La scarsa remuneratività dei capitali e l'enorme indebitamento hanno messo in ginocchio l'economia mondiale

La crisi pandemica, oltre ai dissesti economici creati e alle carenze sanitarie messe in “bella” evidenza, ha intimamente collegato tra loro due fattori volutamente tenuti distinti dalla stampa borghese e dal mondo politico conservatore. Il primo è che questa crisi si è drammaticamente sommata a quella precedente (2008) creando dissesti mai raggiunti dopo la seconda guerra mondiale. Il secondo che ha sbugiardato tutti coloro che hanno artatamente dichiarato la fine della prima crisi, quando tutti gli indici economici dicevano il contrario.

Alla base dello sfacelo economico del capitalismo decadente la crisi pandemica non ha fatto altro che aggravare lo stato precedente della precaria salute del capitalismo mondiale, mettendo in tragica evidenza la sempre maggiore difficoltà dei capitali, ad investimento produttivo, di avere dei tassi di valorizzazione compatibili al rischio dei loro investimenti. Il che si è tradotto, nonostante l'enorme massa di capitali (Q.E.) elargiti dalle Banche Centrali, in una lunga e precipitosa fuga di questi stessi capitali dagli investimenti produttivi, salvo rari casi, per prendere la strada della speculazione. Un altro effetto è stato quello dell'indebitamento degli Stati che, mai come adesso, ha raggiunto livelli insostenibili.

La causa di tutto questo è la lenta ma inarrestabile caduta del saggio medio del profitto. In termini molto semplici, la caduta del saggio medio del profitto è quel fenomeno economico capitalistico che consiste nell'aumento della composizione organica del capitale, ovvero un progressivo aumento del capitale costante nei confronti di quello variabile (forza lavoro), e questo innalzamento del rapporto tra capitale costante e variabile inibisce sempre più pesantemente la possibilità di avere una valorizzazione del capitale investito sufficientemente remunerativa. Lo sviluppo delle forze produttive, l'elevazione della composizione organica che l'accompagna e la conseguente caduta del saggio del profitto non fanno altro che ostacolare il processo di valorizzazione del capitale investito, favorendo la fuga dei capitali dalla produzione reale per indirizzarsi verso la speculazione, aggravando la funzionalità dell'intero sistema produttivo.

La caduta del saggio medio del profitto produce crisi verticali che erroneamente vengono definite finanziarie solo perché esplodono sul mercato finanziario, ma che in realtà sono crisi strutturali dovute alla diminuita rimuneratività degli investimenti produttivi che, a loro volta, spingono una massa sempre crescente di capitali verso la speculazione finanziaria, sino a farla scoppiare come “bolle” di sapone avvelenato che ricadono rovinosamente sulla già critica base produttiva che le ha create. A chiusura del cerchio, gli Stati (governi) devono intervenire per sanare l'intero meccanismo capitalistico e per tentare di rimetterlo in grado di continuare ad estorcere plusvalore ad una classe lavoratrice sempre più esausta e numericamente più esigua in rapporto allo sviluppo delle forze produttive. E gli Stati, nel medesimo tentativo di salvare il salvabile, attraverso le loro Banche centrali si indebitano fino al collo immettendo liquidità nel sistema finanziario (Banche), comprando titoli di Stato e obbligazioni, salvando quegli Istituti di credito too big to fail, troppo grandi per fallire, con il solo risultato di riparare il tetto dell'edificio capitalistico lasciando marcire le fondamenta, che da questo tentativo di “ristrutturazione” rimangono escluse per le ragioni che abbiamo visto. Di tutti questi aspetti prenderemo in considerazione solo quello dell'indebitamento complessivo, quale conseguenza di un sistema economico malato che, pur dibattendosi tra mille ipotesi di uscita dalla crisi, non riesce a venire a capo di nessuna delle sue contraddizioni.

Partiamo dall'Europa prendendo a modello la situazione tedesca, quale punta avanzata del capitalismo del vecchio continente. Secondo la Società di consulenza McKinsey, le misure economiche adottate dalla Germania nei primi tre trimestri del 2020 sono state le più importanti di tutta Europa. Grosso modo corrispondono al 33% dell'attuale Pil, quando le precedenti misure adottate per contrastare la crisi del 2008, erano state “solo” del 3,5% del Pil del decennio precedente. Lo stesso fenomeno si è registrato, con le debite differenze quantitative, in tutti i maggiori paesi dello schieramento capitalistico. Ad esempio in Giappone le medesime misure anticrisi sono arrivate al 22% del Pil. Nella Francia di Macron sono state di dieci volte rispetto al 1,46% del 2008. Anche in Inghilterra si sono toccate cifre simili. Passando dall'altra parte dell'oceano, le spese sostenute dagli Stati Uniti sono state del 14% del Pil, mentre nella crisi precedente avevano toccato la quota del 4,9%, a cui vanno aggiunti i debiti pregressi che fanno degli States il paese più indebitato al mondo.

Secondo le fonti statistiche del FMI, la crisi pandemica verrà a costare non meno di 12 mila miliardi di dollari, senza contare la possibilità di una terza ondata di criticità e del suo ancora più allarmante fardello economico finanziario. Pur rimanendo nella prima ipotesi (quella del secondo lockdown), saremmo in presenza di una cifra pari al 12% del Pil mondiale, il che equivale, secondo il Wall Street Journal, ad elevare il debito pubblico di tutti questi Stati di un ulteriore astronomico 100% del Pil mondiale, qualora si verificasse un terzo lockdown. Va inoltre messo in evidenza come l'ammontare del debito complessivo, cioè comprensivo di quello delle famiglie, delle imprese e degli Stati, aveva già raggiunto e superato i livelli di guardia nei primi tre mesi del 2020, arrivando a toccare il 331% del Pil mondiale. Complessivamente, nei maggiori paesi industrializzati, già a partire dal primo trimestre del 2020 l'ammontare del debito è passato dal 380% al 392% del Pil mondiale, mentre i cosiddetti paesi emergenti, che nell'anno precedente avevano accumulato un debito pari al 220% del loro Pil, sono passati al 230% in pochi mesi di pandemia. Persino per la Cina, che per prima è uscita dalla crisi, anche se con incrementi del Pil molto bassi, il debito complessivo si aggirerebbe attorno al 335%, sempre nel solito primo trimestre del 2020.

A fronte di tutto questo sfacelo finanziario la FED aveva, prima delle due crisi, un attivo appena inferiore a mille miliardi di dollari. Dopo la crisi del 2008 era diventato un deficit di oltre mille miliardi, per arrivare al secondo trimestre del 2020 a toccare i cinquemila miliardi. Per quanto riguarda il vecchio continente, le cose non vanno meglio. I bilanci negativi della BCE sono passati da mille miliardi di euro del 2008 agli attuali 7 mila miliardi e tutto fa pensare che la cifra sia destinata ad aumentare velocemente.

La scontata conclusione è che le devastanti conseguenze della crisi da saggio del profitto, aggravate dalla crisi pandemica, che insieme hanno costretto gli Stati capitalisti di prima e seconda fascia ad indebitarsi all'inverosimile sino a giungere sull'orlo del collasso, si stanno scaricando sul tessuto sociale con la forza di un incontrollabile tsunami. A farne le spese sono tutti i settori dell'apparato produttivo, dalle grandi imprese al terziario, dalle medie imprese al settore alberghiero, dalle piccole imprese alla ristorazione. Il terrore per i capitalisti, piccoli o grandi, è che se la crisi pandemica dovesse avere una terza fase, l'intero sistema capitalistico tremerebbe dalle fondamenta. Tale è la paura che tutti i leader politici d'Europa e degli Usa, nonché degli altri paesi ad alta industrializzazione, sulla scorta di quanto annunciato dalla Merkel, si sono precipitati a sollecitare il mondo salariato a continuare a lavorare per salvare la moribonda carcassa capitalista, senza pretendere aumenti salariali o contratti gravosi per le imprese.

L'imperativo che ne discende (anche se non esplicitamente dichiarato) è quello di lavorare anche nelle peggiori condizioni di sicurezza e di fare ulteriori sacrifici, anche quello supremo della morte per Covid, perché morire per il capitale, tramite pandemia, è un sacrificio che il dio profitto tiene sempre in debita considerazione, ma senza ricambiare in nessun modo, perché è a lui dovuto in quanto unico e immanente scopo di questa decadente società.

Scopriamo “l'acqua calda” quando diciamo che a pagare questo sfacelo sarà sempre il mondo del lavoro attraverso uno sfruttamento sempre più intenso e, in questo caso, anche con gravi prospettive di subire una “economica infettività di gregge” mai vista nella storia recente.

A simili prospettive occorre opporsi con tutte le forze a disposizione. Rifiutare di barattare la necessità del lavoro con la “sicurezza” sul lavoro. Pretendere che una quota più consistente dei finanziamenti della BCE ( sempre che la imbelle borghesia italiana sia in grado di mettersi in condizione di riceverli) vada a sostegno dei lavoratori (allungamento del periodo di cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti), anteponendola alle necessità della produzione capitalistica. Senza però dimenticare che in regime capitalistico qualunque richiesta da parte della classe lavoratrice e produttrice, anche la più legittima, rischia di rimanere al palo se si scontra con le compatibilità del sistema. Per cui va messo nel mirino delle lotte il sistema capitalistico attraverso una ripresa della lotta di classe contro il capitale. Ripresa che per essere tale deve avere la forza di cancellare dal suo programma quelle richieste di riforme radicali ( Patrimoniale, Lavorare tutti, lavorare meno al medesimo salario, Facciamo pagare la crisi ai borghesi ecc.) che creano l'illusione di una possibile e radicale riforma del capitalismo o di una sua conquista dall'interno, illusioni che porterebbero il proletariato alla sconfitta.

Sarebbe l'ennesima sconfitta senza un minimo accenno alla necessità di abbattere questo sistema sin dalle fondamenta e di proporre un'alternativa sociale e rivoluzionaria quale imprescindibile condizione per iniziare a costruire quella nuova società in cui, svincolati delle leggi del capitale, sia possibile produrre per i bisogni sociali e per una distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, secondo le necessità sociali ed individuali. Tutto il resto appartiene alla fumosa galassia degli idealismi impotenti, dannosi politicamente per chi li propone, mortali per i lavoratori e per la ripresa della lotta di classe. Solo attraverso un radicale rovesciamento rivoluzionario del capitalismo le utopie idealistiche del radical riformismo possono diventare concrete realtà.

FD
Mercoledì, January 6, 2021