosto alti in termini assoluti [ma] impianti e macchinari obsoleti rappresentano il 50-60% del totale, con i dati peggiori che si riscontrano nelle ferrovie"; gli oleodotti sono in una situazione appena migliore, poiché il loro "grado di deprezzamento è 'solo' del 44%" (34). Non parliamo poi dell'edilizia, dove "più della metà dei veicoli, specialmente le gru, hanno sorpassato la loro vita utile e necessitano di venire sostituite", o dell'agricoltura, il cui macchinario non è certamente messo meglio (35). Come se non bastasse, la ricerca scientifica (e la cultura in generale) ha subito serissimi colpi:

I danni inferti alla ricerca scientifica dall'antica leadership sovietica incompetente e burocratica non erano paragonabili a quelli di cui i sedicenti democratici sono oggi responsabili. (36)

Il disastroso incendio della torre della televisione Ostankino, orgoglio dell'era sovietica, e il tragico affondamento del sommergibile atomico Kursk, avvenuti a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro nell'estate del 2000, per molti russi sono il simbolo drammatico dello sfacelo tecnologico - industriale abbattutosi sul loro paese.

Il sistema economico, dunque, ha un disperato bisogno di capitali, ma, pur in presenza di massicci investimenti e acquisizioni da parte delle multinazionali estere, dal settore automobilistico a quello alimentare, (si parla, per il 2003, di 7 miliardi di dollari solo di investimenti diretti), rimane alto il fenomeno della fuga di capitali all'estero. Quest'anno si stima che il totale dei capitali trasferiti oltre frontiera, per lo più in paradisi fiscali, possa oscillare tra gli 8 e i 12 miliardi di dollari. Probabilmente, buona parte di questi trasferimenti è dovuta agli oligarchi, più interessati alla speculazione pura che all'investimento produttivo, senza contare che, sotto la minaccia costante di arresto, possono giocare le loro enormi fortune come arma di ricatto e di destabilizzazione nei confronti del regime. Ma rimane il dato di fondo che, oggi, la speculazione, il parassitismo finanziario, a causa degli anemici saggi di profitto industriale, hanno assunto una dimensione abnorme, che condiziona fortemente l'economia reale.

La stessa Banca Centrale russa va a caccia di ricchezza in quell'immensa riserva di plusvalore mondiale che è il debito americano, dal momento che colloca "gli extra di bilancio" nei titoli statunitensi e, in via subordinata, in quelli europei, suscitando un certo malumore negli ambienti imprenditoriali, che accusano lo stato di finanziare l'economia americana invece di concedere più crediti agevolati all'industria russa. Lo stato, infatti, oltre alla Banca Centrale, controlla saldamente la struttura bancaria del paese; in primo luogo attraverso la Vneshtorgbank - la banca per il commercio estero - e la Sberbank, che, da sola, rastrella l'80% di tutti i depositi privati ed è l'unica banca ad avere una presenza capillare sul territorio (37). Recentemente, poi, il governo Putin sta accelerando il processo di concentrazione degli istituti bancari e, al di là delle apparenze, il controllo del sistema creditizio. Il riferimento è alla cessione a privati di pacchetti azionari, appartenenti allo stato, di alcune grandi banche: in realtà, vengono vendute quelle quote ritenute pesi morti o più piccole "di quanto sarebbe necessario per ottenere una rappresentanza nei consigli di amministrazione, senza permettere, quindi, ai nuovi proprietari di influenzare le decisioni di questi ultimi" (38). Sia detto per inciso, secondo alcuni è molto probabile che venga seguita questa prassi nella annunciata privatizzazione del complesso metallurgico di Magnitogorsk. È una dimostrazione ulteriore di come, nonostante le fanfare del neoliberismo, lo stato rimanga uno strumento centrale per la navigazione nelle acque burrascose della mondializzazione capitalista, soprattutto per le borghesie che, come quelle russa e cinese, ambiscono a ritrovare un posto da protagoniste nel "Grande Gioco" dell'imperialismo mondiale.

Borghesia e proletariato in corsa contro il tempo

In questo scenario, qual è invece il ruolo del proletariato russo? In parte l'abbiamo già detto: su di lui si sono scaricati prima i conti salatissimi della fase neoliberista, poi ha cominciato a pagare - anzi, in pratica non ha mai smesso di farlo - quelli non meno salati della strategia imperiale dei "siloviki", ma con l'aggravante di aver creduto, nei primi anni novanta, ai miti del credo neoliberista. Il ragionamento era, oltre che in gran parte inevitabile, tanto semplice quanto sbagliato: se quello che abbiamo vissuto era il socialismo realizzato, viva il capitalismo nella sua veste più pura! Non che siano mancate lotte anche durissime (per esempio, i minatori), ma, dal punto di vista politico, in genere erano improntate al corporativismo, all'accettazione delle "miracolose" leggi di mercato, alla totale desolidarizzazione con gli altri settori della classe operaia, fino all'aperta presa di distanza dai loro compagni di classe (39). In quegli anni sorsero anche i primi sindacatini "di base" su una piattaforma politica apertamente borghese, in contrapposizione al sindacato ufficiale FNPR, burocratico, inetto, traditore, che, essendo la prosecuzione del vecchio organismo statale di epoca sovietica, era visto come il sindacato dei comunisti. Col tempo, l'illusione ha perso molto del suo smalto, ma è indubbio che la parola "comunismo" susciti quanto meno diffidenza e circospezione.

Anche a causa del profondo disorientamento ideologico in cui è caduto il proletariato (a dire il vero, non solo russo...), la borghesia può attaccarlo a tutto campo, senza quasi subire reazioni significative o durature. Per altro, l'opera di macelleria sociale che Putin sta facendo in Russia, è esattamente uguale a quella portata avanti dai governi di tutto il mondo e di qualsiasi schieramento politico. La differenza, come abbiamo già osservato (40), è che nei paesi della periferia e semiperiferia del capitale, borghesi e proletari hanno meno risorse e meno riserve per gestire e ammortizzare gli effetti della crisi.

Le leggi approvate recentemente, che demoliscono le ultime macerie dello "stato sociale" sovietico e che espongono milioni di persone al rischio tutt'altro che remoto della morte per indigenza (41), sono solo le ultime, in ordine di tempo, di una legislazione volta a rapinare il salario indiretto e differito, a impedire, nella sostanza, il diritto di sciopero e a imporre una esasperata estorsione del plusvalore non solo relativo, ma anche assoluto. Nel frattempo, le imposte sul reddito sono state portate tutte al 13% e i contributi pensionistici versati dai padroni abbassati dal 38 al 26%, assicurando in tal modo pensioni letteralmente da fame. Non per niente, nel piano di politica economica presentato nel 2000, si proponeva di elevare a dodici ore la durata legale della giornata lavorativa e di eliminare ogni limitazione al lavoro dei bambini (42).

Questi specifici articoli non sono passati, anche se non avrebbero fatto altro che legalizzare uno stato di cose ampiamente diffuso. Ma non è detta l'ultima parola. Il ritorno a condizioni di lavoro "manchesteriane" è una necessità ineludibile per il capitalismo, che dalla periferia le sta "esportando" nella metropoli. Basti ricordare, per l'Italia, la legge 30, che, più ancora della legge Treu, ha legalizzato le peggiori forme di lavoro nero e di sottoccupazione. Oggi, in Russia, il 35% circa degli stipendi è pagato in nero e se il salario medio è aumentato dopo il '98, ciò è dovuto non solo o, meglio, non tanto alla ripresa economica, quanto...

alle ore di straordinario così come a un'intensificazione dei ritmi (il salario a cottimo è ancora preponderante). (43)

Tuttavia, la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Gli stipendi vengono pagati con più regolarità - tranne che in agricoltura - ma il salario medio mensile oscilla pur sempre, a seconda delle fonti, tra i 141 e i 187 dollari, contro i 268 del resto dell'Europa orientale (44). Eppure, la classe operaia russa deve subire la concorrenza della classe operaia di Vietnam, India, Pakistan, Iran, visto che alcune grandi imprese (per esempio, del settore automobilistico) hanno firmato degli accordi per delocalizzare in quei paesi parti della produzione (45). D'altra parte, anche in Russia il capitale si sta avvicinando rapidamente al punto in cui i vantaggi di un basso costo del lavoro tendono ad annullarsi di fronte agli enormi investimenti necessari per competere sul piano interno e internazionale:

ormai il costo delle auto straniere fabbricate in Russia è generalmente inferiore di solo il 15% a quello delle auto importate. (46)

Infatti, il prezzo di un'Opel-Astra 1.8 prodotta negli stabilimenti di Tolyatti (Togliattigrad) dalla joint-venture GM-AvtoVAZ si aggira sugli 11.000 dollari. Con questi prezzi, però, le capacità di assorbimento del mercato sono ovviamente limitate, se il salario, ben che vada, arriva a sfiorare i 200 dollari, se la fantomatica classe media, concentrata per lo più a Mosca e in poche grandi città, in genere non dispone di redditi adeguati ai prezzi occidentali delle merci e dei servizi pubblici, come e più che in Occidente privatizzati e diventati, dunque, pressoché inaccessibili per la stragrande maggioranza della popolazione. Secondo certi studiosi borghesi, il reddito pro capite mensile della classe media si collocherebbe tra i 250 e i 400 dollari (47), il che conferma quanto sia ridotta la sua capacità di spesa. Da qui, le modificazioni ideologiche in corso in questo magmatico ceto sociale. Dopo aver subito i pesanti contraccolpi della crisi del '98, settori sempre più vasti starebbero abbandonando la fede nel "libero mercato", per assumere un atteggiamento di rifiuto verso le istituzioni e la "globalizzazione":

Sotto lo stato poliziesco, la classe media già irritata sta per capire ciò che le classi oppresse provano da più di un decennio. Una sorta di uguaglianza culturale prende forma: l'uguaglianza della maggioranza di fronte ai manganelli [...] L'irrigidimento del regime politico spinge l'intelligentsia, almeno quella delle giovani generazioni, verso sinistra. Nelle circostanze attuali, i liberali dallo spirito critico si trasformano in radicali e rivoluzionari. (48)

Sarà vero? La tesi è interessante e incoraggiante, ma da prendere con la dovuta cautela, non fosse altro perché il passaggio da radicali a rivoluzionari presuppone la riappropriazione del metodo e della teoria marxista, che proprio nell'ex impero sovietico sono stati stravolti più che altrove. Indubbiamente, i fatti concreti si incaricano di sbugiardare ogni giorno che passa le mistificazioni del capitalismo in salsa "occidentale" e spingono, soprattutto i giovani, a sinistra; ma è una sinistra che si colloca interamente sul terreno del riformismo piccolo borghese, no-global, trotskysta: in una parola, di quella nuova socialdemocrazia che imperversa nel mondo. Per quel che ne sappiamo, le minuscole organizzazioni che, faticosamente, cercano di mettersi sui binari del marxismo non adulterato, sono troppo deboli (più ancora che in Occidente) per influenzare in modo significativo individualità o settori di classe.

Anche in Russia, dunque, da un certo punto di vista, e da posizioni opposte, rivoluzionari e borghesi sono in corsa contro il tempo per tornare ad interpretare un ruolo da protagonisti; sul terreno della lotta di classe, i primi, su quello dello scacchiere imperialista, i secondi. Ma la corsa è resa estremamente difficoltosa dalle particolari condizioni in cui si trova quell'immenso paese. I rivoluzionari, per i motivi che abbiamo appena detto, la borghesia per tutti quelli che, sebbene sinteticamente, abbiamo tracciato nel corso di questo lavoro.

Putin e i "siloviki" devono inoltre fare i conti con una popolazione in costante calo, in cui la diffusione di malattie devastanti, come l'AIDS, è fortemente incoraggiata dai tagli drastici alle spese sanitarie, all'edilizia popolare, alla scuola, a tutto ciò che può costituire un presidio contro il degrado igienico-sanitario e culturale. Con una sistema economico, che, sebbene in crescita, è ancora un nano rispetto a quello dei paesi capitalistici centrali (49). Non da ultimo, vale la pena richiamarlo, con l'accresciuta aggressività dell'imperialismo americano, che, dopo aver dato un contributo di primo piano allo smembramento dell'impero sovietico, continua ad operare per soffocare sul nascere le ambizioni imperialistiche della borghesia russa. Dall'Ucraina all'Uzbekistan, passando naturalmente per il Caucaso, "l'amico" Bush fomenta nazionalismi e separatismi, sostiene caricaturali regimi di democrazia borghese e spietati terrorismi, ai quali lo "zar" Putin risponde con altrettanta spietatezza. Sullo sfondo, l'incancrenirsi della crisi del ciclo di accumulazione, che, agli uni e agli altri macellai imperialisti, lascia ben pochi margini di manovra, se non quelli di sempre: l'intensificazione dello sfruttamento del proletariato e la guerra. In Russia, come nel resto del mondo, le debolissime forze rivoluzionarie hanno allora un'urgenza pressante: crescere organizzativamente e mettere almeno qualche radice nella classe, per non essere spazzate via dalla marea montante della barbarie capitalista.

Celso Beltrami

(1) "Che fare", giornale dell'OCI, n.47, in tightrope.it .

(2) Moshe Lewin, "Le siècle soviétique" [Il secolo sovietico], Fayard - Le Monde diplomatique,2003, pag.454 e pag.456.

(3) Vedi, nelle nostre edizioni, "I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della perestroijka",1989.

(4) Boris Kagarlitsky, "La Russie aujourd'hui. Néo-liberalisme, autocratie, restauration" [La Russia oggi. Neoliberismo, autocrazia, restaurazione] Parangon,2004, pag.232.

(5) Ibidem.

(6) Denis Paillard, "Poutine, petit soldat de la mondialisation liberale" [Putin, piccolo soldato della mondializzazione liberista], Carré Rouge n.23, ottobre 2002, pag.43.

(7) A l'encontre, "Douze années de dépression économique et d'offensive de l'Etat contre les travailleurs" [Dodici anni di depressione economica e di offensiva dello stato contro i lavoratori], in alencontre.org .

(8) Kagarlitsky, cit., pag.157.

(9) Kagarlitsky, cit., pag.337.

(10) Kagarlitsky, cit., pag.344.

(11) Lewin, cit., pag.486, Jacques Sapir, Politis n.774, novembre 2003.

(12) Uomini e imprese (d'ora in avanti, U&e), "2003: successi, fallimenti, rischi politici", n.32, gennaio 2004 in uominieimprese.ru - Questa rivista, va da sé, esprime un punto di vista borghese, ma è ricca di dati sull'economia russa.

(13) Giulietto Chiesa, "Putin prende tutto", 1 settembre 2004, giuliettochiesa.it .

(14) Nina Bachkatov, "Il Cremlino contro gli oligarchi", Le Monde diplomatique - Il manifesto, dicembre 2003. Ma vedi anche gli articoli di Giulietto Chiesa sul suo sito.

(15) U&e, "Nuova privatizzazione record", n.48, ottobre 2004.

(16) Per fare un esempio, Abramovich, petroliere diventato famoso per aver comprato la squadra di calcio del Chelsea, è governatore della regione siberiana, ricca di petrolio, della Chucotka.: vedi U&e n.44, luglio 2004, "Oligarchi allontanati dalla politica, ma le regioni ne sono 'prigioniere' ".

(17) U&e, "Il programma della 'nomenklatura' per il secondo mandato di Putin", n.46, settembre 2004.

(18) K. S. Karol, "Le telenovelas di Putin l'autoritario", il Manifesto,7 novembre 2004. Tra settembre e ottobre su questo giornale sono usciti numerosi altri articoli sulle riforme dello stato operate da Putin.

(19) Carine Clément, “Alle radici del 'fenomeno Putin'”, Le Monde diplomatique - il Manifesto, febbraio 2003.

(20) Kagarlitsky, cit., pag.355.

(21) Lorenzo Procopio, "Dalla democrazia rappresentativa alla democrazia oligarchica", Prometeo n.8, dicembre 2003.

(22) Ambasciata d'Italia a Mosca, indicatori economici, in ambmosca.ru .

(23) Ambasciata d'Italia, cit.

(24) Il Fondo di stabilizzazione disponeva di 3,66 miliardi di dollari in gennaio e si prevede che raggiungerà almeno gli 11,72 miliardi entro la fine di quest'anno, vedi U&e, n.46.

(25) U&e, "L'apparizione della moneta unica ha stravolto economia e abitudini", n.36, marzo 2004.

(26) Emmanuel Todd, "Dopo l'impero", Tropea,2003, pag.135.

(27) U&e, "Che cosa significa per la Russia il greggio alle stelle", n.41, giugno 2004.

(28) Vedi Battaglia Comunista n.9/04 e Giulietto Chiesa, "I mandanti di Beslan",10 settembre 2004, sul sito citato

(29) Putin ha regalato alla Cina alcuni territori siberiani, tra cui un'isola sul fiume Ussuri, che, nel 1969, furono oggetto di scontri armati tra i due paesi, ai fini di agevolare i rapporti economico-diplomatici: vedi Giulietto Chiesa, "Berlusconi e Putin, insieme alla meta",4 novembre 2004, sul sito citato.

(30) U&e, "Super-treni sullaTransiberiana", n.48, ottobre 2004.

(31) U&e, "Russia: situazioni e previsioni di mercato 2002-2004", n.32, gennaio 2004.

(32) Kagarlitsky, cit., pagg.329-330.

(33) U&e "Quanto costa la Russia?", seconda parte, n.41, giugno 2004. In questo articolo si dice anche che "È doverosa una nota sui 'miti della produzione': il primo di questi è che l'industria estrattiva sia il settore più importante di tutta l'economia; in realtà, in termini di out put produttivo, i leader sono la meccanica e la metallurgia. Il settore dei carburanti, che include l'estrazione e la raffinazione, così come la produzione di gas naturale, è al secondo posto".

(34) U&e, "Quanto costa la Russia?", prima parte, n.40, maggio 2004.

(35) U&e, "Quanto costa la Russia?", nn.40 e 41, cit.

(36) Kagarlitsky, cit., pag.370.

(37) U&e, "Intervista a Paolo Lodigiani, membro del CdA di FPK Bank", n.45, settembre 2004.

(38) U&e, "Governo: via le partecipazioni di minoranza delle banche", n.47, ottobre 2004.

(39) Kagarlitsky, cit., il quinto capitolo: "Modello corporativo e conflitti sociali".

(40) Vedi Battaglia Comunista, cit.

(41) Ibidem.

(42) Kagarlitsky, cit., pag.325.

(43) A l'encontre, cit.

(44) U&e n.32 e Ambasciata d'Italia a Mosca, cit.

(45) U&e, "AvtoVAZ aumenta i kit spediti all'estero", "GM - AvtoVAZ inizia la produzione di Chevy Viva" e "Anche Nissan parla di uno stabilimento in Russia", n.48, ottobre 2004.

(46) Ibidem.

(47) Sergi Augusto Rossi, "Chi comanderà a Mosca nel 2010", in liberalfondazione.it .

(48) Kagarlitsky, cit., pag.360.

(49) Secondo i dati forniti dall'ambasciata d'Italia a Mosca, il PIL russo era di 165,8 miliardi di dollari nel 1999 e ha raggiunto i 450,9 miliardi nel 2003. Per avere un punto di riferimento, il PIL italiano nel 2002 è stato poco meno di 1.200 miliardi di dollari. Sul sito dell'ambasciata citato più in alto e sul numero 32 di U&e, c'è il quadro economico generale della Russia, anche tra i dati c'è un leggero scostamento.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.