Il capitale nelle campagne: ancora due parole sulle proteste dei “trattori”, da Prometeo, n. 31/2024

Prologo

E' noto che il fascistume nostrano ha sempre avuto un trasporto particolare per lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien, tanto da organizzare alla fine degli anni 1970 i “campi hobbit”, intitolati appunto a uno dei protagonisti principali – se non il principale – della saga “Il signore degli anelli”. Ancora recentemente il ministro della cultura (?) ha inaugurato una mostra sul romanziere della “perfida Albione”, con l'esplicito obiettivo di contrastare l'egemonia della sinistra in campo culturale (dixit). Che Tolkien sia stato un conservatore, non c'è alcun dubbio: guardava con sgomento alla scomparsa del vecchio mondo pre-industriale, spazzato via dall'avanzata inarrestabile del capitalismo. Questo stato d'animo, questa visione percorrono i suoi romanzi, in cui i dati reali si trasformano in grandi metafore, storie di fantasia dove la “modernità” prende corpo in macchinari malefici che radono al suolo una natura sostanzialmente integra o comunque rispettata, quando, diventata campagna, nutre comunità di esseri viventi basate sui valori dell'onestà, della lealtà e della giustizia. Chi spiana, letteralmente, questo scenario sono entità malvagie che, allo scopo, si servono dei super-orchi Uruk-hai, la cui crudeltà è pari all'ottusità (e viceversa), che costituiscono la manovalanza brutale e feroce della distruzione e provano particolare piacere tanto nel massacrare quanto nell'abbattere immense foreste millenarie.

Se il conservatore “ambientalista” (ma non fascista!) Tolkien ha un posto d'onore nell'immaginario del sotto-mondo fascistoide – di cui il sovranismo è una variante se possibile ancor più becera – verrebbe da dire che siamo in buone mani, anzi, l'ambiente è in buone mani: chi meglio del post-fascismo (?!) può tutelare la natura, la biodiversità così gravemente sotto attacco nel nostro mondo reale? Tutto bene, dunque? Non proprio...

Le inquietudini della piccola borghesia “contadina”

A febbraio ci eravamo occupati della cosiddetta rivolta del “trattori”1, se riprendiamo il discorso è per fornire qualche altro dato che possa ulteriormente chiarire i termini della questione, in un momento in cui la protesta dei “contadini” sembra essersi fermata. Si è arrestata non solo per la stanchezza che prima o poi prende un movimento di lotta (indipendentemente dal contenuto della lotta), quanto perché una parte delle richieste del movimento sono state accolte o almeno questo è stato quello che è passato agli occhi dei contestatori o è stato fatto passare da chi li guidava politicamente.

Come si ricorderà, il “ciclo di lotta dei trattori” aveva tratto forza e incoraggiamento dalla crescita repentina del BBB, partito “contadino” olandese, che nelle elezioni provinciali del 2023 aveva realizzato un risultato largamente superiore alle aspettative. Il BBB, schierato naturalmente a destra, si opponeva alle limitazioni prospettate dall'allora governo Rutte - sulla scia del Green deal – ai grandi allevamenti, tra i maggiori responsabili dell'inquinamento di terra, acqua e aria. I forti malumori presenti nel mondo “contadino” europeo si erano rafforzati con la guerra in Ucraina, dato che la UE, tra le misure a sostegno del paese formalmente attaccato dalla Russia2, c'era e c'è un allentamento del protezionismo nei confronti dei prodotti agricoli ucraini, i cui prezzi più bassi rischiano di mandare fuori mercato gli agricoltori dell'est europeo.

Per buttare altra benzina sul fuoco, parecchi governi avevano deciso di abolire il prezzo agevolato del gasolio per uso agricolo e, per quanto riguarda l'Italia, la riduzione dell'IRPEF in vigore da tempo. L'intreccio di questi elementi con la ripresa dell'inflazione legata al rimbalzo post-covid e alla guerra in Ucraina, ha scatenato i “trattori”, che tra gennaio e febbraio hanno riempito le cronache e messo in agitazione il mondo politicante borghese, tanto più allarmato in quanto a giugno ci saranno le elezioni per il parlamento europeo e ogni schieramento non vuole farsi trovare con le terga scoperte di fronte a un appuntamento politico così importante. Contro il grano ucraino nell'est europeo, contro la revoca dello sconto sul gasolio e delle agevolazioni fiscali, oltre che contro una remunerazione dei prodotti agricoli ritenuta largamente insufficiente.

A dispetto dello scarso peso numerico dei contestatori, è evidente che la loro protesta fa da catalizzatore di un malcontento diffuso, di una rabbia e di una frustrazione serpeggianti in diversi strati sociali, compresi quelli i cui interessi di classe sono, più che distanti, opposti a quelli dei “trattori”, vale a dire il lavoro salariato. Come dicevamo nell'articolo di Battaglia, la natura di classe delle proteste è ascrivibile totalmente al campo borghese, sia per la collocazione sociale di chi le anima sia perché gli obiettivi non mettono mai in discussione, neanche lontanamente, il modo di produzione capitalistico – in questo caso in agricoltura – ma anzi puntano a ottenere una posizione meno scomoda, diciamo così, dentro il sistema capitalistico stesso. In breve, è un altro capitolo dell'eterna lotta della piccola borghesia, sempre la stessa e sempre diversa, per non rimanere stritolata dalle leggi di movimento del capitale, identificato però solo con quello più grande, che per certi aspetti odia, ma al quale non sa immaginare un'alternativa.

I governi europei sanno perfettamente che i “contadini” appartengono ai “nostri” e per questo si sono ben guardati dal reprimere a fondo le manifestazioni, anche quando superavano i confini della legalità; si sono limitati per lo più a contenerle, anzi, a un certo punto è partita la gara a chi si mostrava più comprensivo e accomodante. Le botte, quelle vere, le denunce con annessi e connessi, sono riservate ai salariati in lotta, agli ecologisti “estremisti”, a chi si batte contro le guerre, sia pure in maniera confusa e incoerente, anche perché privo, a volte per ragioni anagrafiche, di strumenti politici adeguati. Fatto sta che l'Unione Europea ha accolto parte delle richieste “contadine” (che non intaccano minimamente il grande capitale), a cominciare dalla sospensione fino a data da destinarsi di molte “voci” importanti del Green deal.

Quel piano poneva traguardi ambiziosi, in quanto avrebbe dovuto rivoltare in senso “green” l'agricoltura europea entro il 2040, ma è sempre stato chiaro, a chi non crede alle favole della buonanotte, che si trattava per lo più di un'operazione di facciata, dati gli enormi interessi in gioco ossia quello del cosiddetto agrobusiness. Uno degli obiettivi principali (almeno a parole) era proprio quello di dimezzare entro il 2030 l'uso dei pesticidi, la cui nocività per l'ambiente è universalmente riconosciuta, tranne che dal capitale interessato e dal suo servidorame politico, il quale, ipocritamente, prima si veste di “verde” per conquistare poltrone, poi, al dunque, si mostra per quello che è, prorogando la “licenza di uccidere” a chi realizza profitti giganteschi producendo i veleni con cui vengono irrorate le campagne del mondo. A questo si aggiunge lo stop al “restore nature”, cioè gli interventi volti a ripristinare – in piccola parte – gli ambienti naturali, per favorire lo sviluppo della biodiversità (boschi, palude, coste) e, tra questa, la presenza degli insetti impollinatori, drasticamente calata negli ultimi anni per l'uso intensivo e indiscriminato dei pesticidi. L'importanza degli impollinatori non avrebbe bisogno di essere sottolineata, tanto è evidente, ma si sa che l'unico buon senso che il capitale conosce è quello del profitto, a cui tutto deve essere subordinato.

Con il “ripristino della natura” è andata sotto l'uscio anche l'indicazione di lasciare a riposo il 4% del terreno delle aziende con meno di dieci ettari - la pratica del maggese – o, in alternativa, destinare il 7% del suolo alla coltivazione di leguminose o altre piante che aiutano a fissare l'azoto al terreno, mantenendone l'umidità e le proprietà organico-minerali. Erano pratiche agricole introdotte in Europa tra il X e l'XI secolo, che diedero un contributo notevole alla cosiddetta “rinascita europea” a cavallo di quei secoli. Ma anche su questo, appunto, è stata tirata una riga. D'altronde, il Green deal era ed è il nemico principale degli “agricoltori”, in cima alla lista della loro rabbia, il che la dice lunga sui limiti politici, diciamo così, di quel settore della società, non di rado massa di manovra di questa o quella consorteria borghese, senza escludere le più torbide3.

Infatti, il punto 1 della “Piattaforma del Coordinamento Nazionale Riscatto Agricolo”4 - uno dei comitati dei “trattori” - recita: «RIPROGRAMMAZIONE GREEN DEAL: Revisione completa della Politica Agricola Europea, in quanto di estremismo ambientalista e a discapito della produzione agricola e dei consumatori...». Il linguaggio è lo stesso del fascistume di ogni latitudine, lo stesso di vari esponenti del “nostro” governo: “follia ambientalista”, “ideologismo ecologista” ecc. Che mangiare glifosato5 sia interesse del consumatore è un'affermazione alquanto ardita, ma rientra nell'essenza dell'ideologismo borghese, che distorce e rovescia la realtà: per esempio, le guerre non sono forse fatte per difendere la libertà dei popoli, la democrazia, il diritto? Che “l'estremismo ecologista” vada a discapito della produzione agricola ha invece, da un certo punto di vista, qualcosa di vero: senza chimica, questa agricoltura non va avanti, il che però non ha niente a che vedere con le “doléances”, le recriminazioni degli “agricoltori”; essi si fermano alle apparenze e da queste sono portati a mancare clamorosamente il bersaglio. No, le difficoltà, spesso molto onerose, con cui devono fare i conti le piccole, ma a volte anche le medie aziende agricole, non sono dovute alle blande misure “versi” del Green deal, ma alla natura stessa del capitalismo (qui nelle campagne), agli organismi che da esso prendono forma.

Gli ingranaggi del capitale

«...nel nord della Francia, come nelle nostre terre coltivate a barbabietole, la terra viene affittata al contadino con l'obbligo di lavorare le barbabietole, a condizioni oltremodo pesanti. Essi devono vendere le barbabietole a una determinata fabbrica e al prezzo da questa stabilito; devono comprare una determinata semente, impiegare una determinata quantità di concime prescritto e vengono per di più defraudati vergognosamente alla consegna del prodotto. Anche noi, in Germania, conosciamo bene tutte queste cose»6.

In questo scritto di centotrenta anni fa, Engels coglieva uno dei meccanismi fondamentali con cui il capitale stritola il piccolo contadino, che da allora si sono affinati e rafforzati. Si tratta di meccanismi che, come nella manifattura, tendono all'eliminazione delle unità produttive più piccole – con relativa espulsione di manodopera – a vantaggio di quelle più grandi (o della sottomissione delle prime alle seconde), meglio attrezzate ad affrontare la “lotta per la vita” che domina il mercato. E' il tipico processo di concentrazione e centralizzazione iscritto nel DNA del capitale, a cui nessuna promessa elettorale, anche in buona fede7, può farci niente. Chi, tra i piccoli, riesce con fatica a non essere travolto dalle leggi di movimento del capitalismo, paga di solito un prezzo alto, fatto di autosfruttamento e, nei paesi della “periferia”, di compressione del proprio tenore di vita a livelli ancora più bassi di quelli del proletariato industriale di quelle regioni, per cercare di tenere testa alla produzione ottenuta con un massiccio apparato tecnologico sempre più sofisticato. E' una vita molto grama, che, tendenzialmente, riesce solo a posticipare l'espulsione dalla terra. In agricoltura, come e forse più che nell'industria, la composizione organica del capitale è molto alta, il che comporta un abbassamento notevole della forza lavoro rispetto al macchinario, anche se la prima, nella forma salariata, può aumentare rispetto alla manodopera fornita dal conduttore dell'azienda agricola e dai suoi famigliari. Questo fenomeno oggi ha un'evidenza che non necessita di molti commenti, a differenza forse della fine del XIX secolo, quando Lenin doveva dimostrare (con poca fatica, a dire il vero: i fatti sono fatti...) a dotti professori che anche nelle campagne il capitale non cambia la propria natura e dunque il rapporto tra v (forza lavoro) e c (macchinario ecc.) non fa altro che calare o, se si vuole scambiare di posto i termini, crescere8. L'aumento della produttività ottenuta per questa via solo momentaneamente rilancia la redditività – o profittabilità – del capitale, perché diminuendo la parte che, sola, lo valorizza (la forza lavoro), lo costringe ad aumentare la massa di merci prodotte, per cercare di compensare con la quantità la diminuzione della quota di valore e di plusvalore contenuta in ogni singola merce. Così facendo, però, si arriva all'inceppamento del meccanismo, che alla superficie si presenta come sovrapproduzione e intasamento dei mercati. Da qui, l'abbassamento del salario, persino abbondantemente al di sotto del valore della forza lavoro come risposta più immediata alla sempre minore capacità di valorizzazione del capitale: vero nella manifattura e vero in agricoltura.

Non può stupire, quindi, che dal dopoguerra in poi (per non andare più indietro) il numero dei piccoli contadini abbia avuto una caduta verticale un po' dappertutto, a cominciare dai paesi del “centro”. In Francia, «Dal 1950 il numero di fattorie si è ridotto di sei volte e quello dei lavoratori agricoli di dieci. Il contadino è diventato un subappaltatore dell'industria, un esecutore di azioni tecniche specializzate»9. Lo stesso, nella sostanza, vale per l'Italia, dove, secondo il censimento Istat 2020 dell'agricoltura, le aziende erano 1,13 milioni, ma rispetto al 1982 c'è un calo del 63,8% e solamente a dieci anni prima, 2010, del 30%. Nel frattempo, la dimensione media delle “fattorie” è cresciuta: se nel 1982 era di 5,1 ettari, nel 2010 era salita a 8 e nel 2020 a 11,1; benché cresciuta, rimane però inferiore a quella della Spagna (26,1 ettari) della Germania (63,1) e della Francia (68.7). Ma le medie dicono solo una parte della verità, perché se si va a scomporre i dati, si vede che le aziende sopra i cento ettari – che dall'1% del 2010 sono diventate l'1,6% - detengono il 29,7% della SAU (Superficie agricola utilizzata), mentre quelle comprese tra i 50 e i 99,9 ettari – che dall'1,8% passano al 2.9% - possiedono il 17,8% della SAU; in pratica, il 4,5% della aziende si accaparrano il 47,5% del terreno agricolo. Non solo: le piccole imprese e quelle a conduzione familiare, anche se costituiscono ancora la stragrande maggioranza – spesso con un ettaro a disposizione – cioè il 93,5%, tra il 2010 e il 2020 sono calate del 32%, mentre altre tipologie, in primo luogo le società di capitali, sono cresciute del 42%. Inevitabilmente, anche l'occupazione segue la stessa traiettoria discendente delle aziende, benché in questo caso sia più difficile quantificare in modo preciso il numero degli occupati, dato il tasso molto elevato di lavoro “irregolare”, cioè il lavoro nero e la presenza diffusa del caporalato, al Sud, certo, senza però dimenticare il Centro-Nord, dove ha indici inferiori, ma per niente trascurabili.

Quali sono questi numeri? Secondo un “report” dell'Istat10, la manodopera agricola totale (in migliaia di ULA11) era di 959,7; per un rapporto dell'Inps del 2023 riferito al 2022, in agricoltura lavoravano 1.279.000 persone, di cui 867 mila dipendenti e 412 mila autonome, con un reddito rispettivamente di 9.303 e 12.922 euro12. Invece, uno studio di Nomisma del giugno 2022, relativo al 2020, dice che «In Italia sono 1.088.34 i dipendenti in agricoltura (tra full time, part time e stagionali) [e il numero] di lavoratori dipendenti stranieri regolari (iscritti all'INPS) in agricoltura è pari a 329.894, con un'incidenza sul totale in Italia pari al 31%»13. Senza addentrarci nella scomposizione di queste cifre, soprattutto a quante persone equivalgono le ULA14, ciò che emerge è che anche in agricoltura, dove persiste un ampio settore di lavoro chiamiamolo autonomo – tra cui gli agriturismi – il lavoro salariato ha un'importanza centrale, sottoposto spesso a uno sfruttamento brutale, di tipo schiavistico, in cui il proletariato migrante, va da sé, ha suo malgrado un ruolo di primo piano. Difficile quantificarne il numero, anche perché i “caporali”, aguzzini diretti di questa forza lavoro per conto del padrone e co-beneficiari dello sfruttamento, possono anche mettere in regola i lavoratori, ma poi non applicano il contratto, per la ricattabilità cui devono sottostare i lavoratori migranti, sui quali viene esercitata ogni sorta di sopraffazione e angheria. Sono conosciute le storie di braccianti immigrati costretti a lavorare ben oltre le otto ore per 25-30 euro al giorno e anche meno, in qualunque condizione atmosferica, costretti a maneggiare pesticidi senza protezione15 e a vivere in tuguri che non hanno niente di umano. L'Osservatorio Placido Rizzotto (CGIL), nel suo “Rapporto 06 su agromafie e caporalato” (2022), stima che circa un quarto dell'occupazione in agricoltura era irregolare e che in alcune regioni del Sud (più il Lazio) il “lavoro subordinato” raggiungeva «tassi di irregolarità che superano il 40% [mentre] in molte regioni del Centro-Nord i tassi di irregolarità sono comunque compresi tra il 20 e il 30%». Si spiega così perché in molte regioni la meccanizzazione non ha sostituito, per certe lavorazioni, il lavoro salariato, visto che costa molto meno di un macchinario di ultima generazione.

A volte, il supersfruttamento di ampi settori della manodopera agricola è portato come scusante (a mezza bocca, ovvio) delle difficoltà in cui versano i “contadini”, suggerendo, sempre tra le righe, che se ricevessero più sostegni, se fossero aiutati con una politica protezionista più decisa, le cose andrebbero meglio anche per i braccianti. La balla, oltre che infame, è indecente, perché di sussidi ne ricevono, tramite la PAC ossia la Politica agricola comune della UE. La PAC, rinnovata ogni cinque anni, assorbe il 31% del bilancio comunitario e se è vero che negli anni 1980 il suo peso era più del doppio, rimane il fatto che la cifra è rilevante e per il quinquennio 2023-2027 ammonta a 386,6 miliardi di euro. Però, l'80% dei sussidi va al 20% delle aziende e, per essere ancora più precisi, alcuni stimano che nel 2019 quell'80% «ricevette meno di 5 mila euro, mentre una parte – circa il 2 per cento del totale – incassò più di 50 mila euro»16. Questo perché i sussidi sono assegnati in base agli ettari posseduti/lavorati. Ancora una volta, si dimostra che i sussidi non vengono erogati per sostenere la piccola azienda, questo è eventualmente un effetto collaterale minore, ma il grande capitale. E' la stessa logica per cui, rimanendo dalle “nostre” parti, il taglio del cosiddetto nucleo fiscale è in primo luogo e soprattutto un sostegno alle imprese, che in tal modo evitano o riducono l'esborso per gli aumenti salariali.. Siccome poi i sostegni sono pagati dalla fiscalità generale, a cui il lavoro dipendente non può sfuggire, ecco che il tutto si risolve in un travaso dalle tasche proletarie a quelle borghesi, il cui stato tampona i buchi del bilancio statale dovuti ai sussidi con il taglio/appropriazione del salario indiretto e differito (sanità, scuola ecc.). Stesso discorso per la guerra in Ucraina (e le tensioni imperialiste), che non solo ha contribuito potentemente a pompare l'inflazione, ma spinge i governi a rifarsi sullo “stato sociale” delle spese per le armi inviate a Kiev e per il programma di riarmo europeo.

Rimane il protezionismo nei confronti dei grandi paesi extra-UE esportatori di materie prime dell'agricoltura-allevamento, dove, come dicono i “trattori”, non esistono norme ambientali o sono ancora più blande che in Europa (il che è un dato di fatto), ma a ennesima dimostrazione che il cosiddetto sovranismo alimentare è solo bieca e falsa propaganda, senza quei prodotti molti settori agricoli dovrebbero sostenere oneri pesantissimi o, più semplicemente, rimarrebbero senza materie prime indispensabili: vedi, per esempio, l'importazione di grandi quantità di soia del continente americano, coltivata anche e non da ultimo spianando la foresta amazzonica. Senza contare che la filiera mondiale della soia è controllata da tre imprese giganti: ChemChinaSyngenta, Corteva Agriscience e Bayer-Monsanto17; ma questo vale non solo per la soia, visto che l'agricoltura mondiale è letteralmente nelle mani di un pugno di imprese, che ne controllano aspetti fondamentali, dai pesticidi alle sementi ai concimi ecc...

Tornando alla devastazione ambientale come effetto non collaterale del capitalismo in agricoltura, a dispetto delle lisciate di pelo della UE nei confronti delle proteste “contadine”, «molti Paesi [tra cui l'Italia, ndr] si sono detti favorevoli a rivedere un recente regolamento tutto volto a garantire che sette prodotti – soia, carne bovina, olio di palma, legno, cacao caffè e gomma – non siano venduti nell'Unione se provenienti da aree deforestate»18. Soprattutto in una fase storica di crisi del processo di accumulazione, la borghesia non può scartare i mezzi con cui contrastare la caduta del saggio di profitto, in questo caso quelli che abbassano i prezzi delle materie prime costitutive del capitale costante, ma anche di quello variabile, perché l'aumento verticale dei costi delle derrate alimentari potrebbe creare tensioni sul salario, cioè una recrudescenza della lotta di classe, inizialmente sul piano “sindacale” da cui potrebbe debordare su un piano politico generale. La lotta contro il protezionismo sul grano dei liberali inglesi, nella prima metà dell'Ottocento, non era condotta per amore della classe operaia, ma per avere un prezzo più basso del pane, al fine di prevenire la lotta per gli aumenti del salario.

Il capitale, oltre che del lavoro salariato, è nemico di ogni forma di vita

«Il disboschimento, compiuto senza criterio, ha annientato le riserve di umidità dei terreni, l'acqua delle piogge e delle nevi, scendendo rapidamente ai ruscelli e ai fiumi, senza più essere assorbita, provoca violente alluvioni, mentre d'estate i corsi d'acqua diventano secchi e la terra si indurisce. In molte località più fertili della Russia il livello di umidità della terra si è abbassato di un intero metro cosicché le radici dei cereali non riescono più a raggiungerla ed inaridiscono...»19.

La richiesta dei “trattori” di buttare nella spazzatura le norme sui pesticidi e quelle ambientali in genere sono particolarmente cieche, perché non fanno altro che alimentare un circolo vizioso di cui essi sono le prime vittime. L'agricoltura capitalistica esaurisce e degrada i terreni, uccide la biodiversità, cioè le basi stesse dell'agricoltura, a cui per forza di cose si risponde con ancora più “chimica”, con ulteriore predazione dell'ambiente per poter sopravvivere come piccola azienda, ma, soprattutto, per continuare a realizzare un profitto “ragionevole”, adeguato cioè ai capitali sempre più grandi investiti o da investire. Da quando il capitale si è impadronito della campagna, il quadro tracciato da Engels alla fine del XIX secolo non ha fatto altro che espandersi e peggiorare, esalando i suoi veleni sulle campagne e sugli ambienti naturali del mondo intero. La stessa Istat, nel documento citato prima, indica gli eventi “estremi” innescati dal cambiamento climatico come uno dei principali, se non il principale responsabile delle grosse perdite economiche subita da molti comparti agricoli negli ultimi anni.

La lotta dei “contadini”, guardata, come si diceva prima, con simpatia da diversi ambienti della società, in realtà, per il suo contenuto è un formidabile appoggio – lo ricordiamo - a chi decide le sorti dell'agricoltura e dell'ambiente. Sono l'agrochimica, l'agroindustria, la grande distribuzione organizzata (GDO) che “defrauda vergognosamente” gli agricoltori, imponendo loro prezzi che non coprono - o coprono a stento – nemmeno i costi di produzione. E' la speculazione finanziaria internazionale, che alla Borsa di Parigi o di Chicago con un “click” fissa i prezzi della carne o del grano, alza e abbassa il valore dei futures sulle merci agricole20, prendendo per il collo o decretando la rovina del piccolo contadino. Ecco, credendo di difendere la propria azienda, il “trattore” dà una mano al boia a stringergli il cappio attorno al collo.

Ma è nella natura sociale di questa frazione della borghesia (piccola e in parte anche media) sbagliare bersaglio e rivolgersi a chi sembra volerla difendere meglio dagli spietati ingranaggi del capitale. Ancora Engels, a proposito delle simpatie politiche di questo strato sociale borghese, sottolineava le difficoltà da parte del movimento operaio a “farsi amiche” le schiere di piccoli proprietari risucchiati nel vortice del mercato mondiale: «Non possiamo utilizzare come compagno di partito il contadino che esige da noi che gli si conservi per sempre il suo pezzetto di proprietà, tanto poco quanto possiamo farlo con il piccolo mastro artigiano che vorrebbe eternarsi come tale. Questa gente è sottoposta all'influenza degli “antisemiti”. Vadano da costoro a farsi promettere la salvezza delle loro piccole proprietà»21. Proseguiva il discorso, sottolineando che solamente il movimento operaio organizzato poteva “risolvere” il loro problema, ma solo nella prospettiva del superamento rivoluzionario del capitalismo. Era vero ai tempi di Engels, quando il nascente movimento antisemita veniva guardato con interesse da tanti piccoli contadini tedeschi a rischio concreto di rovina e proletarizzazione. E' vero anche oggi, quando i “trattori” chiedono aiuto ai nipoti politici degli “antisemiti” di fine Ottocento – il sovranismo fascistoide – che governa in molti paesi, ma ieri come oggi avrà in risposta solo tante chiacchiere e qualche briciola, perché “antisemiti” o democratici sono, magari con uno stile diverso, al servizio del capitale. Il punto è che oggi il proletariato rivoluzionario non compare, per il momento, sul radar della lotta di classe, la nostra, ma nella Storia ci sono anche i cambiamenti improvvisi...

CB

1leftcom.org

2Sulle dinamiche che hanno portato al conflitto, rimandiamo ai numerosi documenti pubblicati dalla TCI presenti sul sito.

3Per esempio, sul ruolo avuto da milioni di piccoli contadini nell'ascesa politica di un avventuriero politico come Luigi Bonaparte, prototipo di una lunga schiera di avventurieri venuti dopo, vedi “Le lotte di classe in Francia” e “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, di Karl Marx .

4Facilmente reperibile in rete.

5Uno dei diserbanti più usati e, molto probabilmente, cancerogeno.

6Friedrich Engels, La questione contadina in Francia e in Germania, in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1973, pag. 1225.

7Ma non è quasi mai il caso, se non per le anime ingenue del riformismo.

8Lenin, Il capitalismo nell'agricoltura. A proposito di un libro di Kautsky e di un articolo del signor Bulgakov, in Scritti economici, Editori Riuniti, 1977, pag. 284.

9Gilles Luneau, cit. in Philippe Baqué, Come l'estrema destra lavora la campagna, Le monde diplomatique-Il manifesto, marzo 2024.

10_Stima preliminare dei conti economici dell'agricoltura. Anno 2023_, 17 gennaio 2024; sul sito dell'Istat.

11Dal report: le ULA “rappresentano una misura dell'occupazione con la quale le posizioni lavorative a tempo parziale (contratti di lavoro part-time e seconde attività) sono riportate in unità di lavoro a tempo pieno […] calcolate al netto della cassa integrazione guadagni

12_INPS Statistiche in breve, dicembre 2023_. Nel 2019 erano complessivamente, sempre secondo l'Inps, 1.361.000.

13nomisma.it

14Secondo il sito Openpolis, che riprende il censimento Istat, «Stando ai rilevamenti Istat, la manodopera agricola è composta da più di 2,75 milioni di persone_: anche in questo caso si può osservare un calo, pari al 29% rispetto al 2010 (quando erano quasi 3,9 milioni). In Italia lavora nel settore agricolo il 3,4% degli occupati, -0,4 punti percentuali rispetto al 2005. Una valore inferiore alla media europea (4,2%), simile a quello registrato dalla Spagna (3,5%) e superiore rispetto a Francia e Germania (rispettivamente 2,5% e 1,2%)_» in openpolis.it Come si vede, le cifre possono variare, in riferimento ai criteri con cui i dati vengono rilevati, ma tutti, nella sostanza, indicano una diminuzione dalla forza lavoro in agricoltura, e non può essere altrimenti.

15A questo proposito, un rapporto dell'ILO uscito il 22 aprile '24, stima in oltre 300.000 morti all'anno per avvelenamento da pesticidi.

16Vedi il sito de Il Post del 3 febbraio 2024, Quanto valgono i sussidi europei all'agricoltura.

17Silvia Galassi, Fermare i trattori col carrello della spesa, in Extraterrestre, inserto a il manifesto del 15 febbraio 2024. Stendiamo però un velo pietoso sulla visione ultrariformista dell'autrice, che individua in una spesa più consapevole una delle principali soluzioni ai problemi dell'agricoltura capitalista, spesa di cui dovrebbero farsi carico soprattutto le classi medio-alte.

18Beda Romano, Politica agricola comune, così la UE avvia la semplificazione, Il Sole 24 ore+, 27 marzo 2024.

19Friedrich Engels, L'Europa può disarmare?, in Marx-Engels, cit., pag. 1202.

20Il film “Una poltrona per due” di John Landis, 1983, aiuta a capire, sebbene in chiave comica, il ruolo della speculazione internazionale sui prodotti agricoli.

21F. Engels, La questione contadina..., cit., pag. 1229.

Friday, May 17, 2024