Gli accordi tra Cina e le Isole Salomone

Dopo la guerra tra Russia e Ucraina, gli accordi tra Cina e le Isole Salomone mettono in fibrillazione l’imperialismo americano, rendendo esplosiva tutta l’area dell’indo-pacifico.

Ai primi di aprile si sono tenuti i preliminari di un “accordo di sicurezza” destinato ad entrare in vigore a maggio di quest’anno. Formalmente il trattato prevede che il primo ministro dell’arcipelago delle Salomone rompa ogni rapporto con l’isola di Taiwan e riconosca la Cina come titolare storico dell’isola stessa. In compenso, Pechino darà sostegno economico e finanziario alle Salomone, povere quasi di tutto e tutela militare in caso di pericolo esterno.

In realtà questi accordi concedono anche la possibilità alla Cina di sfruttare le poche risorse minerarie presenti (rame, bauxite, un po' di oro, piombo e nichel), di stabilire al più presto una base militare, anche se formalmente il governo del primo ministro Manasseh Sogavare non la prevederebbe. In sintesi, soldi in cambio di tutto il resto. E’ la politica del soft power che la Cina adotta da anni in tutte le parti del mondo dove i suoi interessi imperialistici la spingono.

Normale prassi di un imperialismo in cerca di vantaggi economici, sembrerebbe, ma non è solo così.

Ciò che rende l’accordo tra il colosso cinese e il piccolo arcipelago nell'indo-pacifico va contestualizzato sotto tre aspetti strategici di grande rilevanza. Il primo consiste nel tentativo di Pechino di essere militarmente presente in un’area marittima che da sempre è stata considerata la “piscina di casa” di Australia e Nuova Zelanda, ovvero degli alleati dell’emisfero sud degli Stati Uniti. Obiettivo per altro già parzialmente raggiunto con l’isola di Tonga, da qualche anno caduta sotto il patrocinio cinese. Il secondo rappresenta un segnale chiaro e forte a Washington che gli obiettivi di Pechino sono irrinunciabili, a partire dalle pretese su Taiwan sino ad arrivare a sfidare il “Quad”, che costituisce una importante alleanza tra Australia, Giappone, India e Usa, costituitasi appositamente per contrastare le mire espansionistiche della Cina nel Pacifico del sud. Il terzo è rappresentato dalla cornice di crisi permanente del capitalismo mondiale che favorisce, se non impone, tensioni belliche in tutte le aree del mondo a rilevanza strategica per i maggiori imperialismi. Tensioni che producono guerre “isolate”, ma con la compartecipazione diretta o indiretta di un pletora di imperialismi, mossi all’interno di contrastanti alleanze destinate ad allentarsi, se non a rompersi, come nel caso della guerra di Ucraina. Con il rischio che simili episodi possano sia chiudersi in un arco di tempo più o meno breve, ma essere anche la premessa di una guerra generalizzata dalle conseguenze catastrofiche.

Nello specifico della invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Cina ha assunto un atteggiamento apparentemente terzo ossia lavorare per una soluzione negoziale, niente armi alla Russia, ma, contemporaneamente, uso del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per impedire una condanna a Putin per delitti contro l’umanità e no alla sanzioni che minacciano la stabilità interna della Russia, e non solo. Nel discorso del 21 aprile, il presidente cinese Xi Jinping, in un perfetto stile politichese, parlando della crisi russo-ucraina, ha voluto porre l'accento sul fatto che la Russia è stata costretta ad intervenire militarmente per rompere l’accerchiamento della NATO e che gli Usa dovrebbero smetterla di considerarsi quale unico polo imperialistico mondiale perché, oltre a vedersela con la Russia attraverso la solita NATO, dovrebbe guardarsi dagli “interessi legittimi “ di Pechino su Taiwan, per non parlare della traballante sudditanza europea che sull’embargo del gas russo ha mostrato non poche titubanze, Germania in primis, ma anche Francia e Italia. Il tutto come a dire che la fase del monopolio imperialistico Usa è finito, che il mondo non può più essere ai piedi degli interessi Usa in campo economico e finanziario né, tanto meno, strategici. Tradotto in termini ancora più espliciti, il discorso di Xi Jinping è stata una non tanto velata dichiarazione di guerra agli Usa qualora interferissero nei piani strategici di Pechino che vanno dalla costruzione della nuova “via della seta”, alla difesa degli alleati, in questo caso la Russia (e il suo gas), che nel frattempo ha raddoppiato le forniture alla assetata Cina. Infine, ma non certo da ultimo, alle interferenze sulla riunificazione di Taiwan alla “madre patria” e alla necessità di una presenza militare oltre che economica nell'Indo-Pacifico, a partire dall’isola di Tonga e Isole Figi, dove vivono già 10 mila cinesi in veste di imprenditori, finanziatori e consiglieri militari per arrivare, per il momento, alle isole Salomone.

La tensione è alle stelle. Alla notizia della firma del “patto di sicurezza” tra Cina e le isole Salomone, una delegazione americana si è recata nella capitale Honijara dell’arcipelago per dissuadere, senza successo, il presidente Manasseh Sogavare a ritrattare l’accordo. Per tutta risposta Pechino, per voce del ministro degli esteri Zhao Lijian, ha immediatamente assunto misure atte a tutelare “la sovranità e l'integrità della nazione”. In aggiunta alle dichiarazioni verbali, si è mosso l'esercito “popolare” cinese, tenendo improvvisamente manovre navali di sorveglianza e di pattugliamento intorno all’isola di Taiwan e in tutto il Mar cinese orientale, con tanto di schieramento di navi da guerra, portaerei, cacciatorpediniere e sei jet che coadiuvavano le manovre navali sottostanti.

A est come a ovest, in Europa come in Asia la crisi si approfondisce. Lo sfruttamento economico e il condizionamento nazionalistico marciano di pari passo. La faglia della guerra si sta pericolosamente allungando. Kiev e Taipei sono distanti migliaia di chilometri, ma il loro destino potrebbe essere temporalmente molto vicino. Lo scenario che drammaticamente potrebbe aprirsi farebbe apparire le guerra tra Russia e Ucraina come una rissa tra ubriachi. Le tensioni tra Cina e Taiwan, le penetrazioni di Pechino nelle isole Tonga, Figi e Salomone, potrebbero scatenare ben altri conflitti. Gli schieramenti sono dati e gli obiettivi individuati. La Russia vuole il Donbas, il controllo delle rive occidentali del Mar Nero, da Mariupol sino possibilmente ad Odessa, annettersi informalmente la Transnistria e impedire che l’Ucraina, né adesso né mai, entri a far parte della NATO e vuole continuare ad essere il pusher energetico per l’Europa. La Cina vuole a tutti i costi “riprendersi” Taiwan, giocare un ruolo militare nell’Indo-Pacifico. La NATO contro la Russia, il QUAD contro la Cina, ma con una sostanziale differenza. Mentre gli Usa possono permettersi il solito “lusso” di servirsi della NATO per combattere il nemico russo in territorio ucraino, trascinando a stento i paesi europei e finanziando in soldi e armi chi combatte per loro, nell’area indo-pacifica le cose sarebbero più difficili. Nel QUAD, ovvero la Nato del Pacifico, sebbene composta da paesi i cui interessi sono contrari ad uno sviluppo cinese nell’area di loro competenza e di cui temono l’inquietante presenza nelle isole Tonga, Figi e Salomone, ci sarebbero più astensioni che in Europa. L'India, pur avendo pesanti contrasti con la Cina, riceve gas e petrolio dalla Russa e la sua politica nei confronti di un totale allineamento ai i diktat americani non è detto che sia certa, essendo Mosca alleata con Pechino. Inoltre l’India si è espressa negativamente, come la Cina, sulla applicazione delle sanzioni alla Russia volute da Biden. La Nuova Zelanda amerebbe la neutralità, rimarrebbero solo l’Australia e il Giappone. Non poco, ma in caso di confronto bellico con la Cina gli Usa sarebbero costretti ad un intervento diretto e non delegato ad altri, limitandosi a foraggiare gli alleati in termini di capitali e di armamenti, sempre ammesso che i suoi alleati del Quad siano disposti ad entrare in guerra per conto terzi.

Allora sì che lo spauracchio di una guerra generalizzata prenderebbe corpo, facendo scendere in campo, in prima persona, le più importanti centrali imperialistiche internazionali, Russia, Cina e Usa con i rispettivi alleati strategici e occasionali.

Come evitare un possibile, tragico scenario che il capitalismo sta preparando per superare le sue crisi? Con il pacifismo che non ha fermato nessuna guerra e nella fantasiosa, quanto improbabile ipotesi ci riuscisse, lascerebbe al suo posto lo stesso capitalismo con tutte le sue contraddizioni ritardando, al massimo solo temporalmente, l’evento bellico? Ovviamente la risposta è NO. Il capitalismo da sempre ha prodotto guerre per conquistare mercati delle materie prime, per il predominio dei mercati delle divise (oggi scontro tra euro, rublo, yuan e dollaro), per distruggere valore capitale, per avere gli spazi per ricostruire e rimettere in moto la macchina del profitto, per perpetuare se stesso e il suo rapporto con lo sfruttamento della forza lavoro. L’unica soluzione possibile è unicamente quella relativa al muoversi della forza lavoro contro il capitale e le sue guerre. Ma perché ciò avvenga occorre che il proletariato internazionale si doti di una guida rivoluzionaria, esca dai condizionamenti nazionalistici, dal pensiero dominante della borghesia e che non si faccia illudere dai falsi miti di un capitalismo di Stato contrabbandato per socialismo.

Mai come in questa fase, da Mosca a Kiev, da Pechino a Taipei, da Washington ai quattro angoli del mondo, il motto “o guerra o rivoluzione” può e deve riprende ad avere un senso. Solo la classe degli oppressi dal capitale può adempiere a questo compito storico. Altrimenti il maturare della crisi produrrà guerre sempre più devastanti e per i proletari di tutto il mondo il futuro sarà quello di morire per la propria borghesia, schierata su di un fronte imperialista piuttosto che di un altro, e mai per i propri interessi che sono all’opposto di quelli per cui sono costretti a combattere. Contro la guerra per la lotta di classe. Contro il capitalismo per il comunismo, Contro tutti i nazionalismi per l’internazionalismo proletario.

Vecchi slogan? Vetuste parole d’ordine? Sì ma sempre valide, fintanto che si lascia in vita il capitalismo con tutte le sue nefaste conseguenze.

FD, 2022-04-24
Lunedì, April 25, 2022