Dietro le cifre sui disoccupati

In un’epoca in cui le vite virtuali - in televisione o in internet - prendono il posto di quelle vere e il denaro sembra prodursi da altro denaro come in un gigantesco casinò, poteva forse mancare la rappresentazione fantasmago-rica del mercato del lavoro?

Ovviamente no, e ce lo confermano una volta di più le recenti statistiche ISTAT, che tracciano un’evoluzione apparentemente positiva dell’occupazione. Va da sé che le due “gangs” borghesi che siedono in parlamento si sono buttate a pesce su quei dati, litigandosi il merito dei mirabolanti progressi sul fronte del mercato del lavoro. Non per tenere il piede in due staffe, ma effettivamente sia il centro-sinistra che il centro-destra possono legittimamente rivendicare la paternità della situazione che si è andata delineando.

In breve, cosa ci dice il rapporto ISTAT? Che la disoccupazione, nel 2006, sarebbe scesa al 6,9%, avvicinandosi in tal modo ai valori del fu boom economico degli anni 1960, a riprova - cantano in coro gli stornellatori del cosiddetto neoliberismo - che il mercato non è quella brutta bestia descritta da giovani no-global o, peggio ancora, da qualche ammuffito sostenitore del marxismo.

Andando però a spulciare tra le pieghe luccicanti di tanta scienza, non si fa fatica a trovare ben più di una pecca, che riduce a poco il trionfalismo dominante. A parte che per essere considerati occupati basta avere svolto almeno un’ora di lavoro nella settimana precedente la rilevazione (come si faccia poi a campare è un mistero, a meno di non essere degli umani geneticamente modificati), l’arretra-mento del tasso di disoccupazione è dovuto essenzialmente a tre fattori: alla regolarizzazione degli immigrati, all’aumento massiccio dei cosiddetti contratti atipici, a una “consistente riduzione delle forze di lavoro” (il manifesto, 22-03-2007). Senza contare, naturalmente, che il fenomeno “positivo” è circoscritto alle regioni del nord, mentre nel centro e soprattutto nel sud il quadro è molto meno brillante.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono stati dunque conteggiati lavoratori già presenti sul mercato del lavoro, ma “invisibili” alle statistiche ufficiali perché sprovvisti di permesso di soggiorno. Anche il secondo e terzo elemento non sono stati meno determinanti nella riuscita di questo vero e proprio gioco delle tre carte. Chi, ormai scoraggiato, si rassegna al lavoro nero “a vita” e/o non cerca più un posto in regola, viene semplicemente depennato dalle statistiche, non esiste più: come in certi romanzi dell’assurdo in cui il protagonista, vivo e vegeto però privo di documenti, per la burocrazia ha la consistenza di un fantasma, cioè meno di zero.

Ma se ogni gioco di prestigio che si rispetti deve essere in grado di far sparire le persone, allo stesso tempo deve essere capace di farne comparire almeno due: è il trucco dei part-time e dei posti a tempo determinato. Questi ultimi (senza contare i finti autonomi...) costituiscono ormai oltre il 50% delle nuove assunzioni. Un part-time a venti ore vale come un impiego a quaranta ore, un tempo determinato come un indeterminato: signore e signori, et voilà, il gioco è fatto! Per illuminare ancora poco questa moderna moltiplicazione dei pani e dei pesci, non sarà superfluo aggiungere che i part-time, in genere, sono imposti e non scelti, e sono per lo più le donne a dover ingoiare l’amara medicina. Ci troviamo dunque di fronte a una delle tante contraddizioni del capitalismo: mentre una parte dei lavoratori è praticamente obbligata ad accettare lo straordinario, un’altra è costretta a lavorare per un numero di ore nettamente insufficiente per vivere, e, non di rado, organizzate in modo tale che impediscono la ricerca di una seconda occupazione.

Però, che i “nostri” borghesi non si vantino troppo delle loro spiccate attitudini da bari, perché non sono i soli a ricorrere a certi trucchetti:

Uno studio dell’OCSE, sfortunatamente non recente (1996), mostrava che il tasso di disoccupazione della maggior parte dei paesi sarebbe aumentato da 2 a 9 punti in percentuale se si fossero contati i lavoratori scoraggiati e i salariati(e) costretti(e) al part-time. Dei dati un po’ più recenti (1999) forniti da Eurostat confermavano quelle valutazioni. Da allora, questo campo di investigazione è stato abbandonato dagli istituti statistici.

Ti credo: insistendo troppo, si sarebbe visto spuntare dalle maniche dei politicanti gli “assi” dei part-time e dei tempi determinati. Allora, meglio far finta di niente o inventarsi altri trucchi, come fa la borghesia USA, la quale ha la faccia tosta di includere i carcerati nei non disoccupati (il che, da una parte, è vero, vista la sempre più spinta trasformazione dei carcerati in semi-schiavi). Numeri “da poco” per l’Europa, ma tutt’altro che inezie per gli USA, dove dagli anni 1980 - guarda caso con l’inizio del neoliberismo:

"comincia un vero boom della carcerazione: la popolazione penale raggiunge il tasso del 7,4 per mille abitanti nel 2006 [era circa dell’1 per mille fino agli anni 1970] cioè 2,2 milioni di persone [...] otto volte più che la Francia e la Germania, dodici volte più che il Giappone”" (M. Husson (a cura di) Travail flexible, salariés jetables, La Découverte, 2006, pag. 103 e pag. 96)

Anche da queste brevi note dovrebbe essere chiaro come l’aggettivo “internazionalista”, che orgogliosamente rivendichiamo, non sia un accessorio: la lotta, per forza di cose, comincia (se e quando...) da qualche parte, ma la sua prospettiva deve necessariamente essere internazionale, perché questo è il modo di agire del capitale.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.