Nuovo governo, nuove batoste

Salvarsi dal baratro, buttandovi il proletariato

E così l'Italia non è più in castigo, può tornare a sedersi – ma con cautela – tra i banchi delle nazioni virtuose. La “maestra” UE ha abolito la procedura per deficit eccessivo che aveva aperto nel 2009 a carico del “nostro Paese”, benché l'allora capo (comico) di quella specie di Corte dei Miracoli chiamata governo sfoderasse il suo sorriso più smagliante per rassicurarci sull'eccellente stato di salute dell'economia nazionale.

Era la notizia attesa – ma anche scontata – dall'attuale governo e dalle “parti sociali”, per poter usufruire di fondi ora bloccati e cominciare così ad affrontare le tante “emergenze” (come va di moda dire) sfornate dalla crisi a getto continuo. Che la crisi non accenni ad attenuarsi è certificato anche recentemente (29 maggio) dall'OCSE, che ha rivisto al ribasso le stime sulla diminuzione del PIL nel 2013 (-1,8%) e sulla cosiddetta ripresa nel 2014 (+0,4%), confermando il grido d'allarme lanciato dal presidente di Confindustria, Squinzi, secondo il quale il Nord, cuore del sistema manifatturiero italiano, sarebbe sull'orlo del baratro, a rischio concreto di avviarsi verso un declino inarrestabile e irreversibile dell'economia, tale da ricacciare il paese indietro di cinquant'anni e passa. Il governo delle larghe intese, nella persona del presidente del consiglio, non poteva restare sordo all'allarme confindustriale e nemmeno i sindacati “maggiormente rappresentativi”, a cominciare dalla CGIL. Letta ha ribadito – ma non avevamo dubbi – che il governo è dalla stessa parte dell'«impresa», così come la Camusso, che, apprezzando precedenti aperture di Squinzi, ha auspicato finalmente una collaborazione più stretta tra capitale e lavoro, nel superamento delle incomprensioni degli ultimi anni1. Il governo, il padronato, i sindacati si sono messi in movimento come api operose per approntare strategie d'attacco alla crisi, con le quali “far ripartire la crescita”, portare la disoccupazione giovanile almeno al 30% dal 42% in cui è ora (Rainews24, 1 giugno), pur continuando a tenere sotto controllo i conti pubblici, in omaggio al feticcio del pareggio di bilancio. In tal senso, la riammissione dell'Italia nel club dei “bravi ragazzi” fa tirare un respiro di sollievo all'esecutivo, anche se questo sollievo è più una rappresentazione per il pubblico che un atto convinto. Infatti, le misure ventilate dal governo hanno bisogno di finanziamenti significativi, quasi nessuna sarebbe “a costo zero”, per cui ogni ipotesi, se non a sbattere, va comunque a presentarsi davanti alle casse statali, che però sono messe piuttosto male. Gli sgravi fiscali per chi assume i giovani in pianta stabile, il rilancio della staffetta generazionale (per altro già prevista nell'attuale legislazione sul lavoro) secondo la quale il posto “fisso” di un lavoratore prossimo (si fa per dire) alla pensione sarebbe diviso in due part-time, di cui uno riservato a un giovane, richiedono, appunto, finanziamenti difficili da reperire2, se non togliendoli da altre voci di spesa. Lo stesso Squinzi non ha gradito –pare – che i fondi per il finanziamento della cassa integrazione in deroga siano stati presi anche dalla formazione professionale, cioè da un settore che dovrebbe avere un ruolo non secondario nel sistema produttivo. Per questo, come s'è detto, si aspettava che l'Unione Europea togliesse il cappello con le orecchie d'asino all'Italia, per ricevere e sbloccare nuove risorse. Ma, c'è un ma. E' vero che l'Europa ha destinato, per il momento (si dice) sei miliardi di euro nella lotta alla disoccupazione giovanile, però, com'è stato giustamente fatto osservare, con i numeri attuali ciò “significa più o meno 130 euro a testa l'anno per sette anni” (A.M. Merlo, il manifesto, 29 maggio 2013). Se questo è l'incentivo che i soggetti interessati (disoccupati e/o capitalisti) portano a casa, è davvero poca cosa.

È vero anche che il governo si aspetta lo sblocco di un “tesoretto” da dodici miliardi di euro, ma questo “malloppo” sarà disponibile – se lo sarà – solo dal 2014 e, in ogni caso, ha sottolineato il ministro Saccomanni in perfetto accordo con l'UE, non potrà essere destinato a finanziare interventi sull'IMU o a bloccare il previsto aumento dell'IVA al 22%. Insomma, se mai questi ultimi due provvedimenti verranno presi, ancora una volta si dovrà pescare da altre parti, cioè procedere con altri tagli. Tra parentesi, secondo i calcoli di alcune associazioni dei consumatori, l'aumento dell'IVA ricadrebbe più pesantemente sulle fasce sociali a minor reddito e “compenserebbe” ampiamente la soppressione dell'IMU sulla prima (e quasi sempre unica) casa dei lavoratori dipendenti. Che il gran guitto Berlusca pensi solo ai ricchi turlupinando i poveri, per noi ha l'evidenza di un'operazione aritmetica elementare...

Per chiudere la parentesi e tornare al “tesoro” di cui si parlava, l'UE ha posto condizioni ben precise per un suo eventuale utilizzo: tra esse non poteva mancare l'ennesimo richiamo all'allineamento dei salari alla produttività e all'attuazione di norme che favoriscano l'occupazione giovanile nonché femminile. Con facile traduzione: aumento dei ritmi, dei carichi e dell'orario di lavoro a fronte di minimi o nulli aumenti salariali, ancor più precarietà, come se non ce ne fosse abbastanza. Quando, una ventina d'anni fa circa, dicevamo che la crisi spingeva a un'unificazione tendenziale verso il basso della forza lavoro mondiale, non ci eravamo, purtroppo, sbagliati. Se in alcuni paesi della “manifattura mondiale” (per esempio, la Cina) la classe operaia, con lotte durissime, ha migliorato – settorialmente e, soprattutto, relativamente al bassissimo punto di partenza – i livelli salariali, in “Occidente” il peggioramento delle condizioni complessive del lavoro dipendente ha assunto l'andamento di una valanga. L'Italia, naturalmente, si distingue in questo smottamento epocale. I dati sui bassi salari, sulla disoccupazione, sulla precarietà senza fine, sul fortissimo avanzamento delle ineguaglianze sociali (per usare il linguaggio del riformismo) sono arcinoti eppure, ancora, la via maestra per la “crescita” è indicata con una sola voce da padroni e sindacati: eccoci, quindi all'unica riforma a costo zero che svolazza tra gli alati pensieri di governo e “parti sociali”. La riforma della Riforma Fornero, nel senso di facilitare l'assunzione a tempo determinato, con l'accorciamento dei tempi di attesa tra la fine di un contratto precario e un altro – allungati, come foglia di fico, dal precedente ministro del lavoro – e cose simili, trova sostanzialmente d'accordo i cosiddetti datori di lavoro e i non meno cosiddetti rappresentanti dei lavoratori. Che dire? Non ci aspettavamo niente di meno. Le loro ricette sono sempre le stesse: trasfusioni crescenti di sangue proletario alla borghesia, sempre più spompata nella “salita competitività”. Ma per quanto sangue possiamo darle, dubitiamo che possa farcela ad arrivare in cima vittoriosa con una bicicletta che continua, irrimediabilmente, a perdere pezzi, anche se, mancando il rottamaio proletario, prima o poi, in qualche modo, ci arriverà (a spese del rottamaio).

CB

(1) Infatti, è stato firmato l'accordo sulla cosiddetta rappresentanza, tra la Confindustria e i Confederali; su questo torneremo più estesamente.

(2) Oltre agli sgravi fiscali, si dovrebbero pagare, infatti, metà dei contributi pensionistici del lavoratore anziano in part-time.

Domenica, June 9, 2013