Manovra finanziaria: un Titanic sociale

Il Titanic colò a picco nelle prime ore del 15 aprile 1912; la stragrande maggioranza delle oltre 1500 vittime apparteneva ai passeggeri di terza classe e agli uomini dell'equipaggio.

Quella tragedia - tutt'altro che inevitabile - evocata da Tremonti può essere sì usata come metafora della manovra finanziaria, ma, appunto, nel senso esattamente opposto a quello suggerito dal ministro dell'economia. Anzi, se nel naufragio del transatlantico “inaffondabile” perì qualche magnate dell'industria e della finanza, e non solo della povera gente, nei provvedimenti economici di metà luglio vengono colpiti esclusivamente il proletariato e strati di piccola borghesia, che fanno un altro passo in avanti sulla strada del declassamento sociale.

Sono misure che, nella sostanza, non differiscono da quelle attuate dagli altri governi europei alle prese con gravissimi problemi economici, nella fattispecie con gli attacchi sistematici degli speculatori finanziari (per altro, in molti casi, salvati e rivitalizzati proprio dagli aiuti statali), a riprova che se si accetta il quadro del capitalismo, la ricetta della minestra è sempre quella.

La variante italiana della ricetta contiene anzi un elemento che suona come una beffa per coloro che, votando SI ai referendum sull'acqua, avevano sinceramente creduto di mettere un argine all'istinto predatorio del capitale, esaltato, in questi anni, dalla crisi strutturale dei meccanismi di accumulazione su scala mondiale. Detto in altri termini, nella manovra sono previste incentivazioni, per così dire, alla privatizzazione della aziende municipalizzate (di ciò che ne resta) ossia di quello che il riformismo, con un'espressione impropria, e persino infantile, chiama “beni comuni”. E' ovvio che, soprattutto in questo contesto, privatizzare significa svendere, con nuovi effetti negativi sui bilanci delle amministrazioni locali - dopo i tagli pesantissimi della Finanziaria 2010 - che si ripercuoteranno sulla “utenza”: trasporti, scuola, assistenza sociale ecc.

Non si tratta, certamente, di un fenomeno nuovo, ma dell'accelerazione di un processo in corso: com'è noto, da anni i privati sono entrati nella gestione dei servizi comunali e regionali, portando con sé un peggioramento complessivo dei servizi, non da ultimo delle condizioni di lavoro del personale, stretto nella morsa della precarietà e dei bassi stipendi. Precarietà e bassi salari - caratterizzanti, per altro, anche il settore privato - funzionali al progressivo taglio delle risorse destinate al “pubblico” (ma provenienti per lo più dalle imposte sul lavoro dipendente e dal salario indiretto) e al mantenimento della folla di parassiti che pullulano nei meandri (o nelle fogne) della politica borghese. Dunque, se negli anni di crescita economica le amministrazioni, centrali e locali, potevano o addirittura dovevano permettersi di amministrare le famose briciole (che, a volte, diventavano pure qualche fettina di torta), oggi, le amministrazioni, anche ipotizzando che siano formate solo da persone scrupolosamente rispettose della legalità borghese, non possono fa altro che amministrare la guerra di classe contro il proletariato cui la borghesia è obbligata dalla crisi gravissima in cui versa il capitalismo.

Sono decenni che il capitale cerca di uscire dal pantano in cui è, per forza di cose, finito, mettendo in atto tutte le strategie classiche per ridare ossigeno all'accumulazione, ma quando sembra che abbia superato un ostacolo, se ne ritrova davanti uno più alto. Intensificazione dello sfruttamento in tutte le sue forme, taglio delle spese improduttive (di plusvalore), predazione dei “beni comuni”, del salario indiretto e differito (pensioni e servizi sociali). Si impoverisce la gran parte della popolazione, mentre si tagliano le imposte ai ricchi (imprese, grandi patrimoni, ecc.), che però investono il denaro così risparmiato non nella produzione - per il saggi di profitto insufficienti, rispetto gli investimenti - ma per lo più nella speculazione finanziaria. Il Berlusca - e con lui i governi di altro colore e di altri paesi - può davvero vantarsi di non aver messo le mani nelle tasche dei cittadini, purché si specifichi di quali cittadini:

Nell'Unione Europea a 15, tra il 1995 e il 2006, l'aliquota dell'imposta sulle imprese - quella nominale, che in genere è assai più alta di quella effettivamente pagata - è stata ridotta dal 38 al 29 per cento, e nella UE a 10, di cui fa parte l'Italia, dal 31 al 21 per cento. Negli Stati Uniti, nei primi anni '50 le imposte sulle imprese costituivano oltre il 30 per cento delle entrate federali; nel 2008 la loro quota si era ridotta a un mero 12 per cento. Mentre diminuivano le entrate fiscali provenienti dalle imprese, i governi di Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, per citare soltanto i paesi maggiori, contribuivano a un peggioramento addizionale dei conti pubblici riducendo le aliquote dell'imposta sul reddito alla fascia dei contribuenti più ricchi, e riducendo o azzerando le imposte di successione e quelle sui grandi patrimoni.

L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011, pp 124-125

Oltre a questo, in Italia - è arcinoto - c'è un'evasione fiscale abnorme, che va oltre i livelli degli altri stati, evasione senza la quale molti imprenditori piccoli e meno piccoli avrebbero chiuso bottega, mentre al lavoro dipendente - altra ovvietà - non è dato nascondere nemmeno un centesimo...

Com'è detto in un altro articolo, la manovra ha incassato il “senso di responsabilità” delle opposizioni (?) parlamentari, che hanno fatto da palo a questa enorme rapina a spese del proletariato e delle classi sociali assimilabili o vicine a esso. Si è anticipato il minuetto in corso a Washington, sebbene, per così dire, a parti invertite: là sono i democratici a chiedere un atteggiamento responsabile ai repubblicani, per non far precipitare in guai maggiori la più grande potenza imperialista del mondo. Il grido perentorio di sua maestà il capitale è risuonato tra i colli di Roma: basta - almeno per un momento - con le puttane, con le demagogie secessioniste per gonzi, con i giochetti parlamentari, c'è da mobilitare il proletariato affinché cali le scialuppe al “sistema Italia”. Quindi, dal PD all'UDC, passando per l'IDV, hanno risposto affermativamente al grido di dolore lanciato da Napolitano, che, coerente con la sua storia, non si è mai tirato indietro quando si è trattato di far passare i sacrifici sulla pelle del lavoro salariato. I più vecchi certamente ricorderanno che all'epoca dei governi di unità nazionale, sul finire degli anni 1970, l'ala “migliorista” del PCI, di cui l'attuale presidente della repubblica costituiva uno dei principali esponenti, era tra i più decisi sostenitori della “politica dei sacrifici”... a senso unico, naturalmente.

Nonostante l'assalto forsennato al lavoro dipendente, è improbabile - per usare un eufemismo - che il capitalismo, al di là delle differenze esistenti tra le sue sezioni nazionali, possa riprendere slancio e vigore. Nubi di tempesta sempre più nere si addensano, come si è detto, anche nei cieli degli Stati Uniti, il che preoccupa non poco dragoni e tigri asiatiche. Certo è, però, che senza l'intervento cosciente del proletariato, il capitalismo, in un modo o nell'altro, supererà tutte le sue crisi: ancora una volta, è più che mai stringente la necessità del partito rivoluzionario, che, nel rapporto dialettico con la classe, la renda protagonista della rottamazione di questo sistema sociale.

CB