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Home ›La vertenza Russia-Ucraina e lo spettro del default dell’Europa centro-orientale
Dal vertice di Mosca sembra sia scaturito, alla fine, un accordo sulla ripresa delle forniture del gas russo attraverso l’Ucraina. La formula dubitativa si attaglia più d’ogni altra al contesto attuale in quanto l’annosa vertenza russo-ucraina sul gas nasconde, in effetti, ragioni assai più profonde riconducibili in gran parte al mutamento del panorama internazionale soprattutto dopo che la crisi finanziaria ha contribuito a ridisegnare un quadro che ridimensiona notevolmente la preminenza americana. Tale nuova dimensione, riconosciuta, tra l’altro, in termini molto espliciti da un rapporto curato dal presidente del National Intelligence Council, Thomas Fingar, dal titolo vagamente profetico, “Global Trends 2025”, in cui viene dato risalto al processo di erosione che riguarda l’egemonia americana, è stata tempestivamente sfruttata dalla Russia e nel contesto geopolitico attuale ha significato “il suo ritorno a fattore di potenza in Europa” (Limes n.3/2008). Valga, a tal proposito, la considerazione che le importazioni europee di idrocarburi, dalla Russia, rappresentano il 30% del petrolio ed il 45% del gas totali; questo semplice dato può far facilmente comprendere le forti preoccupazioni innescate dalla sospensione delle forniture a causa del contenzioso tra Mosca e Kiev e la dissonanza tra gli stati europei aderenti alla Nato, molti dei quali sono contrari all’ingresso delle due ex-repubbliche sovietiche nell’Alleanza atlantica che, per suo conto, rischia di porsi come oggettivo ostacolo al processo di riavvicinamento tra Russia ed Europa con quest’ultima in perenne ricerca di sicurezze energetiche.
Questo nuovo atteggiamento trova una sua sintesi nel “Progetto Russia” elaborato allo scopo di ridefinire il proprio ruolo di potenza imperialista e mira a controllare, attraverso le forniture energetiche, molti di quei paesi che fino a qualche decennio addietro venivano controllati militarmente ed economicamente.
Nel progetto rientrano, ovviamente, paesi come la Georgia e l’Ucraina nei confronti dei quali l’attenzione e la pressione è massima allo scopo di scoraggiare pericolose fughe in avanti, quale può essere un’adesione alla Nato. La cosa è vista con molta preoccupazione in quanto a ridosso del proprio confine sudoccidentale prenderebbe forma una fattiva minaccia in termini di sicurezza e di pregiudizio dei propri interessi economico-politici segnatamente nella regione caucasica e del mar Nero. Da ciò discende l’esigenza di mettere a profitto l’instabilità dei paesi delle cosiddette “rivoluzioni arancioni” anche, per paradossale che possa sembrare, attraverso delle concessioni.
Non è un caso che l’accordo sancito a Mosca preveda che l’ucraina Naftogaz debba pagare alla russa Gazprom 360 dollari per mille metri cubi di metano, ossia il 20% in meno rispetto al prezzo medio europeo che è di 450 dollari come non è neppure un caso, di converso, che la Russia, unitamente ad altri paesi, spinga per la realizzazione di due gasdotti alternativi a quello ucraino: il Nord-Stream che collega la Russia alla Germania attraverso il mar Baltico ed il South-Stream che porterà il gas nel Mediterraneo attraverso la Bulgaria e la Grecia. Non si profila di certo agevole il futuro dell’Ucraina, oggetto di notevoli pressioni a livello internazionale e lacerata al suo interno da conflitti che riflettono specularmente i conflitti interimperialistici in atto. A Kiev ha preso, infatti, l’avvio una nuova resa dei conti tra il presidente Viktor Yushenko e la premier Yulija Timoshenko con quest’ultima che, forte dell’alleanza tra il suo partito “Patria”, il Partito comunista e il Partito delle Regioni, intende ricorrere all’impeachment del presidente in quanto può contare su una maggioranza di più di due terzi dei deputati della Rada (parlamento ucraino). È una querelle che si trascina da tempo e che vede contrapposti due personaggi politici che appartenevano alla stessa fazione filo-occidentale tant’è che Yushenko continua ancora adesso a rappresentare una sorta di campione antirusso, dietro il quale non è difficile intravedere la presenza tutt’altro che discreta della UE, degli USA e dei paesi della cosiddetta “Nuova Europa”, ossia Cechia, Polonia, Ungheria e altri ancora. Da parte sua la Timoshenko sta dimostrando un maggior pragmatismo laddove ha coscienza della forte componente russa in seno alla popolazione ucraina, ha interesse ad una normalizzazione dei rapporti col suo potente vicino che è il principale committente dell’industria bellica ucraina e sa anche perfettamente bene come il Membership action plan alla Nato è cosa difficilissima da tradurre in termini operativi.
A tutto questo si assomma una drammatica crisi economica con tantissime industrie ferme, cantieri chiusi, il credito congelato, con la moneta che ha perso quasi il 50% del suo valore e con lo Stato che ha praticamente le risorse finanziarie azzerate.
È da comprendere, quindi, come nel recente summit di Davos si sia dato rilievo allo spettro del “default” dell’Europa centro-orientale che va ad aggiungersi all’esposizione delle maggiori banche occidentali che chiedono - in maniera del tutto disinteressata (!) - che Bruxelles e la BCE si attivino ad aiutare non solo i nuovi membri della UE ma anche la Serbia e l’Ucraina. Avere scomodato termini come “spettro” non è eccessivo né fuori luogo se si tien conto, ad esempio, che i crediti concessi dalle banche austriache ai paesi dell’Est europeo sono pari al 68% del PIL e che un’insolvenza di questi paesi avrebbe conseguenze rimarchevoli nel bilancio pubblico di un paese situato nel cuore dell’Europa.
Preoccupa ancor più il dato che le Borse di Russia, Repubblica ceca, Polonia e Ungheria abbiano già perso il 15% dall’inizio dell’anno e le monete il 12% , circostanza che ha indotto il Gotha del capitalismo mondiale a proporre un piano di interventi ad hoc per “ridare forma al mondo”. La Russia, da parte sua, non attraversa una congiuntura favorevole: deve infatti rinnovare debiti per 500 miliardi di dollari e tutto questo a fronte di una perdita secca, per quel che attiene la Gazprom, di due terzi del proprio valore di capitalizzazione e dell’esigenza di reperire ingenti capitali da investire in nuovi giacimenti e nella manutenzione delle infrastrutture. A ciò si aggiunga una recessione aggravata dal crollo del prezzo del petrolio su cui si era basato il boom economico degli ultimi anni, recessione che si manifesta sia in termini di sospensione della produzione da parte di molte imprese sia in termini di licenziamenti che alla fine del 2008, almeno stando ai dati ufficiali, erano quasi 6 milioni. Non solo. Col nuovo anno in una sola settimana, dal 21 al 28 gennaio, ci sono stati centomila disoccupati in più. Disagio sociale e malcontento popolare rappresentano cifre significative dell’attuale realtà russa scossa da tutta una serie di manifestazioni spontanee di protesta che riguardano i grandi centri ma che hanno attecchito anche nei piccoli. La situazione nel suo insieme desta forti preoccupazione in quanto la crisi, considerati i fragilissimi argini coi quali si è tentato di arginarla, sta producendo cambiamenti notevoli negli assetti segnatamente imperialistici e sta producendo effetti catastrofici scaricati, come sempre, sul proletariato internazionale che, come accade in Russia, Ucraina, Cina, Stati Uniti, Inghilterra, un po’ dappertutto, da vita a manifestazioni che diventano sempre più difficili da gestire.
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